NON SONO IO di Anabel Gonzalez – Recensione

Molto spesso l’arrivo in terapia è legato ad una richiesta di aiuto per l’emergere di pensieri, emozioni, comportamenti o sensazioni fisiche che vengono riconosciuti come problematici o estranei a come le persone sono abituate a percepire se stesse, il loro corpo o le loro relazioni. “Non sono io”, “Non è da me aver paura”, “Non mi riconosco più”, “Ho perso il controllo”.

I sintomi insomma: attacchi d’ansia, pensieri intrusivi, voci interne, giudizi negativi e ricorrenti su di sé, sugli altri o sul mondo, esplosioni di rabbia incontrollata, pianto, tristezza, solitudine, dolori fisici, preoccupazioni per la salute, difficoltà nel prendere decisioni, apatia, stanchezza cronica, angoscia. Ogni manifestazione di malessere ha la sua storia e sarà importante approfondirne l’esordio, l’intensità, la durata nel tempo e collocare per quanto possibile questo malessere in una traiettoria di vita che lo ha preceduto, provando poi a costruire una traiettoria che lo seguirà, in cui quel malessere troverà una comprensione e una ri-soluzione.

Quello che tuttavia tutti questi “sintomi” hanno in comune, con diversi gradi di intensità e profondità, è la percezione chiara che siano “intrusi”, “ostacoli” al benessere emotivo e mentale. Non me, appunto: pensieri che non vorrei avere o che non riconosco utili, comportamenti che non corrispondono alle mie scelte, sensazioni corporee che arrivano contro ogni previsione, emozioni che mi travolgono senza che io possa controllarle o comprenderle. Ricordi che vorrei dimenticare, ma che tornano nelle immagini e nei sogni. Di nuovo: non sono io, non è la mia storia.

Di recente uscita in italiano il testo di Anabel Gonzalez “Non sono io. Imparando a comprenderci.” (2020), è un libro di auto-aiuto e psicoeducazione sugli effetti a lungo termine di eventi traumatici o di traumi dello sviluppo che conducono spesso a questo senso di estraneità verso noi stessi, verso le nostre emozioni e pensieri, verso quello che ci è accaduto.

Non sono io, di Anabel Gonzalez
(2020)

Comprendere è il primo passo per iniziare a cambiare, mantenere un’attitudine aperta, curiosa e non giudicante è però al tempo stesso difficile da realizzare, ma fondamentale per procedere verso una maggiore integrazione e guarigione. Compito non facile, ma più affrontabile con una guida esperta. I sintomi sono spesso percepiti come eventi esterni che irrompono nel quotidiano e che spezzano una routine che fino a quel momento sembrava scorrere serena o che almeno non ci lasciava impotenti, frustrati o disperati. Se “non sono io”, posso sentirmi non colpevole o responsabile del mio malessere, posso sentirmi vittima di una situazione ingiusta, posso anche riconoscere legittimamente che alcuni eventi esterni hanno causato un malessere di cui avrei fatto volentieri a meno e questo è spesso un buon inizio per capire da dove arriva la sofferenza che oggi ci disturba. Ma se non sono io, cosa può aiutarmi a cambiare?

E’ molto vero che spessissimo alcune situazioni traumatiche vissute nell’infanzia o nella vita adulta possono lasciare un segno e una sofferenza che non avremmo avuto senza il verificarsi di quelle particolari e drammatiche circostanze ed è altrettanto importante ri-collocare le responsabilità effettive degli eventi che ci hanno ferito o fatto sentire impotenti. Soprattutto se quello che ci è accaduto è avvenuto nell’infanzia e in un tempo in cui non potevamo fare niente per cambiare le cose. Senza questo, diventa impossibile accedere a qualunque sforzo di comprensione e guarigione.

Tuttavia nel tempo diventa altrettanto importante fare per noi stessi alcuni passi in più: comprendere profondamente che le esperienze che pure ci hanno modificato ingiustamente non sono purtroppo eliminabili, ma solo superabili e che per guarire abbiamo bisogno di includere e accogliere gradualmente nella nostra mente e nel nostro corpo proprio le emozioni, i pensieri, il dolore che dopo quegli eventi è diventato parte della nostra traiettoria di vita, provando a non rifiutarlo, a non costringere parti di noi a restare alienate e nascoste perchè non allineate al “me” che sento giusto, positivo e orientato al futuro che vorrei. Molto semplice, per niente facile da realizzare.

Alcune chiavi proposte per riflettere su molti aspetti importanti riguardano il porsi le domande giuste: Come siamo abituati ad aiutarci nei momenti di difficoltà? Cosa facciamo per stare meglio? Come siamo abituati a proteggerci?

Le emozioni negative sono un segnale di qualcosa che ci sta succedendo all’interno, non sono un ostacolo al nostro benessere ma lavorano al contrario in nostra protezione. Provare a porsi le domande giuste ed esplorare con curiosità le nostre emozioni, è un buon inizio per un dialogo interiore più costruttivo e orientato a comprendere meglio il presente.

Cosa faccio per aiutarmi se sono triste? Cosa mi dico quando sono arrabbiato? Cosa mia aiuta quando sono in ansia? Cosa mi fa bene? Se le emozioni sono un segnale da cogliere, allora il punto non è eliminare le emozioni negative ma imparare a regolarle dentro e fuori di noi. Regolarle non ha a che fare con il controllarle o con il limitarle o con l’inibirle, al contrario regolarle ha più a che fare con la possibilità di tollerarle, accompagnarle e contenerle dentro di noi, rispettandone il messaggio e provando a portarlo fuori di noi nelle condizioni migliori possibili, in modo che venga cioè ascoltato e compreso al meglio. Un grande impegno che passa sia dall’intuizione e dal riconoscimento delle proprie emozioni, ma anche dall’ “allenare” quotidianamente le capacità che non ci hanno insegnato o trasmesso nell’infanzia. Ovviamente essere “costretti” ad imparare per noi stessi, quello che avremmo in realtà dovuto riceve di diritto “ascolto”, “accettazione”, “amore”, “attenzione”, non è né facile né privo di ambivalenze, ma dall’altro lato restare nella stessa posizione difficile in cui siamo stati nell’infanzia e sperare (o attendere) che gli altri riparino le nostre ferite è una prospettiva altrettanto pericolosa e nociva per la nostra vita adulta.

Il messaggio è chiaro: prima riusciamo come adulti a capire che siamo noi gli unici a poterci “rimettere alla guida” del nostro sistema emotivo, prima riusciremo a orientarci con amore e compassione verso quello che potrà renderci felici. Ma chi è l’adulto che guida?

Non sono io (che devo guidare)” spesso è la risposta implicita che prende forma in tanti pensieri e credenze bloccanti: “non ce la faccio”, “non è giusto”, “non sono capace”, “sono inadeguato”, “sono un fallito”, “sono impotente”, “sono fragile”, “sono debole”.

Spesso la richiesta alla psicoterapia è proprio trovare qualcuno che guidi al posto nostro, anziché qualcuno che ci insegni a guidare in modo autonomo. E non è sempre piacevole scoprire nel tempo che siamo noi a dover imparare. Niente è tuttavia semplice da realizzare, senza tempo, cura e dedizione.

Riconoscere bisogni ed emozioni interne, può certamente diventare una sfida molto molto complessa se abbiamo vissuto esperienze traumatiche intense e precoci, soprattutto quando i traumi hanno riguardato le primissime esperienze relazionali. I traumi relazionali precoci che espongono troppo presto nella vita ad un senso di paura e minaccia, magari proprio in famiglia laddove avremmo dovuto ricevere sicurezza a protezione, lasciano chiaramente grande frammentazione e smarrimento. In questa divisione interna può diventare molto difficile identificare e distinguere emozioni, bisogni e obiettivi. La sensazioni di “non essere io” è in questi casi molto più frequente e potente: la mente ha avuto nel passato e ha ancora nel presente la necessità di relegare (o dissociare) molte esperienze negative in angoli della mente in cui il dolore e i ricordi possono essere almeno temporaneamente sospesi o inascoltati.

La frammentazione dell’identità di cui parla Anabel Gonzalez è proprio il risultato della mancanza di uno sguardo attento, di quello specchio fondamentale nelle prime relazioni sigificative, che ci permette di esprimere un’emozione e di sentirla legittima, perché ascoltata, accolta e non-giudicata. Quando le nostre normali emozioni ricevono troppo precocemente rifiuto, critiche o minacce, impariamo presto a rifiutarle e a sviluppare l’automatismo appreso che sia meglio eliminare e distruggere le parti di noi che gli altri rifiutano. Di solito tuttavia si tratta delle parti più sofferenti, vulnerabili e arrabbiate: quelle che avrebbero cioè più bisogno di noi.

Ogni trauma può essere affrontato ed elaborato, ma questo rifiuto di parti di sé è spesso l’ostacolo più grande da superare, se non affrontato con la sicurezza, il rispetto e i tempi necessari. Per questo risultano fondamentali nel libro i capitoli dedicati alla cura di sé, alla capacità di proteggersi, alla possibilità di sviluppare un dialogo interno orientato innanzitutto alla cura di sè: “cosa mi fa bene?”, “cosa posso fare per stare bene ora?”. Di nuovo diventa importante porsi le domande giuste, poiché spesso chi non ha ricevuto cure adeguate nell’infanzia, fatica a sentire la motivazione a prendersi cura di sé e della propria salute, a sentirne l’esigenza e men che mai il desiderio. Quando questo non si attiva in modo spontaneo, può però diventare un’attitudine da imparare a coltivare ponendoci le domande giuste.

Inutile chiedersi se abbiamo voglia di fare sport allora, meglio chiedersi se ci farà bene farlo. E’ rischioso chiederci se abbiamo voglia di uscire quando la tristezza e la solitudine dell’infanzia riaffiorano improvvisamente insieme al dolore, è più saggio chiederci se fare una passeggiata ci farà sentire bene o almeno un po’ sollevati poi.

Le domande giuste possono aiutarci meglio di soluzioni pronte all’uso, soprattutto laddove le solite soluzioni ci sembrano vicoli ciechi perchè non abbiamo avuto la guida giusta nel passato.

Il libro di Anabel Gonzalez è una guida per tutti, uno spunto di riflessione in cui ogni “domanda giusta” può diventare un seme da coltivare e far crescere con tutta la cura e l’attenzione di cui siamo capaci. Ogni piccolo passo può aiutare ad integrare aspetti di noi prima rifiutati, ad imparare che come adulti abbiamo davvero molte possibilità che prima non avevamo, a sentire che l’adulto che siamo ha l’opportunità di sentirsi più completo, forte e gratificato se ogni parte di sé può dare il suo contributo.

Coronavirus: proteggere, proteggersi

Il nostro sistema nervoso sta vivendo un paradosso difficile: la possibilità di affrontare la paura e il senso di minaccia grazie alla vicinanza con altri esseri umani è impedita da un distanziamento sociale che dovrebbe salvarci la vita e che è necessario rispettare. Che fare? Intanto ricordare che la possibilità di ingaggio sociale per noi esseri umani è sempre attiva e presente nel nostro sistema nervoso e possiamo ancora stimolare – anche a distanza – quel senso di connessione che ci fa sentire più al sicuro e più compassionevoli per gli altri: ricordiamoci che la voce, l’espressione del volto, lo sguardo sono regolatori fondamentali e molto efficaci per la nostra specie, se possiamo usiamo videochat o telefono per sentire gli altri vicini e per darci il segnale di sicurezza di cui tutti abbiamo bisogno ora come esseri umani: “Come stai? Sono ancora qui per te!”

Ce lo spiega nel dettaglio Stephen Porges (nel video che segue), neurofisiologo e ricercatore esperto nella filogenetica del nostro sistema nervoso autonomo e in particolare del nostro sistema di difesa, responsabile dei meccanismi di sopravvivenza essenziali per la nostra specie.

Come proteggersi e come proteggere dunque con risorse limitate? Cosa viene riattivato nel nostro sistema emotivo dalla situazione anomala che stiamo vivendo?

L’isolamento, la distanza, la vulnerabilità, la costrizione, le regole imposte, la paura di morire, la paura per i propri cari, il senso di essere piccoli di fronte a qualcosa di grande e fuori controllo. Ovviamente la assoluta novità è essere di fronte ad un fenomeno che ci coglie impreparati: non abbiamo immunità al virus, così come non abbiamo immunità alla paura di una pandemia perché nel 2020 la memoria di antiche epidemia è lontanissima e inefficace a darci strategie immediate, soprattutto in un mondo che risulta essere radicalmente diverso e in frenetico movimento, rispetto a fenomeni analoghi del passato. Per ora si può restare a casa e limitare i danno. Come fermarsi?

Di seguito alcune riflessioni cliniche scritte e condivise in un mio recente contributo pubblicato su State of Mind e che coinvolge alcuni aspetti emotivi, cognitivi e relazionali che ho incontrato nelle ultime settimane di lavoro e di vita.

Ecco il contributo: https://www.stateofmind.it/2020/03/coronavirus-quarantena-trauma/

Spero possa essere di aiuto alla riflessione e di sostegno alla costruzione di strategie di resilienza utili a correre questa “maratona”, che richiederà un continuo rinnovamento di risorse da conservare e produrre ben oltre le aspettative iniziali.

Buona lettura!

Self-Compassion: ascoltare le proprie voci interiori

A seguito di eventi di vita traumatici è esperienza comune udire voci e vivere una frammentazione del sé difficile da gestire nelle più comuni attività quotidiane. Voci critiche, spaventate o impotenti possono condizionare la possibilità di rileggere il mondo per quello che è e creare continue sensazioni di sopraffazione e panico.
Le voci sono sintomi di diverse condizioni psicopatologiche e necessitano un approfondimento puntuale con un professionista che sappia esplorarne le caratteristiche e i contenuti. La presenza di sintomi psicotici viene spesso associata a schizofrenia ma non è sempre questo l’unico quadro clinico in cui si presentano.
Più spesso le voci interne sono il risultato di un adattamento della mente a situazioni traumatiche che hanno provocato dolore e sofferenza, cui il sistema emotiva ha dovuto reagire creando una divisione interna del sé utile a superare le difficoltà del momento, ma costosa in termini adattivi e nei suoi effetti a lungo termine. Di fronte a situazioni imprevedibili, soverchianti e senza sbocco, la mente umana sviluppa una incredibile capacità di fronteggiare gli eventi, ottimizzando le risorse per raggiungere la migliore sopravvivenza possibile. Ecco a cosa ci serve dividere il nostro sé in parti diverse: ogni voce interiore nasce in un contesto emergenziale in cui la sua presenza è servita alla persona per sopravvivere emotivamente e fisicamente a situazioni avverse, specie se avvenute nell’infanzia.
Voci bambine spaventate e ansiose possono avere la funzione di conservare e manifestare intensamente un bisogno di vicinanza e protezione che altrimenti temono di non riuscire a soddisfare; voci critiche e svalutanti possono nascere in momenti di pericolo in cui abbiamo avuto bisogno di combattere e non “perdere” tempo con emozioni dolorose e possono aver insegnato a non sentire, a non essere vulnerabili, a non mostrarsi mai impreparati. Voci minimizzanti e iper-razionali possono essere l’evoluzione di un necessario istinto di evitare il dolore e possono ostacolare le più normali attività quotidiane, facendo sentire chi le vive completamente inadeguato ad affrontare rischi, con l’obiettivo più alto di evitare in modo assoluto il rischio di deludere se stessi e gli altri. La procrastinazione può nascere da queste voci interne che si insinuano nel presente offrendo una via di fuga veloce a costo di rinunciare alla propria soddisfazione: è più sicuro rimandare, lasciar perdere, non lottare perché tanto è inutile, arrendersi per non soffrire di nuovo. Voci arrabbiate e minacciose possono invece nascere da situazioni in cui non è stato possibile difendersi e allora il sistema emotivo è portato a conservare quella reazione inespressa e ad usarla tutte le volte che incontriamo un ingiustizia o subiamo un torto; anche queste voci servono a ricordare al sistema emotivo il diritto di difesa, ma la loro intensità a volte può superare le effettive necessità del presente e rendere impossibile difendersi nei modi che essa impone. Voci suicidarie possono costituire una presenza insidiosa e difficile da individuare, ma spesso restano sullo sfondo del sistema emotivo come ultima ratio, a volte possono manifestare la loro potenza in comportamenti autolesivi. L’ultima arma della mente per evitare il dolore. A volte di tratta di voci più attive che possono portare a mettere a rischio la vita, altre volte si presentano come voci più fredde, sarcastiche, razionali pronte a offrire una soluzione estrema di fronte alla paura o alla vergogna di ri-sentire il dolore vissuto.
Nessuna parte di noi, neanche la più aggressiva, nasce nel nostro sistema con un intento distruttivo o masochistico. Anche le voci più estreme, costituiscono un estremo tentativo di protezione. Avvicinarsi a queste voci può far paura, ma un lavoro terapeutico che riesca a guidare verso una migliore comprensione di come la mente umana impara a difendersi dagli attacchi esterni, può in molti casi aiutare a capire il manifestarsi di stati interni angoscianti o conflittuali che altrimenti risulterebbero inspiegabili.
Nella terapia del trauma è centrale favorire lo sviluppo di una nuova parte di sé compassionevole, benevola e attenta ai bisogni e alle necessità di ogni parte. Ogni voce interna ha avuto un ruolo nella sopravvivenza e merita un posto nel processo di guarigione. 

“La compassione è il coraggio di calarsi nella realtà dell’esperienza umana.”

“Compassion is the courage to descend in to the reality of human condition”

Paul Gilbert

Il filmato che segue è un bellissimo contributo in questa direzione di cura e comprensione di come il trauma può influenzare la mante umana e di come il coraggio e la compassione verso se stessi possano essere la via più sicura per accompagnarsi fuori dal dolore.

Dovevi reagire! Sopravvissuti sotto attacco

Sono ormai note le reazioni emotive più comuni legate allo stress post traumatico: allerta, ipervigilanza, flashback, reazioni di evitamento, immagini intrusive degli eventi traumatici, distacco emotivo, dissociazione, alterazioni della coscienza. Ma la società è davvero pronta a capire?
Ogni essere umano è unico e speciale nelle sue caratteristiche, nella sua evoluzione e nella sua irripetibile storia. Tuttavia di fronte a pericoli potenzialmente mortali diventiamo tutti uguali e riveliamo un range molto più limitato di reazioni possibili: l’attacco, la fuga, l’immobilizzazione (congelamento o resa), lo svenimento. Ognuna di queste reazioni di fronte ad un pericolo di vita è guidata da pattern automatici che il nostro cervello rettiliano – il più antico e più legato alla sopravvivenza – mette in atto senza la mediazione della corteccia, e quindi senza una nostra capacità decisionale, intenzionale e volontaria, e seguendo una precisa gerarchia emergenziale: per un pericolo di vita ancora affrontabile il nostro cervello rettiliano ci “suggerisce” di provare a combattere e reagire, se il pericolo è inaffrontabile le gambe si mettono in moto per fuggire, se il pericolo è soverchiante e non possiamo fare più nulla per evitarlo il sistema nervoso ci spegne letteralmente e restiamo immobili, per restare nascosti (congelamento) o per non sentire il dolore o il terrore estremo della morte (resa o svenimento).

La ragione di questa organizzazione automatica e gerarchica del nostro sistema nervoso è semplice: se siamo in emergenza l’elaborazione cosciente delle informazioni sensoriali sarebbe troppo lenta per metterci in salvo! Per questa ragione l’evoluzione ha lasciato nel nostro sistema nervoso la possibilità di avere reazioni emotive e comportamentali istintive e non mediate dal ragionamento. Fin qui tutto chiaro e ampiamente documentato dalle neuroscienze e in particolare nel lavoro di ricerca del Dott. Stephan Porges nella sua Teoria Polivagale (vedi altri contributi sul tema).
Ma quali risposte siamo davvero in grado di accettare, culturalmente ed emotivamente?
Una volta superato il pericolo di vita e rientrati in un contesto di sicurezza fisica, relazionale ed emotiva la mente riprende il suo funzionamento regolare, reimmettendo la nostra coscienza nel flusso abituale di pensieri, ragionamenti, emozioni, comportamenti e reazioni che normalmente regolano la nostra quotidianità, le nostre scelte e relazioni. A questo punto la complessità  che ci contraddistingue come esseri umani emerge, lasciando spazio alla riflessione, alla valutazione di quello che ci è accaduto e al giudizio sulla qualità e sul valore delle nostre reazioni. Dimentichiamo che abbiamo delle reazioni innate e uguali per tutti i mammiferi e iniziamo a giudicare positivamente o negativamente noi stessi in base alla forza mostrata nel combattere, alla velocità con cui siamo scappati via o più spesso nell’autobiasimo rispetto a quello che avremmo dovuto o potuto fare. Un ultimo tentativo della  mente di recuperare controllo su quello che ci è accaduto, che si rivela tuttavia e troppo spesso un ostacolo alla guarigione e al superamento del trauma.
La gazzella una volta fuggita dal leone, torna a cercare cibo e ad unirsi al suo branco senza ricevere giudizi e senza tormentare se stessa per essere stata vittima di un attacco. Noi no, e questo complica un bel po’ le cose.
Nell’intervista a Stephan Porges che segue, recentemente pubblicata su The Guardian, emerge una riflessione importante: quali reazioni umane sono davvero tollerate dalla nostra società? La comprensione del nostro funzionamento mentale può affrancarci dal giudizio o dall’autobiasimo?
The Guardian: Intervista a Stephan Porges “Survivors are blamed because they don’t fight”
La nostra cultura occidentale sembra premiare le risposte di attacco e le reazioni di sfida, riesce appena a tollerare le reazioni di fuga come ultima ratio, ma mostra un pericoloso e inspiegabile disprezzo per le reazioni di sottomissione e resa, altrettanto automatiche e necessarie come le prime due. Anzi, la sottomissione e la resa sono le uniche reazioni salva-vita quando siamo davvero in condizioni estreme, inevitabili e insostenibili. Sottomettersi, arrendersi, non reagire sono in certi casi la reazione più saggia possibile. Ma purtroppo non siamo gazzelle.
Allora i sopravvissuti che non hanno potuto lottare o che non hanno trovato una via di fuga diventano per la collettività persone da giudicare: deboli, fragili, inette, senza forza di volontà o che addirittura volevano intimamente e inconsciamente vivere il trauma che ha segnato la loro vita! Un clamoroso errore di valutazione, comune tra i clinici come tra i non addetti ai lavori.
Il risultato culturale – che poi diventa clinico e sintomatologico per i sopravvissuti – si traduce in una trappola di vergogna e di colpa davvero difficili da elaborare e spesso peggiori, perché più duraturi, degli eventi traumatici che pur hanno attraversato.
Questo giudizio è ad oggi culturalmente inaccettabile oltre che scientificamente scorretto, sebbene racconti anch’esso la natura umana di fronte al dolore: il rifiuto della violenza, la paura del dolore fisico e mentale, l’impossibilità di ammettere le manifestazioni più crudeli dell’essere umano, in una parola: la negazione, del trauma e dei suoi effetti.
De-responsabilizzare le vittime è il primo passo per aiutarle a capire se stesse e a riappropriarsi della propria storia, per diventare consapevoli del proprio ruolo nel mondo e nel trauma vissuto, ma senza dubbi sulla natura delle proprie necessarie risposte di sopravvivenza.
Per questo è importante e cruciale promuovere una cultura del trauma che spieghi le reazioni, che insegni a rileggere le reazioni dei sopravvissuti in una chiave chiara e scevra di interpretazioni: siamo tutti uguali di fronte alla minaccia.
Buona lettura!
 
Approfondimenti:
Stephan Porges (2014). La Teoria Polivagale: fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione. Giovanni Fioriti  Editore.
Robert Sapolsky (2018) Perché alle Zebre non Viene l’Ulcera? La più istruttiva e divertente guida allo stress e alle malattie che produce. Con tutte le soluzioni per vincerlo. Ed. Castelvecchi

Disturbo Borderline e trauma precoce: cosa nasce prima?

Uno dei disturbi più presenti nello scenario comune e più raccontati in cinematografia è il disturbo Borderline di personalità.
Ma di cosa parliamo esattamente? Quali sintomi o condizioni cliniche o storie di vita lo contraddistinguono?
Ecco alcune delle caratteristiche caratteriali e comportamentali più ricorrenti:
Cronica paura dell’abbandono, difficoltà nel regolare emozioni, autolesionismo, ideazione suicidaria, instabilità nelle relazioni, tendenza a creare relazioni intense e simbiotiche, alternanza tra svalutazione e idealizzazione dei legami affettivi, impulsività, abuso di sostanze, pensieri ricorrenti legati al suicidio, identità incerta e instabile, difficoltà nel definire obiettivi di vita e mantenere aspirazioni, valori, soddisfazione personale, alterata percezione del rischio con tendenza a esporsi a situazioni pericolose per la salute o per la vita.

Come terapeuta cognitivo-evoluzionista, la storia costituisce per me la parte fondamentale di ogni raccolta anamnestica: la storia di vita indica i principali eventi positivi e avversi che la persona ha affrontato nell’arco della sua vita fino al momento della consulenza terapeutica, ma anche le principali strategie di resilienza e di difesa che ha dovuto e potuto mettere in campo per sopravvivere, letteralmente o emotivamente, a condizioni sfavorevoli e che hanno provocato dolore. Tuttavia esistono le diagnosi e ogni clinico ha il dovere di orientarsi in un panorama categoriale che permette a terapeuti e pazienti di “inquadrare” il problema emotivo, di offrire una “etichetta” ai sintomi e non alla persona, con l’obiettivo di scegliere le linee guida terapeutiche più indicate e validate per quella specifica diagnosi o condizione clinica. Per quel malessere cui spesso è difficile dare un nome.
La chiave evoluzionistica è strettamente connessa alla cornice psicotraumatologica, che è quella branca della psicologia che si occupa di indagare prima e di lavorare poi sulle tracce cliniche e sintomatologiche che eventi di vita traumatici possono aver lasciato nella mente, nel corpo e nel sistema emotivo di una persona. L’indagine della storia traumatica è fondamentale per comprendere quali eventi di vita hanno creato delle “fratture” nella evoluzione emotiva della persona e soprattutto per capire come quella persona è riuscita ad andare avanti e a ri-organizzare la sua vita, la sua identità, la sua emotività e la sua capacità di creare relazioni solide e nutritive a seguito di quella frattura.
Le ferite generate da uno o più eventi di vita traumatici, possono annidarsi nel sistema emotivo e diventare nel tempo sintomi che generano grave malessere psicologico. Indagare i sintomi in una chiave evoluzionistica e psicotraumatologica permette di considerare quelle abitudini o reazioni emotive maladattive del presente o pattern relazionali, come il risultato di soluzioni emotive che sono state adattive nel passato, nel loro contesto originario di emergenza o di paura, ma si rivelano troppo costose o inutili o talora dannose nel presente della persona.
Di seguito il link ad un mio contributo pubblicato su PsychiatryOnLine, per la Rubrica Fantasmi nel sè di AISTED – Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione:

“Disturbo Borderline o Dissociazione Traumatica? Il caso di Linda”

di Camilla Marzocchi

Buona lettura!

Le ragioni del Grinch: per un Natale trauma-informed

Il Grinch, celebre film di Ron Howard (2000) tratto dall’omonimo libro di Dr. Seuss (How the Grinch Stole Christmas), è l’ormai mitico protagonista di una fiaba che rappresenta per eccellenza la Resistenza allo spirito di condivisione del Natale e diventa l’unico (quasi) antieroe che ricorda al mondo che il Natale non è per tutti una grande festa. La scontrosità, la diffidenza, la solitudine, lo scherno non si fermano davanti alle luci lampeggianti e di certo i regali non rendono più sicuro il contatto con il mondo, la comunità, gli altri. Nonostante questo anche quella de Il Grinch è una favola e come tutte deve finire bene, ma lo stimolo che porta con sé non è per nulla scontato e inappropriato. Se ci fosse davvero spazio e rispetto per il “malumore natalizio”, avremmo modo di capirne meglio le ragioni e concederci qualche riflessione autentica sulla condivisione, sulla gioia e sulla solidarietà che i questi giorni ci avvolge e travolge tutti.
L’esperienza clinica e l’esperienza di chiunque osservi le persone che ha intorno è ricca di esempi e situazioni che sembrano tutt’altro che luccicanti, ma tuttavia la giostra corre veloce e bisogna salirci su. Qualche volta tra l’altro ci si diverte lo stesso, a dispetto dei timori e della paure iniziali, ma è necessario considerare quando non è così e quando al contrario le avventure natalizie assumono la forma di un luogo cupo e pieno di fantasmi.
“Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, parenti o amici. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Anche le violenze fisiche (come gli schiaffi, i calci, i pugni e i morsi) sono per la maggior parte opera dei partner o ex. Gli sconosciuti sono autori soprattutto di molestie sessuali (76,8% fra tutte le violenze commesse da sconosciuti).” (fonte Istat, 2014)
“Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: » 1 adulto su 4 (25%) nel mondo è stato abusato fisicamente da bambino; » il 36% degli adulti dichiarano di aver subìto un abuso psicologico; » 1 donna su 5 (il 20%), 1 uomo su 10 circa (5-10%) ha subito abuso sessuale da bambino; » 1 donna su 3 è stata vittima di violenza fisica o sessuale perpetrata dal proprio partner; » 1 anziano su 17 è vittima di violenza. (fonte Global Status Report on Violence Prevention, pubb. 11 dicembre 2014).
“In Italia circa 47,7 minorenni su 1000 sono seguiti dai Servizi sociali per varie tipologie di bisogni. Di questi 457.453 minori presi in carico circa 1 bambino ogni 5 è vittima di maltrattamento per abuso sessuale (76,5%), maltrattamento fisico (71%), violenza assistita (63,6%), trascuratezza materiale e affettiva (59,8%).” (fonte Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza | CISMAI | Terre des Hommes, 2015).
Se le statistiche sulla violenza intra-familiare e domestica non mentono, allora il luogo più pericoloso sembra essere proprio la famiglia e diventa inevitabile pensare oggi che gli incontri familiari dei prossimi giorni non saranno solo e per tutti un’occasione per ricordare le tradizioni del passato, condividere momenti insieme e raccontarsi le speranze per l’anno che verrà. Le statistiche ci suggeriscono piuttosto che molti bambini e molti adulti saranno probabilmente in pericolo durante le affollate riunioni familiari, probabilmente esposti a situazioni di rischio e di conflitto tutt’altro che rilassanti e che non sarà per tutti facile, né talora saggio!, seguire il dictat assoluto della condivisione.
Per chiunque la famiglia sia un luogo di pericolo, sofferenza e dolore, sarà necessario e forse utile ricordare alcuni diritti inalienabili che ognuno di noi ha e che lo “spirito del Natale” non può in nessun caso cancellare.
Quello che senti va bene. Se senti gioia, va bene, Se senti rabbia, va bene, Se senti tristezza, va bene. Se senti imbarazzo, va bene. Nessuno di noi sceglie cosa sentire, ma quello che sentiamo in alcune situazioni può arrivare dal passato e dalle esperienze negative o positive che abbiamo vissuto. Non ci sono emozioni giuste, solo reazioni emotive necessarie che possiamo decidere di esprimere oppure no, ma che è sempre utile rispettare e ascoltare perché ci dicono qualcosa di noi, di come stiamo e di cosa possiamo fare per aiutarci.
Proteggerti è tuo diritto. Non sei obbligato a incontrare chi ti ha fatto del male, non sei tenuto ad augurare un buon anno a chi ti ha picchiato, stuprato, umiliato. Nessuno merita di esporsi alla sofferenza, al pericolo o alla paura, se qualcuno te lo chiede non riesce a capire cosa provi o non ti sta rispettando come essere umano.
Puoi dire di no. E’ tuo diritto rifiutare situazioni che ti mettono a disagio, che ti spaventano, che ti fanno sentire minacciato/a o che semplicemente non ti piacciono. Che sia una cena affollata o un pranzo delizioso, non sei obbligato a spiegare, non devi per forza resistere se il dolore o la paura ti fanno sentire in balia degli eventi o degli altri. Nessuna tradizione vale la tua sofferenza. Ogni tradizione può essere cambiata e tu hai diritto di partecipare a questo cambiamento.
Difendi i tuoi confini. Ognuno ha diritto di scegliere per sé, esprimere le sue opinioni, avere i suoi valori, bisogni, pensieri, emozioni. Nessuno ha il diritto di ricattarti, minacciarti, insultarti, controllarti, costringerti. Nessuna forma di amore prevede questo, chi lo fa non ti rispetta ed è tuo diritto difenderti.
Trova un luogo sicuro. Se sei nella tua casa, ricorda che è tuo diritto avere uno spazio dove gli altri non potranno entrare. Se sei lontano dalla tua casa, cerca un luogo nuovo in cui puoi sentirti al sicuro e in cui puoi scegliere con chi stare o non stare. Se non è possibile, prova a cercare un luogo nella tua mente o a ricordare il volto di qualcuno che ti aiutato nel passato. E’ importante sapere che non è necessario vivere sempre in allerta o nel caos. Tutti hanno il diritto di vivere tranquilli ed essere lasciati in pace, anche tu.
Scegli chi vuoi vicino a te. Non sei obbligato a coltivare tutte le relazioni che incontri, anche tu puoi scegliere con chi stare, di chi fidarti, chi ti piace e chi non ti piace. Se le relazioni non ti fanno stare bene, possono concludersi, non è colpa di nessuno.
Prenditi cura di te. Se hai bisogno di correre, corri. Se hai voglia di leggere, leggi. Se hai voglia di stare da solo, resta solo. Se hai voglia di abbracciare, abbraccia. Se hai voglia di dormire, riposa. Se hai delle abitudini che ti fanno stare bene, rispettale. Anche se condividi il tempo e lo spazio con gli altri, puoi continuare a prenderti cura di te e ascoltare i tuoi bisogni. Non sei egoista se ti prendi cura di te. Ognuno dovrebbe farlo per sé. Stare insieme agli altri, non vuol dire rinunciare o sacrificarsi per loro, anzi arricchirsi reciprocamente è possibile solo se ognuno è libero e padrone di sé.

Qualunque cosa tu abbia scelto di fare, ti auguro di restare vicino a te stesso e alle tue emozioni durante queste festività e per tutto l’anno che verrà!


 
 
 

Invulnerabilità e trauma: in fondo non è stato nulla di grave

Il trauma infantile in psicoterapia è storicamente oggetto di analisi per i suoi effetti a lungo termine sulla vita di chi lo ha vissuto. C’è ormai ampio accordo tra terapeuti di tutto il mondo, sull’idea che eventi di vita traumatici e avversi, soprattutto se avvenuti nella prima infanzia e nel contesto familiare, possano causare ferite emotive profonde, capaci di modificare su più livelli – fisiologico, emotivo, comportamentale, relazionale e sociale – la traiettoria evolutiva della persona colpita. (Herman, 1992; Lanius, 2012; Liotti, Farina, 2011; van der Kolk, 2015). Abuso sessuale, violenza fisica e verbale, ipercriticismo, aggressioni, bullismo: le storie dei pazienti che mostrano sintomi di sofferenza psicologica e stress post-traumatico sono costellate da eventi di questo genere e spesso fino all’arrivo in terapia la persona non ha mai considerato il legame tra quegli eventi traumatici del passato e la sua sofferenza attuale.
Fin qui nulla di nuovo e molto è stato ampiamente già descritto nella letteratura scientifica, nonostante l’attenzione altalenante e l’ambivalenza con cui il tema degli effetti fisici e psichici del trauma e dell’abuso infantile sia stato trattato negli anni (ACE Studies, Felitti, 1998; Lanius, 2012;).
Ma cosa succede quando il trauma è invisibile? Quando non è la minaccia, ma l’assenza di protezione a creare il danno più grave? Quando non è la violenza diretta, ma la costante assenza di uno sguardo amorevole a lasciare ferite?
Quello che ancora rischia di cadere vittima del negazionismo più resistente è oggi il neglect emotivo o trascuratezza. Il “danno da negazione del danno”: sembra un gioco di parole, ma chi ha vissuto questa condizione credo non faccia molta fatica a riconoscere di cosa si sta parlando.
Il negazionismo è stato spesso l’ostacolo al riconoscimento di grandi e storiche ingiustizie, poiché determina un immediato congelamento a accantonamento delle emozioni negative e collude con l’impossibilità di esplorare le responsabilità, di riconoscere il danno e dunque di farsi carico della cura e della protezione delle vittime.
La negazione è una difesa psicologica che può stratificarsi e colpire a diversi livelli la vittima: il primo strato riguarda proprio la vittima stessa, che può negare e minimizzare l’esperienza vissuta, avere dubbi sulla sua responsabilità o meno e restare incastrata tra paura, rabbia e la colpa anche per molti anni; il secondo strato riguarda la famiglia – spesso teatro principale dei più gravi abusi emotivi nell’infanzia  – e la negazione di quello che è avvenuto, o la negazione del modo in cui è accaduto, o ancora la minimizzazione della violenza laddove riconosciuta, o ancora il criticismo sulle reazioni legittime della vittima al trauma vissuto; il terzo strato riguarda la comunità di appartenenza, l’adeguatezza dei servizi che ruotano intorno alla vittima e le possibilità di accedere ad un contesto comunitario protettivo e capace di raccogliere sia segnali precoci di sofferenza, sia gli effetti devastanti successivi. Infine c’è l’ultimo strato: la legge, la società e la politica che hanno la responsabilità di prendere posizione su temi così scottanti, di far ottenere un giusto riconoscimento del danno subito per le vittime e di garantire un processo rispettoso degli effetti psicologici e fisici del trauma, soprattutto infantile, su chi l’ha subìto. Le strade della negazione sono tante, ma il risultato è spesso lo stesso per chi lo subisce: un vissuto profondo di difettosità, di essere sbagliati, di non valere abbastanza e l’impossibilità certificata di essere compresi e protetti.
Spesso il ricordo degli abusi e delle violenze subite è sin da subito accessibile alla memoria e permetterebbe in molti casi un lavoro immediato di elaborazione dei ricordi traumatici, al fine di sciogliere i sentimenti di colpa, impotenza e rabbia e permettere alla vittima di andare avanti verso la cosiddetta crescita post-traumatica. Nessun processo di elaborazione è mai semplice e lineare, e le difese naturali che ogni paziente può mettere in campo per evitare di sentire il dolore del passato sono molte e tutte necessarie; tuttavia nell’esperienza clinica quotidiana gli ostacoli più rigidi e resistenti al lavoro di elaborazione dei ricordi sono costituiti soprattutto da quell’insieme di esperienze di negazione – soprattutto se vissute all’interno della famiglia – e che hanno costretto la vittima a sopprimere le proprie emozioni e sviluppare solide strategie difensive, adatte a proteggersi da ogni attacco, da ogni esposizione al pericolo, da ogni piccolo rischio di dare la propria fragilità “in pasto” a caregiver gravemente inadeguati o talora minacciosi. L’insieme di queste strategie apprese crea alcune tra le più solide barriere dissociative (negazione, evitamento, rimozione) e ostacola la possibilità del paziente di riconoscere ed entrare in connessione con le emozioni dolorose della sua infanzia. La negazione vissuta all’esterno, si ripete dunque all’interno e spesso con più forza e determinazione.
Il trauma da omissione, la trascuratezza fisica e affettiva, l’invisibilità, l’assenza di protezione, la solitudine, l’abbandono alimentano un paradosso difficile da sciogliere: in questi casi il dolore non è generato da un comportamento violento, da un gesto maltrattante visibile e identificabile, ma al contrario è causato da un vuoto, dall’assenza di azioni di cura e di protezione, dalla mancanza di qualcosa che non è stato mai neppure conosciuto, la cui assenza però ha generato angoscia, terrore, senso di morte e di non esistere.
In pratica un nemico invisibile che diventa difficile contrastare. L’unica soluzione efficacie diventa allora chiudere ogni accesso a quelle emozioni e non esporsi mai al confronto con quegli eventi e con tutto quel dolore inspiegabile.
MA cosa succede in terapia?
Quando l’invulnerabilità diventa la cura al dolore, allora l’accesso e il riconoscimento di queste emozioni diventa davvero molto difficile e quello che potrebbe aiutare a superare il trauma, è allo stesso tempo fonte di minaccia poiché richiede un’esposizione di quei vissuti. La paura crea un paradosso: per essere aiutato devo espormi, ma per salvarmi devo evitare ogni emozione.
Del resto se da bambino esporre i miei bisogni, esprimere emozioni e finanche essere malato ha raccolto questa grave mancanza di sintonizzazione, allora imparerò a tenere tutto dentro per non rinnovare il dolore del rifiuto e nel tempo maturerò alcune idee fondanti che sarà difficile sradicare:

  • devo sempre essere auto-sufficiente
  • non posso mostrarmi debole
  • non ho bisogno di nessuno, non devo dipendere dagli altri
  • non serve piangere, chi piange è pigro e disfattista
  • per me non c’è nessuno, quindi devo cavarmela da solo
  • essere perfetto è il minimo per iniziare qualcosa
  • stare in allerta è l’unico modo di difendersi
  • se mi rilasso, sarò ingannato
  • mai fidarsi di nessuno
  • non merito niente di buono

Le emozioni del bambino del passato vengono congelate efficacemente, ma i suoi bisogni continuano a vivere al interno del sistema emotivo annidati nel corpo che si ammala, nei pensieri negativi che ricorrono o nelle reazioni emotive soverchianti. Il bambino diventa un soldato e dimentica una parte di sé, per riuscire a far fronte al presente che richiede di ottimizzare le risorse e di orientarle subito alla soluzione dei problemi.
Recuperare i rapporti con le emozioni di quel “bambino soldato” è la sfida più grande per le persone che hanno sempre bisogno di sentirsi invulnerabili, ma che sono sopravvissute, fisicamente o emotivamente, a traumi relazionali legati alla trascuratezza, all’ipercriticismo, alla mancanza di cure. Le emozioni di colpa e vergogna assumono dimensioni enormi e devono essere affrontate nel presente, proprio perché nel passato hanno subito quella negazione e di quel mancato riconoscimento che avrebbe almeno potuto aiutarli a capire che quello che stavano vivendo era una guerra vera e non un gioco innocente finito male.

Young boy soldier portrait

Bibliografia:
L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta, a cura di Lanius, E. Vermetten, C. Pain, Giovanni Fioriti, 2012.
Herman, Judith Lewis [1992]. Trauma and recovery: the aftermath of violence – from domestic abuse to political terror. New York: BasicBooks. (Ed.It, Guarire dal Trauma: Affrontare le conseguenze della violenza, dall’abuso domestico al terrorismo, a cura di R.Russo, Magi Edizioni, 2005)
Bessel van der Kolk (2015). Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Raffello Cortina, Milano.
Gianni Liotti, Benedetto Farina (2011) Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa.Raffaello Cortina Editore, Milano.
Felitti, VJ, Anda, RF, Williamson, DF, Spitz AM, Edwards, V, Koss, MP, Marks, JS.“Relationship of Childhood Abuse and Household Dysfunction to Many of the Leading Causes of Death in Adults. The Adverse Childhood Experience (ACE) Study.” American Journal of Preventive Medicine in 1998, Volume 14, pages 245–258.

Il quinto principio di Paul Williams (2014)

Il quinto principio (2014) è il primo volume di una trilogia che Paul Williams ha scritto per raccontare al grande pubblico la storia della sua infanzia difficile, attraverso gli occhi dell’adulto che è oggi e dello psicanalista che lavora ogni giorno co i suoi pazienti vittime di trauma.
La sua opera non è solo coraggiosa, ma permette di accedere al mondo del trauma da una doppia prospettiva, sempre presente nella narrazione: quella della vittima che ha dovuto affrontare un’infanzia terrifica e piena di dolore, quella dell’adulto che ha superato e messo insieme i pezzi del suo passato senza dimenticare se stesso e i suoi pensieri di bambino.
Il testo è fondamentale non solo per tutti gli operatori che si trovano a lavorare con vittime di traumatizzazione cronica, ma utile a tutte le persone che hanno vissuto nella loro infanzia situazioni di grave maltrattamento, affrontando da piccolissimi una lotta che le parole di Paul Williams riescono a descrivere con profondità, attenzione e grande dignità.
 
 
Per leggere la Recensione completa:

Il quinto principio di Paul Williams (2014) – Recensione del libro

Feccia (2017) di Paul Williams – Recensione del libro


 

Stress Post-Traumatico e serie TV: il caso di Thomas Shelby

In questi giorni di vacanza e tempo libero, in molti avranno vissuto un altro – e meno gradito – grande classico del Natale: l’influenza stagionale! Tra febbre, tosse e nervosismo da ferie perse, saranno in tanti ad essere caduti tra le braccia rassicuranti e sempre disponibili di una lunga serie tv.
Per chi fosse finito nella rete del “Binge Watching” – senza entrare nel merito delle sue versioni più patologiche! – tra le ultime uscite prenatalizie non avrà certamente perso l’ultima stagione dei Peaky Blinders, serie tv britannica scritta e ideata da Steven Knight nel 2013, e le sfide del suo fascinoso protagonista: Thomas “Tommy” Shelby  (Cillian Murphy). I fratelli Shelby – ‘in arte’ Peaky Blinders – sono una gang di Birmingham e vivono nella zona povera della città, Small Heath, loro quartier generale da quando gli antenati gitani hanno scelto di insediarsi in città e mettere su attività illegali. La storia inizia nel 1919, quando tutti i fratelli rientrano dalla Francia, dove hanno combattuto la prima guerra mondiale, e riprendono possesso dell’ “azienda di famiglia” affidata negli ultimi anni alle sorelle rimaste ad aspettarli.
Ma cosa trovano al loro rientro? Il nemico combattuto in Francia, li aspettava tra le mura di casa. Una volta tornati liberi e padroni della città infatti, tutti i fratelli iniziano a sviluppare comportamenti bizzarri e imprevedibili: scatti d’ira, reazioni emotive incontrollate, abuso di sostanze e una eccessiva ricerca di rischi e efferatezze.
Come ormai in molte serie tv, il Disturbo da Stress Post-Traumatico diventa il “lato oscuro” di questi antieroi, il motore del loro agire e della narrazione stessa. Ma vediamoli più da vicino.
Tutti i sintomi del Disturbo da Stress Post-Traumatico (o nevrosi da guerra) sono ormai noti e riconoscibili anche per il grande pubblico: flashback, insonnia, incubi, allucinazioni, esplosioni di rabbia, depressione, abuso di sostanze. I fratelli Shelby reduci dalla guerra mostrano segnali evidenti di questa grave sofferenza psicologica che, aldilà della fiction cinematografica, può essere molto invalidante ed esporre al rischio di suicidio. Arthur e John sono aggressivi, irritabili, abusano di whiskey e cocaina, provano eccitamento nel minacciare, uccidere, sottomettere. Spesso perdono di vista gli affari o peggiorano in modo drammatico il loro comportamento di gangster, perdendo anche la stima e la fiducia della famiglia. Tommy Shelby invece appare diverso. La guerra non sembra aver intaccato la sua capacità di pianificare, di “proteggere” gli interessi di famiglia e di sedurre amici e nemici di ogni genere. E’ sempre in controllo delle sue emozioni e di quelle degli altri. Riesce a superare nuovi lutti e incidenti, nuove morti e abbandoni. E’ sempre vigile e capace di cogliere pericoli prima degli altri, restando calmo e capace di offrire sempre un piano B, per tutti.
Cosa permette a Tommy Shelby di restare così lucido, distaccato e impermeabile alla paura? Resilienza? Intelligenza? Narcisismo? Dissociazione?
Certamente una buona dose di Narcisismo sembra sostenerlo nei momenti di difficoltà e garantirgli un buon livello di energia psichica per andare avanti, inseguendo il sogno di abbandonare la malavita e scalare i vertici della politica del suo paese. Tuttavia questa autostima iperbolica non funziona affatto quando il trauma della guerra riemerge fuori dal suo controllo e proprio nei momenti di calma e serenità: il Narcisismo fallisce di fronte alla violenza dei sintomi da stress post traumatico e non lo aiuta a tenere insieme le parti diverse della sua identità, pre e post-traumatica. Quando è al sicuro Thomas Shelby diventa infatti improvvisamente vulnerabile: si trasforma, arrivano flashback, allucinazioni, paranoia, paura e una grave frammentazione del sé che ci mostrano tutta la gravità della Dissociazione traumatica interna di cui soffre. Abbiamo dunque due Tommy, uno “debole ed emotivo” che conserva sotto traccia i ricordi traumatici e il dolore della guerra, l’altro “forte e visibile agli altri” che è sempre pronto alla prossima battaglia. Quest’ultimo in effetti ha bisogno di una sfida per esistere, altrimenti le emozioni dell’altro prendono troppo spazio e forza nella sua mente. Questa alternanza rende la narrazione molto avvincente, ma allo stesso tempo ci permette di rintracciare sul piano clinico la presenza di sintomi post-traumatici solitamente meno evidenti, ma molto più frequenti nella realtà clinica delle persone che hanno vissuto una o più situazioni traumatiche, anche quando la loro parte più soffrente è offline. Ecco i sintomi post-traumatici che la parte “forte” di Tommy Shelby lascia trasparire:

  • Il pervasivo distacco emotivo in situazioni emotive o di pericolo estreme, è primo e più importante segnale dissociativo. Salta la percezione del rischio e del pericolo di vita.
  • Evitamento di situazioni o di argomenti legati al trauma, attraverso la manipolazione del contesto e delle persone. L’obiettivo implicito e non riesporsi alla situazione temuta.
  • Ritiro dalle relazioni, Pervasivo senso di sfiducia nell’essere aiutati, Autonomia ed autosufficienza estreme anche di fronte a gravi difficoltà.
  • Umore negativo e pensieri negativi persistenti su sé, sugli altri e sul proprio futuro
  • Perdita di senso del sé e di obiettivi di vita prima importanti.
  • Bisogno di sedare l’ansia attraverso l’uso di sostanze.
  • Ricerca compulsiva del sesso per regolare emozioni sgradevoli e intollerabili.
  • Il bisogno eccessivo di controllo su ogni aspetto della vita personale e familiare.
  • Senso pervasivo di colpa e vergogna, anziché una sana e forse più tollerabile responsabilità.

Le fiction ci offrono spesso uno spaccato della psicopatologia con la superficialità e la leggerezza che il contesto richiede, ma possono tuttavia offrire una rappresentazione chiara – seppur cinematografica – che permette importanti riflessioni cliniche.
Un primo spunto clinico è legato proprio alle caratteristiche esteriori di Thomas Shelby e ci ricorda l’importanza, nella clinica quotidiana, di indagare e riconoscere sempre anche i sintomi più nascosti del Disturbo da Stress Post-Traumatico e non subire la “fascinazione” di alcune identità, o parti della personalità, narcisistiche, iper-razionalizzanti o evitanti, che tendono a mettere una maschera apparentemente normale, alle emozioni più intollerabili e dolorose legate al trauma. Questa maschera permette da un lato di “ri-organizzare” il proprio mondo interno così frammentato, ma ostacola dall’altro la comprensione della sofferenza emotiva, innalzando difese forti contro ogni intervento clinico. Quando assistiamo a questo tipo di sintomi nascosti, gli episodi più importanti da esplorare con i pazienti non sono solo quelli legati ai comportamenti distruttivi, di dipendenza o di rischio, ma soprattutto i momenti di noia e di vuoto, le giornate più calme e prive di impegni, le ore di solitudine. Solo da questa finestra è possibile intravedere la frammentazione interna e iniziare a prendersene cura.
Un secondo spunto clinico, che emerge chiaramente nella narrazione, è inoltre l’importanza nell’osservare nei pazienti la ciclicità dei sintomi a l’alternanza di periodi di calma a periodi di malessere. Quello che risulta nella fiction un facile espediente narrativo, diventa nella vita reale dei pazienti una “gabbia” in cui tendono a ripetersi ciclicamente emozioni, pensieri e comportamenti sempre uguali e difficili da evitare. La sensazione di non avere il controllo sulle proprie azioni, salvo poi recuperarlo attraverso strategie disfunzionali o dannose, è il ciclo da individuare e interrompere in terapia, osservando le emozioni che lo muovono e lo rendono necessario.
Con un appropriato intervento clinico Thomas Shelby non avrebbe probabilmente più avventure da raccontare, ma nella realtà clinica senza un appropriato intervento clinico il Disturbo da Stress Post-Traumatico tende a peggiorare nel tempo e ripresentarsi anche a distanza di molti anni nello stesso identico modo. Tendono inoltre a peggiorare anche l’umore e l’ideazione suicidaria esponendo la persona e i suoi familiari a rischi gravi per la salute.
Dunque lunga vita a Thomas Shelby! Ma resta importante nella vita reale cercare invece una risoluzione e darsi la possibilità di elaborare i traumi del passato, affinché non condizionino così intensamente il nostro presente e la nostra personalità.

Trauma e linguaggio: "Feccia" di Paul Williams

“Non sapeva che nel mirino si sentiva oggetto di attenzione comunque meglio di un’indifferenza a vita ribellarsi invece un suicidio stai alla larga dai pericoli ovvio no? solo che non è ovvio non puoi mica stare alla larga da tutto specialmente se uno non lo sa che vuole stare alla larga da tutto. Terrorizzato dalla aggressioni da quando aveva dodici mesi fino a diciassette anni partenza dal cuboginnasiopaesegrigio prendi questo questo e questo! “andate via” “lasciatemi in pace” non riusciva a dirlo non lo diceva ma perché? Era la madre padre ad aggredire lui non lui loro era proprio così non l’opposto no? Era così no? Vergognarsi isolarsi significava che per lui invece non era così che era colpa sua si ritraeva da se stesso non si fidava di nessuno terrorizzato dalle aggressioni di chi loro sue? Sue. Loro. Terrorizzato dal terrore figurati!”
Paul Williams ci racconta attraverso una trilogia la storia della sua infanzia difficile, vissuta in un contesto di traumatizzazione cronica e grave trascuratezza che hanno lasciato traccia nella sua vita e nelle sue parole di adolescente.
La storia di Paul è la storia di molte persone vittime di trauma, costrette a vivere in un mondo arbitrario e imprevedibile e a trovare un modo per adattarsi e sopravvivere. Quando chi traumatizza è un padre o una madre il paradosso diventa indecifrabile per la mente: a chi chiedere aiuto? a chi affidarsi per avere conforto? dove nascondersi?
Se la mente non riesce a trovare pace, sicurezza e protezione, allora attiva altre strategie più efficaci per ridurre al massimo il dolore emotivo e le emozioni soverchianti che rischiano di farci sentire sopraffatti: la dissociazione. Il prezzo della dissociazione è un crescente senso di frammentazione della propria identità, di perdita di senso, di estraniamento, ma permette di andare avanti e di non sentirsi sempre sopraffatti e in balia degli altri.
La peculiarità di questo romanzo è indubbiamente il linguaggio, spezzato, interrotto, senza soggetto e spesso simile ad un flusso di coscienza, ma che riesce a trasmettere la difficoltà di Paul di decifrare se stesso, gli altri e il mondo in una chiave che lo aiuti a crescere. Almeno finché non gliene viene data l’occasione…
Trovate qui la recensione completa del libro: http://www.stateofmind.it/2017/09/feccia-paul-williams-recensione