“Briciole. Storia di un’anoressia.”, di Alessandra Arachi

“E’ difficile credere all’anoressia mentale. Chi la osserva da fuori non riesce a concepire che il cibo possa diventare un nemico all’improvviso. Chi la vive non capisce più come sia possibile per le persone riuscire a mangiare senza pensieri, senza ansia, senza angoscia.”

L’incomprensione, la distanza e l’estraneità tra mondo interno e mondo esterno sembra il filo conduttore del celebre libro di Alessandra Arachi “Briciole”, pubblicato nel 1994 ma che resta ancora un valido riferimento per chi vive o voglia conoscere il mondo interiore di chi soffre di anoressia e bulimia nervosa.

“Briciole” è un testo diretto, spesso duro, che racconta senza giraci attorno i pensieri e le emozioni di chi vive ogni giorno la paura del cibo, del peso e di quello che rappresenta per la propria storia e per la propria identità. L’inizio dell’anoressia raccontata in prima persona dall’autrice è, come spesso accade, in adolescenza: il confronto faticoso con gli altri, il corpo che cambia improvvisamente e non sempre nel modo desiderato, l’osservazione attenta di ciò che i coetanei più apprezzano e poi all’improvviso l’idea che basti dimagrire per non sentirsi più esclusi!

Una semplice dieta. E in pochissimo tempo arrivano una pioggia di complimenti, sguardi complici, ogni giorno scorre più facile ad ogni chilo perso. Perché fermarsi? Così l’ammirazione degli altri diventa un nuovo nutrimento: insufficiente per il corpo, ma molto molto potente per la mente!

“In meno di un mese il cervello è riuscito a trasformare un pezzo di pane in un dannoso concentrato di zuccheri, l’olio in un accumulo irrecuperabile di grassi. Diffidavo di qualsiasi cosa commestibile, ma riservavo al cibo tutti i pensieri della mia giornata.”

Così inizia il calvario della protagonista: aver trovato nella magrezza una soluzione per sentirsi in controllo di se stessa e accettata dagli altri, farà della magrezza una vera e propria dipendenza.

Ma dove finiscono le emozioni dell’adolescente?

Vergogna, tristezza, rabbia, paura del giudizio, del rifiuto, di non valere abbastanza, di non essere amati, la solitudine, …tutto finisce in un piatto, che viene sistematicamente rifiutato e rispedito al mittente: negare le emozioni, la fatica, i problemi quotidiani e la realtà diventa una soluzione efficace che spegne le emozioni negative, finché queste non vengono completamente sommerse e dimenticate. Alessitimia.

L’impossibilità di dare un nome alle emozioni è uno dei sintomi più difficili e resistenti dei disturbi del comportamento alimentare, in cui le persone faticano a descrivere, riconoscere e sentire le emozioni connesse alle esperienze che vivono, pur mantenendo un’assoluta capacità di analizzare in dettaglio i pensieri, i comportamenti e talora le sensazioni fisiche che le hanno accompagnate.

In questa distanza tra razionalità estrema e azione pura, si collocano le emozioni, spesso negate e mal giudicate, fino al punto di essere considerate semplicemente un intralcio, un segnale inutile di debolezza, anziché il segnale di una sofferenza che meriterebbe di essere ascoltata e accolta.

Il cibo allora offre una soluzione immediata: la restrizione, il digiuno, il vomito, l’abbuffata diventano modi disfunzionali che permettono però di sentirsi “sotto controllo”, o meglio, “in controllo di se stessi e delle proprie emozioni”, più sicuri della propria immagine, più padroni della propria vita. Cosa succederebbe se lasciassimo andare un po’ di controllo?

Questo scenario semplicemente non viene  più esplorato e un circolo vizioso, disfunzionale ma rassicurante, prende il posto delle emozioni che non si riescono più neppure a nominare.

Nel libro viene descritta con grande delicatezza l’importanza di recuperare gradualmente questa esplorazione e la vitalità che porta con sé l’iniziare a sentire di nuovo. Briciole di emozioni positive possono aiutare lentamente ad affrontare briciole di emozioni che fanno più paura, per trovare insieme un modo più efficace di affrontarle.

Nutrire la resilienza e stimolare un senso di sé più forte e capace di affrontare le difficoltà è la grande sfida, iniziare a coltivare il dubbio che le emozioni non siano proprio così inutili e pericolose è il primo passo verso la guarigione.

“Briciole. Storie di un’anoressia”, di Alessandra Arachi (1994) Fetrinelli.

Il trauma nella vita dei rifugiati: Terapia dell'Esposizione Narrativa

“Quando un essere umano infligge un dolore o un danno ad un altro essere umano, ne deriva una lacerazione a livello sociale e personale. Il trauma distrugge il nucleo di umanità caratteristico di ogni contesto sociale: la comunicazione, la parola, la memoria autobiografica, la dignità, la pace e la libertà.”

 
rifugiatiIl fenomeno migratorio ha assunto negli ultimi anni dimensioni enormi in tutto il mondo; intere popolazioni migrano in cerca di loghi sicuri in cui vivere e crescere la propria famiglia, fuggendo da guerre, povertà, calamità naturali. La ricerca di libertà e dignità verso una terra sconosciuta e talora inospitale è il più delle volte uno stato di necessità e come tale rende le persone combattive, pronte a lottare per la sopravvivenza e in grado di tollerare traumi e lutti che in uno stato diverso sarebbero probabilmente intollerabili per ognuno di noi.
I rifugiati più di tutti sono soggetti a questo: lo stato di emergenza e di minaccia alla vita è vissuto a lungo nella loro terra di origine, permane spesso durante tutto il loro viaggio e resta ancora attivo nella precarietà e nell’incertezza del luogo in cui arrivano.
Ma cosa succede quando l’emergenza finisce? 
Quanto tempo e con quali strumenti si possono elaborare gli eventi traumatici vissuti nel viaggio?
Che eredità lasciano questi traumi e vissuto alle generazioni successive e nelle comunità?
Per comprendere i possibili esiti traumatici nelle popolazioni di rifugiati è essenziali comprendere le caratteristiche della violenza organizzata e conoscere le condizioni in cui le persone hanno erano quando hanno vissuto le violenze. Solitudine, impotenza, colpa verso familiari lasciati indietro, perdite, violenza assistita sono tutti fattori di rischio, mentre l’appartenenza ad un gruppo, il sostegno della famiglia, l’avere uno scopo superiore e spirituale che guida, l’incontro con persone in grado di proteggere al momento giusto e la possibilità di accedere a servizi psicologici specializzati, possono essere certamente fattori che rendono i traumi superabili e che limitano il passaggio “transgenerazionale” della violenza e degli abusi.
Nei prossimi anni sarà necessario sviluppare strumenti di lavoro mirati ad intervenire su questi fenomeni, per lavorare sulle vittime di violenza, di tortura, di tratta e aiutarle a superare in modo completo i vissuti traumatici, così da ridurre il passaggio delle memorie traumatiche alle seconde generazioni di migranti.
Nell’articolo che segue propongo la recensione di un interessante testo che parla di un metodo psicoterapico per aiutare le vittime di violenza organizzata e di violazione dei diritti umani: Schauer, M., Neuer, F., Elbert, T. (2014) Terapia dell’esposizione narrativa. Un trattamento a breve termine per i disturbi da stress post-traumatico. Giovanni Fioriti Editore.

Il trauma nel racconto dei rifugiati: la terapia dell’esposizione narrativa (NET)


 

Last summer (2014) di Seragnoli – Recensione

E’ possibile rafforzare un legame alle soglie di un addio?

Last Summer (2014) è l’opera prima di Leonardo Guerra Seragnoli e mi è parso un film di particolare interesse psicologico perché in grado di offrire un racconto poetico ma molto dettagliato delle trame sottili che si intrecciano in una delle relazioni più importanti e significative della nostra vita: quella tra una madre, Naomi, e suo figlio, Ken.

La trama racconta di un legame difficile e della necessità di affrontare una separazione che sia protettiva e necessaria al legame stesso. Un tema complesso, ma descritto con la semplicità degli sguardi e dei movimenti di un bambino che cerca di elaborare l’abbandono uscendone rafforzato e più fiducioso, nonostante l’inevitabile dolore e la distanza che lo aspetta.

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La danza dell’attaccamento tra madre e figlio viene rappresentata in modo perfetto tra ricerca di vicinanza e ciclici rifiuti. Il ritmo segue l’evoluzione del loro legame, della fiducia ritrovata, della possibilità di sentire l’uno le emozioni dell’altro e di accettarle, con la lentezza e la sicurezza che meritano. Il trauma può essere riparato, se il legame torna ad essere sicuro e sintonizzato, capace di accogliere il dolore e di restituire calma e speranza per il futuro.

Di seguito la recensione completa pubblicata su State Of Mind:

Last Summer (2014): l’ultima estate di Naomi e Ken – Recensione del film



 
 
 

Percezione del pericolo e sicurezza: La teoria Polivagale

Per noi essere umani l’esplorazione dell’ambiente è stata in origine fonte di rischi e pericoli. Alla nascita il nostro sistema nervoso è immaturo e abbiamo bisogno di cure e protezione per sopravvivere. 
Sin da piccolissimi tuttavia, siamo in grado di intercettare i pericoli dell’ambiente e di segnalarli a chi ci è vicino attraverso il pianto, il lamento o vocalizzazioni. Questo permette di segnalare velocemente a chi deve proteggerci che siamo in pericolo e costituisce un basilare sistema di protezione dalla minaccia, che evolverà successivamente in età adulta e permetterà a noi stessi di valutare la presenza di pericoli e minacce, per scegliere le reazioni e i comportamenti per noi più protettivi. Questa antichissima abilità percettiva è stata definita da Stephan Porges “Neurocezione” ed è un vero e proprio “senso”, che orienta la nostra attenzione nell’ambiente e che ci permette di intercettare i pericoli al di sotto della soglia di consapevolezza, e che funziona quindi in modo istintivo e automatico. Proprio come l’olfatto ci permette di individuare odori piacevoli o sgradevoli e orienta le nostre scelte, allo stesso modo il Sistema di Neurocezione è online e attivo per aiutarci ad intercettare i pericoli il più velocemente possibile. Le strutture cerebrali che permettono questo risiedono nelle parti evolutivamente più antiche del cervello e sono collegate ai circuiti difensivi primordiali direttamente collegati ai comportamenti di attacco, fuga, congelamento e collasso.
Quando lo sviluppo dell’individuo segue una evoluzione lineare, caratterizzata da un percorso di graduale autonomia in un contesto che sia sufficientemente protettivo e al tempo stesso capace di offrire l’esplorazione necessaria del mondo, il sistema neurocettivo evolve di pari passo e permette all’individuo di imparare come orientare l’attenzione nell’ambiente in modo appropriato e adeguato alle circostanze; questo permette di esplorare con calma e sicurezza anche le situazioni nuove, lasciando attivo il sistema di difesa primordiale solo in situazioni più estreme e eccezionali di pericolo o minaccia alla vita.
Ma cosa succede quando lo sviluppo e la crescita di un individuo avvengono in un contesto non protettivo, trascurante o esso stesso fonte di pericoli? Come si adatta il nostro sistema emotivo quando restiamo vittime di abusi, violenze o maltrattamenti nella prima infanzia?
In questi casi molto spesso il nostro sistema neurocettivo evolve prendendo strade meno lineari: tende cioè a restare iperattivato durante tutta l’infanzia, finché il contesto di vita risulta pericoloso e fonte di minaccia, e conserva questa soglia di reattività anche in età adulta, esponendo la persona a reazioni di allerta eccessive e non necessariamente proporzionate al pericolo effettivo.  In questo tipo di sviluppo traumatico, il sistema neurocettivo si abitua ad intercettare il pericolo anche nelle relazioni, che sono stata la fonte primaria di minaccia, e blocca la possibilità di affidarsi e cercare sicurezza negli altri, a fronte di un costante stato di allerta che garantisce difesa e protezione.
Questo è comprensibilissimo dal punto di vista neurobiologico ed evolutivo: il sistema emotivo impara che è meglio restare in allerta perché il mondo è arbitrario e potenzialmente pieno di pericoli! Ma diventa meno comprensibile nei contesti sociali, nelle relazioni intime e, in generale, nella vita quotidiana, esponendo la persona già vittimizzata ad un ulteriore isolamento e distanza dagli altri che faticano a comprendere questo tipo di reazioni.
Questo circolo vizioso può essere modificato attraverso la psicoterapia e il sistema neurocettivo può re-imparare una nuova soglia di allerta verso l’ambiente e le relazioni, aiutando la persona a gestire meglio l’ansia e a cercare con più serenità il contatto e la vicinanza degli altri, senza vivere il contatto e l’intimità con terrore, ma cercando nelle relazioni che lo meritano, calore e sicurezza.
Per chi è interessato di seguito alcuni miei contributi pubblicati su StateOfMind, relativi alla Teoria Polivagale di Stephan Porges, il principale ricercatore che si è occupato di formulare una teoria complessa dell’evoluzione dei nostri sistemi difensivi da una prospettiva neurobiologica: 

Intervista con Stephen Porges: La Teoria Polivagale e le basi fisiologiche delle nostre intuizioni


 

A cosa servono le neuroscienze nella pratica clinica? Il modello di Stephen Porges


 
 

Integrare in Psicoterapia!

Da molti anni conosciamo ormai gli effetti del trauma psicologico e della traumatizzazione cronica sullo sviluppo cognitivo ed emotivo degli individui, ma la sfida nella cura e nella ricerca di metodi sempre più efficaci resta sempre attiva e centrale per clinici di tutto il mondo che si occupano di trauma, trauma complesso e disturbi dissociativi.
Un grande contributo è stato dato negli ultimi 10 anni da Ruth Lanius, psichiatra e responsabile dell’unità di ricerca sul PTSD dell’Universita’ del Western Ontario, che ha raccolto dati di ricerca ed epidemiologici che hanno aiutato la cultura del trauma e che hanno aperto la possibilità di discutere i questo tema in ambito accademico e di ricerca.
L’interesse delle comunità scientifiche di tutto il mondo è fluttuante e soggetto alle mode e agli interessi di chi finanzia le ricerche, ma ciclicamente torna l’interesse sul tema ed è importante offrire informazioni e indicazioni cliniche offerte da fonti attendibili e certificate.
La dolorosa frammentazione interna che vivono pazienti traumatizzati, necessità di un lavoro clinico su più livelli: corporeo, sensoriale, emotivo, cognitivo e fisiologico. Solo la conoscenza della neurofisiologia e di una buon modello della mente, può aiutare nella comprensione di situazioni così complesse e aiutare a trovare le chiavi per intervenire e promuovere un cambiamento verso la guarigione.
Ho avuto il piacere di incontrare e intervistare la Dott.ssa Lanius, dunque per chi è interessato lascio alle sue parole la descrizione del panorama scientifico attuale:

Curare il sé traumatizzato: il contributo di Ruth Lanius

La cura del Sé traumatizzato – Intervista a Ruth Lanius


Trauma, vergogna e autobiasimo: come interrompere il circolo vizioso della colpa?

La vergogna è un’emozione paradossale: parlarne tende ad accrescerla, non parlarne la lascia indisturbata a condizionare i nostri pensieri e comportamenti. 

Esprimere empatia verso chi vive costantemente immerso in questa emozioni può suscitare imbarazzo e senso di inferiorità in chi ha solo voglia di nascondersi, allo stesso modo sottolineare successi e risorse può attivare timore di non meritarli o di non esserne all’altezza. Insomma, la vergogna più di altre emozioni è in grado di creare circoli viziosi di emozioni, pensieri e comportamenti difficili da modificare anche in psicoterapia, poiché il primo passo è proprio parlare ed esporsi inevitabilmente allo sguardo di almeno un’altra persona: il terapeuta!

Ovviamente possono esserci diversi tipi di vergogna e differenti gradi di intensità e pervasività. Certamente si tratta di un’emozione molto sotto stimata nel suo potenziale ruolo nel creare sofferenza psicologica e in alcuni casi psicopatologia.

Una delle condizioni più estreme in cui il lavoro sulla vergogna è tanto complesso, quando indispensabile è lavorare con pazienti cronicamente traumatizzati o vittime di abusi fisici e verbali nel corso della prima infanzia e prima età adulta.

L’essere esposti in famiglia a trascuratezza, costante criticismo, insulti, violenza fisica, abusi sessuali o a frequenti situazioni di umiliazione in un età in cui l’identità è ancora fragile e dai confini sottili, porta i bambini che attraversano questi eventi (e dunque gli adulti che saranno!) ad interiorizzare queste critiche e a farle proprie, come unica strategia possibile per conservare in qualche modo il legame con le figure di riferimento principali. Accettare le critiche e alimentare l’odio verso se stessi, diventa così una strategia funzionale a cercare alleanza e complicità con genitori maltrattanti, ma da cui dipende la propria stessa sopravvivenza.

Tutto questo avviene automaticamente nella mente ed è inizialmente davvero utile alla sopravvivenza, ma i suoi effetti emotivi e identitari a lungo termine possono essere molto negativi per lo sviluppo di una identità adulta, sana e centrata.

Il circolo vizioso della vergogna

Il passaggio dalla vergogna di essere criticati, rimproverati o attaccati all’autobiasimo (vergogna interiorizzata) e alla colpa per sentirsi profondamente sbagliati è la chiave per aiutare le persone che hanno vissuto situazioni di questo tipo ad interrompere il circolo vizioso e a sciogliere il legame patologico con gli schemi del passato. E’ normale “ereditarli” poichè questi modelli disfunzionali di accudimento vengono appresi in modo implicito e involontario, ma non è necessario mantenerli per tutta la vita e continuare a soffrire per questo.

Ho avuto il piacere di conoscere ed intervistare Janina Fisher, una delle cliniche più competenti e illuminate sul tema della vergogna, esperta di trauma complesso e di trattamento integrato dei disturbi dissociativi.

Per saperne di più di seguito i miei articoli e l’intervista pubblicati su State Of Mind:

Vergogna e auto-biasimo: come ostacolano l’elaborazione del trauma?

Trauma e corpo: Bessel Van der Kolk

“Troppo spesso né il paziente né il terapeuta

riconoscono la connessione tra il problema attuale

e la storia di un trauma cronico.”

Judith Herman (1992, p.23)

 
Di recente uscita in Italia il volume di Bessel Van der Kolk “Il corpo accusa il colpo” (Raffaello Cortina Editore, 2015), summa di tutta l’esperienza umana, clinica e di ricercatore di uno dei massimi esperti del trauma nel mondo. Il libro è una interessantissima rassegna della vita professionale di van der Kolk, che traccia l’evoluzione della cultura del trauma negli ultimi 30 anni insieme al progresso delle scoperte neuroscientifiche che ormai offrono una mappa sempre più chiara del funzionamento del cervello, del corpo e della mente di persone vittime di traumi gravi o traumatizzazione cronica
“Il corpo accusa il colpo ” è un libro per tutti, cinici, ricercatori, pazienti e lettori curiosi di approfondire questi tempi. Le storie raccontate e i riferimenti scientifici aiutano a cogliere un panorama ampio e multidisciplinare che rende il libro utile a diverse discipline: dalla psicoterapia allo yoga, dalla fenomenologia al teatro, dalle neuroscienze alla fisioterapia.
Il cuore delle considerazioni di Van der Kolk riguarda l’osservazione dei cambiamenti che il trauma produce nel sistema mente-corpo su diversi livelli di elaborazione che vanno tutti affrontati in psicoterapia e con diversi strumenti terapeutici. In particolare evidenzia l’importanza di conoscere la struttura gerarchica delle risposte difensive alla minaccia di vita e al pericolo, poiché queste risposte – che sono normali e adattive nel corso del trauma – tendono a restare attive in modo disfunzionale oltre il necessario, generando sintomi psicopatologici di allerta, ipervigilanza, numbing o dissociazione anche molto tempo dopo il trauma. Queste risposte afferiscono a strutture sottocorticali (sistema limbico e sistema “rettiliano” del tronco dell’encefalo) che regolano le emozioni in modo automatico e al di sotto del controllo consapevole e cosciente della corteccia prefrontale e delle cortecce superiori; questo significa che agiscono soprattutto sul corpo provocando reazioni fisiologiche e reazioni comportamentali coerenti con la percezione del pericolo (o meglio Neurocezione) che il sistema emotivo percepisce nell’ambiente. In pazienti traumatizzati che vivono uno stato di allerta continuo verso l’ambiente circostante e che vivono un pervasivo senso di pericolo, imprevedibilità e vulnerabilità personale, questo sistema sarà sempre attivo e sarà il primo “sistema” su cui lavorare in psicoterapia.
Solo dopo aver stabilizzato il sistema difensivo attraverso una maggiore consapevolezza e regolazione dei segnali del corpo, sarà possibile accedere all’elaborazione delle emozioni, dei vissuti, dei pensieri e infine delle memorie che condizionano le scelte e il futuro delle persone vittime di trauma. Lavorare subito e solo sul piano dei pensieri e delle interpretazioni che le persone hanno fatto delle esperienze traumatiche, può portare a sviluppare una narrazione non integrata degli eventi, che rischia cioè di essere frutto di un processo di mera razionalizzazione scollegata dal piano emotivo e dal corpo. Questo espone ad una ulteriore dissociazione all’interno della mente: una ragione in grado di raccontare i fatti, un corpo reattivo e terrorizzato che continuerà a produrre sintomi di ansia, depressivi o dissociativi legati alle risposte di allerta non incluse nel processo di  cura.
Recuperare una narrazione integrata e “incarnata” (embodied) è l’obiettivo di un lavoro terapeutico efficace sul trauma, che aiuta a recuperare risorse di resilienza e una nuova base per ripartire verso il futuro con un cervello, un corpo e una mente saldamente sintonizzate tra loro e ancorate al presente che li circonda.
Di seguito un mio articolo pubblicato su State of Mind che racconta dell’ultimo workshop del Dott. Van der Kolk a Milano (Gennaio 2016):

Trauma: il corpo accusa il colpo! – Workshop di Van Der Kolk a Milano, Gennaio 2016


 
Bibliografia:
Van der Kolk, B. (2015). Il corpo accusa il colpo. Raffaello Cortina Editore
 

EMDR: quando aiuta di più?

“Più vai lento, più vai veloce.”

Richard Kluft

L’EMDR è un metodo terapeutico evidence based che aiuta le persone che hanno vissuto una o più situazioni traumatiche ad elaborare i ricordi e a “liberare” la mente dai frammenti più dolorosi e irrisolti, che spesso sono alla base dei principali sintomi da stress post traumatico, d’ansia e depressivi.
E’ stato riconosciuto come metodo d’elezione per il trattamento del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e sono numerose ormai le evidenze scientifiche sulla sua efficacia nel trattamento di sindromi complesse correlate a traumatizzazione cronica e disturbi dissociativi (trovate qui informazioni e riferimenti ufficiali). La rapidità con cui permette di elaborare eventi traumatici del passato e acquisire una nuova prospettiva su di essi è una delle principali e più sorprendenti caratteristiche, a confronto con altri tipi di terapie che lavorano sulle memorie traumatiche, e questo ha alimentato grande interesse da parte dei clinici e dei pazienti stessi.
Di particolare interesse sono le recenti pubblicazioni scientifiche portate avanti da un team di ricerca tutto italiano (Pagani M., et al 2010, 2011) sul monitoraggio dell’attività cerebrale tramite elettroencefalogramma (EEG) prima, durante e dopo un trattamento EMDR: i risultati hanno evidenziato un cambiamento sorprendentemente significativo tra le prime sedute e le ultime. In particolare nelle prime il recupero dei ricordi autobiografici, delle immagini e delle emozioni negative associate attiva intensamente la corteccia limbica e la corteccia prefrontale (responsabili delle risposte emotive e delle nostre reazioni in situazioni di emergenza o di pericolo) e questa risposta permane durante l’intero processo di desensibilizzazione; mentre l’attività corticale si modifica radicalmente a conclusione del processo di elaborazione, mostrando una maggiore attivazione delle regioni corticali temporali, parietali e occipitali con una chiara lateralizzazione sinistra. Questi dati hanno permesso di ipotizzare l’effettivo “passaggio” del ricordo traumatico da una rete mnestica sottocorticale, che continua a riattivare nel PTSD il ricordo traumatico a causa della reattività delle aree del cervello limbico e prefrontali legate alla percezione del pericolo e alle risposte di emergenza, ad una rete più corticale in cui il ricordo viene riorganizzato in una memoria più cognitiva e semantica, che permette la rievocazione dell’evento traumatico, ma non più delle reazioni emotive dolorose ad esso associate. “Queste scoperte suggeriscono un‘elaborazione cognitiva dell’evento traumatico in seguito a terapia EMDR riuscita e sostiene l’evidenza di distinti modelli neurobiologici di attivazione del cervello durante i movimenti oculari bilaterali nella fase di desensibilizzazione dell’EMDR (fonte EMDRItalia.it).”
La ricerca su questi meccanismi neurobiologici andrà avanti e cidarà sempre più risposte, ma quello che tuttavia resta a noi terapeuti è: come declinare il metodo nella clinica quotidiana?
Come spesso accade i risultati scientifici fanno crescere entusiasmo e speranze tra clinici e pazienti, sviluppando da un lato grande curiosità e passione nella ricerca di evidenze sperimentali, ma da l’altro alimentando una certa quota di “pensiero magico” circa l’efficacia del metodo e la sua applicabilità!
E’ dunque importante sapere per tutti, clinici e pazienti che vorranno avvicinarsi a questo tipo di trattamento, che si tratta di una tecnica terapeutica che va integrata in un percorso di psicoterapia e soprattutto in una relazione terapeutica.
Come tale l’EMDR offre incredibili risultati a fronte però di una cornice di lavoro molto specifica, articolata e solida, in cui sarà importante definire dettagliatamente la diagnosi, la storia di vita, la sintomatologia presente e le risorse presenti nel paziente per fronteggiare la vita quotidiana e le emozioni veementi che spesso vengono stimolate dalla rievocazione del ricordo target su cui si sceglie di lavorare.
Nella mia esperienza le condizioni di miglior efficacia sono:

  • La corretta diagnosi e l’approfondimento di disturbi dissociativi sottostanti;
  • L’individuazione dei ricordi target effettivamente collegati alla sofferenza attuale del paziente;
  • La creazione di un’alleanza terapeutica chiara su obiettivi, metodo e fasi della terapia;
  • Una relazione di fiducia, in cui paziente e terapeuta possano affrontare la fase della elaborazione delle memorie traumatiche in un contesto percepito sicuro e privo di pericoli per entrambi;
  • La conoscenza e applicazione del protocollo standard come prima scelta e la padronanza di tecniche di integrazione cognitive e corporee da utilizzare nei casi più complessi;
  • Offrire sempre al paziente la possibilità di scegliere durante l’intero processo di cura;
  • Riconoscere e rispettare le resistenze e le fobie che possono attivarsi verso il recupero delle memorie, anche in presenza di una grande motivazione del paziente al lavoro EMDR;
  • Il processo di elaborazione può sollecitare inizialmente emozioni negative, ma non deve essere in nessun caso traumatico; quando il momento è quello giusto le emozioni negative tendono a ridursi abbastanza rapidamente e a lasciare spazio e nuove emozioni e prospettive;
  • Seguire un percorso a fasi che preveda una fase di stabilizzazione iniziale del paziente, che consenta una buona padronanza dello “scenario” su cui si andrà a lavorare e dei possibili vantaggi e svantaggi del lavoro stesso, e solo successivamente un lavoro di elaborazione mirato e diretto sulle memorie traumatiche.

Se queste caratteristiche non vengono rispettate, il lavoro EMDR rischia di generare ulteriori resistenze e di aumentare la fobia del ricordo traumatico e il senso di impotenza spesso tipico in persone traumatizzate.
Quando al contrario queste condizioni sono rispettate, l’EMDR permette di “volare” verso una nuova prospettiva, di rinnovare le proprie risorse verso la resilienza necessaria ad andare avanti in una vita piena e caratterizzata dal recupero di un contatto profondo, solido e integrato con se stessi, con gli altri e con la realtà.
Certo è che i tempi per raggiungere questi obiettivi possono variare da persona a persona e certamente si allungano in situazioni più complesse di traumatizzazione cronica, ma in psicoterapia a volte la lentezza produce cambiamenti più grandi e più duraturi.
 

Buoni propositi e procrastinazione: Buon anno!

Gennaio si sa, è un mese di buoni propositi e ritrovate speranze: il Natale è passato, l’inverno segue una svolta in positivo e nuovi progetti, diete, attività sportiva, scelte di vita, prendono piede. Per ognuno il cambiamento segue strade e forme diverse, ma nessuno sembra riuscire a tirarsi completamente indietro di fronte alla tentazione di almeno una promessa fatta tra sé e sé.

P_20161230_112638Esplorare il mondo e noi stessi con curiosità e gentilezza è l’augurio che vorrei portare avanti per tutto l’anno, provando a dedicare attenzione e presenza ad ogni azione e momento delle mie giornate.
Quali sono i vostri?
Come tenete fede alle promesse?

I buoni propositi quasi sempre implicano un cambiamento, ma ogni cambiamento è azione e agire di solito è l’ultimo anello di una catena più lunga che sarebbe importante (di nuovo!) esplorare. In alcune situazioni agire è semplice come respirare, a volte invece diventa un’azione più complessa, che mette in gioco “parti” o aspetti di noi più nascosti che possono emergere improvvisamente e remarci contro. Qui si colloca la procrastinazione, una delle forme più tipiche in cui alcune parti di noi intervengono a boicottare progetti e cambiamenti importanti. Sia chiaro: rimandare una scelta, un’azione o un impegno non è di per sé patologico, né dannoso, né tanto meno un comportamento da curare. Spesso prendersi del tempo è tanto necessario, quanto saggio.

Ma cosa succede quando ci accorgiamo di aver procrastinato a lungo qualcosa che per noi era davvero importante? Cosa ci diciamo quando il tempo passa e non riusciamo ad iniziare quello che vorremmo?

Per ognuno di noi la procrastinazione ha motivazioni e modalità differenti, ma per tutti può diventare una grande fonte di stress poiché alimenta una visione negativa di se stessi come inconcludenti, inadeguati o incapaci, quando non addirittura falliti.

Innanzitutto la procrastinazione porta ad “evitare” l’azione che vorremmo intraprendere, quindi ha spesso (ma non solo) emozioni di ansia e paura sottostanti, che la guidano. Ma paura di cosa? a volte è semplicemente paura dell’ignoto e di ciò che non si conosce, più spesso paura di fallire, o magari paura del giudizio, paura di non essere abbastanza forti, capaci o bravi, paura di non farcela, paura di sbagliare e vergogna di mostrarsi inadeguati alla promessa fatta a se stessi o agli altri. Tutte emozioni normali, ma se molto intense certamente difficili da tollerare! Accanto a queste ed altre emozioni,  possono insinuarsi nella mente idee e pensieri inflessibili, che contribuiscono ad alimentare e mantenere il comportamento di evitamento:

l’idea di dover raggiungere i propri obiettivi in pochissimo (o nessun tempo!), a volte si mostra come un vero e proprio “pensiero magico” che rende molto frustrante l’incontro con la realtà;

l’idea di non poter fallire, a volte si mostra come un pensiero “tutto o nulla” e confondiamo il “fare un errore” con l’ “essere persone sbagliate”; chi inizierebbe mai qualcosa sapendo di non poter assolutamente fallire?

l’idea di dover raggiungere risultati eccellenti, “altrimenti non vale la pena iniziare”, a volte ci pone di fronte ad alti standard che, anziché motivarci, bloccano i nostri tentativi sul nascere e ci fanno chiudere in un perfezionismo astratto e irraggiungibile;

l’idea di non essere all’altezza, di essere fragili, di non avere pregi particolari o di essere un bluff, sono infine pensieri che possono colonizzare la mente e impedirci di intraprendere una sfida o un cambiamento. A volte esperienze negative o traumatiche del passato cristallizzano nella mente un’immagine di noi stessi negativa e stereotipata, che non tiene conto delle risorse personali e della nostra complessità come esseri umani, lasciandoci fermi in “idee irrazionali” e credenze su noi stessi che non mettiamo mai davvero in discussione.

Dove impariamo tutti questi pensieri, meriterebbe un approfondimento e una riflessione più ampia e personale, ma è certo che per ognuno la strada che queste idee percorrono è diversa. La propria famiglia d’origine è spesso la culla in cui queste idee vengono alla luce e prendono spazio nella mente, ma tutte le nostre esperienze di vita successive diventano luoghi in cui possono invece evolvere, nutrirsi di nuove occasioni e magari anche di un po’ di saggezza.

Detto questo, negoziare con le nostre parti emotive più inclini alla procrastinazione è compito arduo e spesso richiede un livello di energia, fisica e mentale, che non abbiamo o che non basta a contrastare paura, vergogna e tentazione di rinunciare. Sapere però che queste “parti” hanno dei pensieri e delle emozioni, può almeno aiutarci ad aprire un tavolo di trattativa e forse a non interrompere troppo a lungo le nostre esplorazioni!

Buon 2017!

"Io, Daniel Blake." Ken Loach (2016)

L’ennesima denuncia di Ken Loach, l’ennesima necessaria riflessione sulla nostra realtà.

Daniel Blake è un carpentiere, ha circa 60 anni, vedovo e con un passato difficile, che si trova ad affrontare un periodo di malattia. E’ un uomo forte, capace di affrontare le difficoltà con ironia, di accettare le sofferenze della vita come eventi da cui imparare per andare avanti. L’apparenza burbera e l’aria semplice, si accompagnano a gesti e parole di grande delicatezza, saggezza e generosità, e mostrano un animo curioso e autenticamente aperto al mondo e agli altri.

A seguito di un attacco cardiaco Dan è costretto per la prima volta nella vita a chiedere aiuto allo Stato: non ha per fortuna avuto danni gravi, è in forze e autonomo in tutto, ma i medici gli vietano di lavorare perché il suo cuore è debole e deve ottenere un sussidio di invalidità che gli permetta di vivere, in attesa di riprendere il suo lavoro. Il problema è semplice, la soluzione a quanto pare impossibile.

i-daniel-blakUn funzionario ottuso e dedito alle procedure, più che a rendere servizio, valuta l’autonomia e la resilienza di Dan come un segnali di benessere e gli nega il sussidio, gettandolo in un paradosso senza soluzione: non può lavorare, non può avere assistenza. I ricorsi richiedono molto tempo e competenze informatiche che Dan non ha, ma lui non cede: ore di attesa ai call center, moduli online, code agli sportelli, internet point, documenti, visite mediche. Niente, ci vogliono mesi. Il sistema ha solo una soluzione rapida da offrire, di nuovo paradossale: fingere di cercare un lavoro, che non potrà accettare finché i medici non lo consentiranno, per ottenere un sussidio di disoccupazione che non gli spetterebbe. Dan non ha scelta e accetta, ma la sua identità solida e forte inizia ora a vacillare. Arrivano umiliazione, vergogna, inadeguatezza. Un senso di impotenza e di inutilità che prima non conosceva e che ora lo fanno temere per il futuro.

In questa lotta per i suoi diritti incontra Daisy, ragazza madre di due bambini, in grave difficoltà e isolamento. Dan trova tempo anche per lei: fa lavori di casa, aiuta i bambini con i compiti e con le difficoltà di integrarsi, costruisce mobili in legno e racconta loro delle storie prima di andare a letto. Dan ha davvero molte energie e molto da insegnare agli altri, ma trova solo in loro qualcuno in grado di apprezzarlo e di dargli il calore umano di cui ha bisogno.

Dan resiste, personalmente e eticamente. Non si arrabbia mai di fronte alle difficoltà, è abituato a risolvere problemi, ad aggiustare le cose e a farle funzionare. E’ e resta fiducioso. Ma le ingiustizie fanno crollare a poco a poco le sue certezze e lo indeboliscono come nient’altro.

Ken Loach ci porta di nuovo e con forza su temi di giustizia sociale, a riflettere su come le nostre società moderne gestiscono l’emarginazione, la malattia e la povertà, ma anche su come paradossalmente le risorse personali, l’interesse per il bene comune e il senso di responsabilità siamo sovrastate da superficialità e ignoranza, quando non addirittura osservate con sospetto.

La visione di Loach è dolorosa, ma chiara: non racconta la storia di un eroe, ma di un cittadino normale, con i suoi diritti e rispettoso dei suoi doveri, che non ha nessuna voglia di approfittare dello Stato, ma che si trova suo malgrado più dipendente e bisognoso di quello che vorrebbe, perché lo Stato semplicemente non funziona. La solidarietà sembra l’unica risposta possibile, a fronte di un servizio sociale che non solo non è in grado di comprendere e rispondere ai diritti minimi, ma che in più è lesivo della dignità e dell’identità stessa delle persone.

Chiaramente è qui rappresentato e colpito il servizio sanitario inglese, ma la denuncia di Loach genera molte riflessioni importanti sulla necessità di non perdere, tra innovazioni tecnologiche, burocratizzazione e automazione delle procedure, l’essenza irrinunciabile dell’assistenza pubblica e (aggiungerei) di ogni processo di cura: un aiuto che rispetti i diritti, le identità e le storie, che promuova l’autonomia e la crescita, che sia in grado di cogliere e valorizzare le risorse personali e soprattutto che non sia “iatrogeno” quando incontra la vita quotidiana delle persone.

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