EMDR: quando aiuta di più?

“Più vai lento, più vai veloce.”

Richard Kluft

L’EMDR è un metodo terapeutico evidence based che aiuta le persone che hanno vissuto una o più situazioni traumatiche ad elaborare i ricordi e a “liberare” la mente dai frammenti più dolorosi e irrisolti, che spesso sono alla base dei principali sintomi da stress post traumatico, d’ansia e depressivi.
E’ stato riconosciuto come metodo d’elezione per il trattamento del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e sono numerose ormai le evidenze scientifiche sulla sua efficacia nel trattamento di sindromi complesse correlate a traumatizzazione cronica e disturbi dissociativi (trovate qui informazioni e riferimenti ufficiali). La rapidità con cui permette di elaborare eventi traumatici del passato e acquisire una nuova prospettiva su di essi è una delle principali e più sorprendenti caratteristiche, a confronto con altri tipi di terapie che lavorano sulle memorie traumatiche, e questo ha alimentato grande interesse da parte dei clinici e dei pazienti stessi.
Di particolare interesse sono le recenti pubblicazioni scientifiche portate avanti da un team di ricerca tutto italiano (Pagani M., et al 2010, 2011) sul monitoraggio dell’attività cerebrale tramite elettroencefalogramma (EEG) prima, durante e dopo un trattamento EMDR: i risultati hanno evidenziato un cambiamento sorprendentemente significativo tra le prime sedute e le ultime. In particolare nelle prime il recupero dei ricordi autobiografici, delle immagini e delle emozioni negative associate attiva intensamente la corteccia limbica e la corteccia prefrontale (responsabili delle risposte emotive e delle nostre reazioni in situazioni di emergenza o di pericolo) e questa risposta permane durante l’intero processo di desensibilizzazione; mentre l’attività corticale si modifica radicalmente a conclusione del processo di elaborazione, mostrando una maggiore attivazione delle regioni corticali temporali, parietali e occipitali con una chiara lateralizzazione sinistra. Questi dati hanno permesso di ipotizzare l’effettivo “passaggio” del ricordo traumatico da una rete mnestica sottocorticale, che continua a riattivare nel PTSD il ricordo traumatico a causa della reattività delle aree del cervello limbico e prefrontali legate alla percezione del pericolo e alle risposte di emergenza, ad una rete più corticale in cui il ricordo viene riorganizzato in una memoria più cognitiva e semantica, che permette la rievocazione dell’evento traumatico, ma non più delle reazioni emotive dolorose ad esso associate. “Queste scoperte suggeriscono un‘elaborazione cognitiva dell’evento traumatico in seguito a terapia EMDR riuscita e sostiene l’evidenza di distinti modelli neurobiologici di attivazione del cervello durante i movimenti oculari bilaterali nella fase di desensibilizzazione dell’EMDR (fonte EMDRItalia.it).”
La ricerca su questi meccanismi neurobiologici andrà avanti e cidarà sempre più risposte, ma quello che tuttavia resta a noi terapeuti è: come declinare il metodo nella clinica quotidiana?
Come spesso accade i risultati scientifici fanno crescere entusiasmo e speranze tra clinici e pazienti, sviluppando da un lato grande curiosità e passione nella ricerca di evidenze sperimentali, ma da l’altro alimentando una certa quota di “pensiero magico” circa l’efficacia del metodo e la sua applicabilità!
E’ dunque importante sapere per tutti, clinici e pazienti che vorranno avvicinarsi a questo tipo di trattamento, che si tratta di una tecnica terapeutica che va integrata in un percorso di psicoterapia e soprattutto in una relazione terapeutica.
Come tale l’EMDR offre incredibili risultati a fronte però di una cornice di lavoro molto specifica, articolata e solida, in cui sarà importante definire dettagliatamente la diagnosi, la storia di vita, la sintomatologia presente e le risorse presenti nel paziente per fronteggiare la vita quotidiana e le emozioni veementi che spesso vengono stimolate dalla rievocazione del ricordo target su cui si sceglie di lavorare.
Nella mia esperienza le condizioni di miglior efficacia sono:

  • La corretta diagnosi e l’approfondimento di disturbi dissociativi sottostanti;
  • L’individuazione dei ricordi target effettivamente collegati alla sofferenza attuale del paziente;
  • La creazione di un’alleanza terapeutica chiara su obiettivi, metodo e fasi della terapia;
  • Una relazione di fiducia, in cui paziente e terapeuta possano affrontare la fase della elaborazione delle memorie traumatiche in un contesto percepito sicuro e privo di pericoli per entrambi;
  • La conoscenza e applicazione del protocollo standard come prima scelta e la padronanza di tecniche di integrazione cognitive e corporee da utilizzare nei casi più complessi;
  • Offrire sempre al paziente la possibilità di scegliere durante l’intero processo di cura;
  • Riconoscere e rispettare le resistenze e le fobie che possono attivarsi verso il recupero delle memorie, anche in presenza di una grande motivazione del paziente al lavoro EMDR;
  • Il processo di elaborazione può sollecitare inizialmente emozioni negative, ma non deve essere in nessun caso traumatico; quando il momento è quello giusto le emozioni negative tendono a ridursi abbastanza rapidamente e a lasciare spazio e nuove emozioni e prospettive;
  • Seguire un percorso a fasi che preveda una fase di stabilizzazione iniziale del paziente, che consenta una buona padronanza dello “scenario” su cui si andrà a lavorare e dei possibili vantaggi e svantaggi del lavoro stesso, e solo successivamente un lavoro di elaborazione mirato e diretto sulle memorie traumatiche.

Se queste caratteristiche non vengono rispettate, il lavoro EMDR rischia di generare ulteriori resistenze e di aumentare la fobia del ricordo traumatico e il senso di impotenza spesso tipico in persone traumatizzate.
Quando al contrario queste condizioni sono rispettate, l’EMDR permette di “volare” verso una nuova prospettiva, di rinnovare le proprie risorse verso la resilienza necessaria ad andare avanti in una vita piena e caratterizzata dal recupero di un contatto profondo, solido e integrato con se stessi, con gli altri e con la realtà.
Certo è che i tempi per raggiungere questi obiettivi possono variare da persona a persona e certamente si allungano in situazioni più complesse di traumatizzazione cronica, ma in psicoterapia a volte la lentezza produce cambiamenti più grandi e più duraturi.
 

Attaccamento e relazioni adulte: strategie! (III Parte)

Come possiamo riconoscere la nostra modalità di attaccamento? Cosa implica nelle nostre relazioni attuali? (LEGGI ANCHE precedenti contributi sul tema!)

Un primo concetto importante per comprendere meglio quale sia il nostro stile di attaccamento è l’idea che l’attaccamento, come necessità biologica innata, venga ricercato automaticamente nel caregiver di riferimento, permettendo così di adattarci a qualunque contesto relazionale e sociale. Come già sottolineato nei precedenti contributi sul tema, l’attaccamento nei primi mesi e anni di vita, garantisce la sopravvivenza stessa dell’individuo e dunque costituisce un bisogno irrinunciabile anche nei contesti più difficili e inadatti ad accogliere questo bisogno.

Un secondo concetto fondamentale è dunque l’idea che qualunque cosa facciamo per raggiungere e mantenere questo legame nell’infanzia sia non solo lecito e necessario, ma spesso anche “la cosa migliore da fare in quel momento. Piangere di più o non piangere mai, urlare più forte o mantenere un’espressione adeguata, aggredire il caregiver o prendersi cura di lui: tutto è funzionale se volto a garantirci quel legame, nel momento in cui ne abbiamo più bisogno.

Dati questi due punti di partenza, il corollario che ne deriva è che molto spesso le nostre modalità di attaccamento (o meglio di relazione) restano invariate in età adulta e non sempre integrate da altre modalità più adulte e funzionali. Insomma, continuiamo a cercare il partner o a crescere i nostri figli utilizzando quell’antica modalità di “legarci” agli altri come principale modus operandi e questo, in alcuni casi, può diventare anche molto disfunzionale. Questi pattern – che contengono emozioni, pensieri e comportamenti – tendono a stabilizzarsi nel tempo, pur non restando gli unici modi possibili di relazione, e vanno a costruire il nostro bagaglio di “reazioni” e soluzioni a determinati contesti relazionali (chiamati Internal Working Model o Modelli Operativi Interni).

attaccamento-bowlbyIn estrema sintesi, tutti gli stili di attaccamento muovono da un unico obiettivo: mantenere la massima vicinanza possibile al caregiver. Come viene raggiunto questo scopo?

Di seguito le principali modalità di attaccamento in cui ognuno di noi può facilmente ritrovarsi:

1  Attaccamento sicuro o B: si sviluppa quando da bambini si è potuto sperimentare un libero e incondizionato accesso alla figura di attaccamento, in condizioni di necessità, e questo  ha permesso di interiorizzare una idea dell’altro accogliente e positiva. Questo stile di attaccamento si manifesta in età adulta con una generale fiducia nel partner, con la capacità di vivere sia l’intimità, condividendo emozioni e bisogni profondi, sia la distanza senza angoscia o timori. Le relazioni frutto di un attaccamento sicuro consentono di creare e mantenere legami soddisfacenti, ricchi e capaci di adattarsi in modo flessibile al contesto e ai cambiamenti di vita, rispettando bisogni di vicinanza e accudimento, così come quelli di autonomia nei propri spazi di vita. Resta l’idea che l’altro possa rispondere ai nostri bisogni e restarci vicino, mentre proviamo ad esplorare il mondo e ad assumerci i rischi che questo comporta.

2 Attaccamento insicuro-evitante o A: si sviluppa quando da bambini si è vissuto in presenza di una figura di attaccamento rifiutante o completamente inaccessibile nel rispondere ai bisogni primari (es: genitore depresso, assente per lavoro, malato). Il bambino matura in questo caso una precoce ed eccessiva autonomia, con apparenti manifestazioni di distacco e di rifiuto-di-aiuto, “immunizzante” rispetto alla sofferenza di essere soli. La distanza relazionale diventa uno strumento per controllare queste emozioni e sperare in un contatto riducendo al minimo le richieste. Questo stile si manifesta in età adulta con atteggiamenti di ritiro, di isolamento e sfiducia totale nell’altro. Nelle relazioni emerge una profonda incapacità nel condividere bisogni, emozioni e pensieri in modo libero e autentico. Resta l’idea che l’intimità possa produrre un immediato allontanamento dell’altro e questo viene evitato a tutti i costi.

3 Attaccamento insicuro-ambivalente o C: si sviluppa quando da bambini si è vissuto in presenza di una figura di attaccamento imprevedibile nella sua presenza o capacità di rispondere ai bisogni primari. Quando si è esposti ciclicamente ad esperienze di intimità e improvvise perdite del legame, si sviluppa nel bambino una modalità di attaccamento basata sulla necessità di mantenere costante la vicinanza, sia in condizioni di necessità che in condizioni di sicurezza. Questo provoca sentimenti di colpa o eccessiva responsabilità in caso di rottura del legame. Questo stile si manifesta in età adulta con una fatica nel condividere bisogni ed emozioni in modo autentico e privo di paura, poiché non si riesce a prevedere come l’altro reagirà o meglio si teme l’improvviso abbandono. Resta l’idea illusoria di poter controllare la relazione attraverso la costante negazione dei propri bisogni, riducendo al minimo i rischi di un abbandono, ma oscillando sempre tra bisogno di dipendenza e ostentazione esagerata di autonomia. La colpa eccessiva è il rischio principale in caso di separazione.

4 Attaccamento disorganizzato-disorientato o D: si sviluppa quando da bambini si è sperimentata una condizione di costante minaccia nella relazione di attaccamento, con aggressioni attive o con una grave trascuratezza emotiva (es: genitori maltrattanti, abusanti, abbandono). In questo caso l’obiettivo non è più la ricerca di accettazione o cura, ma la sopravvivenza ad un caregiver minaccioso o pericoloso. La modalità di relazione alterna comportamenti tipici del sistema difensivo attacco, fuga o congelamento con l’obiettivo di “contenere” e ridurre le minacce provenienti dall’ambiente. Questo stile si manifesta in età adulta con una ricerca delle relazioni guidata dalla paura, con un’idea di reale pericolo, ed è condotta con modalità ostili e a loro volta minacciose. Resta l’idea che per sopravvivere nelle relazioni si debba attaccare prima di essere attaccati o che al contrario non c’è nulla da fare, in un mondo che è e resta pericoloso qualunque sia la nostra strategia.

Ogni stile di attaccamento può essere affiancato, in età adulta, da strategie e risorse apprese nel corso dell’esperienza e migliorate dall’incontro con persone significative con cui si riesca ad instaurare legami positivi e funzionali, che danno la possibilità di “rispondere” ad alcuni bisogni rimasti inascoltati e di “costruire”  strategie più efficaci per muoversi nelle relazioni traendone il meglio possibile. 

La psicoterapia è un’esperienza relazionale che può consentire questo cambiamento. Attraverso la comprensione di queste strategie, è possibile modificare o rendere meno automatici i nostri modelli operativi interni. Il cambiamento è possibile, ma solo all’interno di una relazione significativa, protettiva e rispettosa dei limiti relazionali necessari all’esplorazione serena di se stessi e dei propri bisogni.

Nota importante! Le nostre modalità di legarci agli altri non hanno nulla a che fare con l’amore o con la capacità di provare sentimenti profondi, ma solo con il modo in cui comunichiamo questo agli altri e riusciamo a creare con loro un legame autentico, profondo e libero da paure più antiche.

Lorenzini, Sassaroli “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità.” Raffaello Cortina Editore

Resilienza e risorse personali: affrontare le negatività!

Non esistono due modi identici di reagire alla stessa situazione, positiva o negativa che sia.

Ognuno di noi arriva a quella situazione con una storia, con delle idee, emozioni e valori. Ognuno di noi ha il suo modo di chiedere o non chiedere aiuto.Ognuno di noi ha il suo modo specifico di cavarsela da solo.Ognuno di noi manifesta a suo modo agitazione e rabbia. Felicità e tristezza. Divertimento o noia. Ognuno di noi ha il suo modo particolare di restare immobile di fronte agli eventi.

Un-fiore-nella-rocciaNel tempo molti studiosi si sono occupati di studiare ed approfondire dettagliatamente i fattori che scatenano nell’uomo ferite e traumi emotivi, in tutte le età, con particolare attenzione all’infanzia. Quello che meno è stato oggetto di studio e di approfondimento è invece ciò che ci porta naturalmente a sopravvivere agli eventi negativi, a resistere, a trovare soluzioni, ad andare avanti nella vita.

La resilienza, insomma. Ma di che si tratta?

Sono state date diverse definizioni del termine “resilienza”, eccone alcune. In fisica la resilienza è la proprietà di un metallo di non spezzarsi, ma di acquistare una nuova forma dopo aver ricevuto un colpo non così forte da provocarne la rottura. Il termine resilienza comprende quindi il concetto di resistenza all’urto, di flessibilità, ma anche di malleabilità , intesa come capacità di cambiare forma, di adeguarsi alle situazioni mutevoli, di adattarsi. Nell’uomo la resilienza produce, di fronte agli stress e ai colpi della vita, risposte flessibili e funzionali che si adattano alle diverse circostanze e alle esigenze del momento, tanto che si può scoprire di avere questa qualità anche solo in un momento di emergenza, trovando dentro di sé forze innate che non si pensava di avere (Fernandez, Maslovaric 2011). Quando si parla di individui resilienti non si fa tuttavia riferimento a persone che possiedono il gene dell’invulnerabilità o dell’eroismo, ma piuttosto di persone che sono capaci di attraversare il dolore e le emozioni negative, che hanno le risorse per sentirle prima ancora che di affrontarle e che accettano la possibilità di soffrire nel presente, per trovare solo poi una soluzione positiva nel futuro.

La persona resiliente è orientata all’evoluzione, piuttosto che alla staticità a tutti i costi!

La persona resiliente conosce se stessa nelle situazioni migliori e in quelle peggiori, riconosce e accetta i propri limiti e risorse in modo sufficiente per sapere come muoversi nel mondo.

La persona resiliente ha l’inarrestabile tendenza a “salvare il salvabile”, a resistere di fronte alle avversità.

Secondo uno studio del 1999 del National Institute of Mental Health (NIMH) le caratteristiche di una persona resiliente sono: essere naturalmente socievole, coscienzioso, disponibile, emotivamente stabile e intelligente. Mentre le capacità apprese di risposta agli eventi critici che garantirebbero un buon grado di resilienza sono state identificate nella convinzione di poter influenzare gli eventi in corso e quindi di poter assumere un atteggiamento attivo e proattivo per agire in modo concreto; nella capacità di sentirsi profondamente appassionati e coinvolti nelle situazioni negative da affrontare; nel viversi come protagonista, al centro delle proprie decisioni  e con il “potere” di scegliere, nei limiti personali e ambientali, i modi per raggiungere le proprie mete.

La resilienza, come molte delle nostre capacità, non è tuttavia stabile nel tempo.

Può variare, anche molto. Può crescere o diminuire e si nutre di alcune importantissime variabili: la stima di sé, l’affetto e l’amicizia, la scoperta del senso della vita e l’impressione di poter controllare la propria esistenza (Vanistendael, 2000).

Ovviamente le caratteristiche che rendono ognuno di noi più o meno resiliente si intrecciano alle relazioni affettive della nostra vita, al contesto sociale in cui viviamo e all’esposizione a situazioni traumatiche: tutte queste variabili possono alterare molto le nostre predisposizioni caratteriali.

L’idea forse centrale nella resilienza è che queste caratteristiche possono essere recuperate, se perse, potenziate e favorite da nuove situazioni di vita, da nuove relazioni e dal nostro stesso metterci positivamente in gioco tutte le volte che ne abbiamo la possibilità.

Liberamente tratto da: “Traumi psicologici, ferite dell’anima” (2011), di Isabel fernandez, Giada Maslovaric, Miten Veniero Galvagni.

 

Stress post-traumatico: come riconoscerlo?

Sempre più spesso si sente parlare di Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) e la sua presenza in film e telefilm è quasi sempre associata ad ambienti militari, situazioni di guerra o a grandi catastrofi naturali.

Immagine tratta dal film "Valzer con Bashir" di Ari Folman (2008)
Immagine tratta dal film “Valzer con Bashir” di Ari Folman (2008)

“(1) Aver vissuto o aver assistito a uno o più eventi che hanno implicato morte o minaccia di morte o grave minaccia all’integrità fisica propria o altrui e (2) aver provato di fronte a tali eventi intensa paura, impotenza e orrore” (DSM IV) sono le due condizioni necessarie per determinare la diagnosi di disturbo da stress post-traumatico. Oltre alle guerre e alle catastrofi, vengono in mente allora molte situazioni traumatiche e spesso più frequenti nella vita quotidiana e nell’esperienza clinica: violenze, fisiche o verbali, ricevute o assistite, incidenti, aggressioni, interventi chirurgici, lutti solo per citarne alcuni.

I sintomi più celebri, nonché i più frequenti per parlare di DPTS, sono i flashback degli eventi traumatici, rivissuti nel presente in modo vivido e spesso molto realistico, tanto da sembrare vere e proprie allucinazioni. Seguono poi insonnia, incubi, irritabilità, stato costante di allerta, difficoltà di concentrazione, deficit di memoria, eccessiva reattività a stimoli non pericolosi o neutri collegati in qualche modo all’evento traumatico. Tutti i “sintomi” descritti, sono in realtà NORMALI REAZIONI ad eventi traumatici che hanno in sé le caratteristiche sopra descritte, quando tuttavia compaiono per un periodo di tempo prolungato possono causare eccessivo malessere e l’assunzione di condotte invalidanti per la vita di chi ne è affetto e dei suoi familiari. Riconoscere tempestivamente i sintomi e intervenire con terapie adeguate costituiscono ovviamente elementi cruciali per una buona prognosi.

Ma continuiamo sui sintomi più frequenti per imparare a riconoscerli…

Oltre alle reazioni descritte, ce ne sono alcune meno note che mi preme descrivere, poiché molto più frequenti nell’esperienza comune di coloro che soffrono di stress post traumatico e ugualmente spaventanti, se non ri-conosciute come tali.

Senso di irrealtà: sensazione di essere in un film o in un sogno, di osservare la realtà da sotto una campana di vetro, di non essere appieno dentro al situazione, di sentirsi distaccati, disinteressati a quello che succede intorno —– spesso confuso come semplice attacco i panico, se si presenta come unico sintomo.

Reazioni fisiche intense: nausea, difficoltà di digestione, stanchezza cronica, spossatezza —– spesso confuse con malattie organiche, attacco di panico o ipocondria.

Vulnerabilità: sentirsi più esposti può determinare un pervasivo timore per il futuro o la scomparsa di interesse per attività prima considerate fondamenti della propria vita (lavoro, attività sportive, hobby..). Questi cambiamenti hanno ripercussioni relazionali anche gravi, con familiari e amici —- spesso associato a sintomi depressivi primari o ad aspetti di personalità problematici.

Pensieri intrusivi: pensieri catastrofici che arrivano improvvisamente mentre si sta lavorando o mangiando o guidando l’automobile. Sono spesso collegati all’evento traumatico vissuto, ma la loro comparsa imprevedibile li fa percepire come fuori controllo. —- spesso associato ad ansia generalizzata.

Significato della vita: spesso chi ha subito un forte trauma inizia a farsi domande sul senso della vita, sul perché esistiamo, tutto diventa incerto, tutto perde di senso e le certezze possedute sembrano irrecuperabili dopo la traumatizzazione. —- spesso associato a sintomi depressivi primari (ruminazione).

NB: Spesso i sintomi non compaiono immediatamente dopo il trauma, ma possono manifestarsi alcuni mesi dopo o talora diversi anni dopo, al presentarsi di un nuovo evento traumatico o di una situazione che riporti alla memoria l’evento del passato. Questo quadro clinico richiede ovviamente una dettagliata raccolta anamnestica ed eventualmente l’utilizzo di tecniche mirate a recuperare i ricordi antichi collegati ai problemi attuali. Una volta identificata l’origine traumatica dei sintomi, la prognosi diventa migliore grazie alle molte e validate tecniche terapeutiche (es. EMDR) ad oggi ampiamente utilizzate nella cura del DPTS.

La diagnosi e il trattamento necessitano in ogni caso dell’attenta valutazione di un clinico e in nessun modo la lettura delle informazioni fornite in questo articolo può sostituirsi alla consultazione con uno specialista. I sintomi descritti possono aiutare a leggere in modo più preciso, alcune sensazioni comuni che altrimenti possono restare incomprensibili e “spaventose” per chi si trova a viverle.

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Balbuzie ed EMDR

Nonostante le molte ricerche in ambito psicologico, neurologico, linguistico, non sono chiare le origine della balbuzie e i motivi esatti della sua insorgenza che può variare dai primissimi anni di vita, all’età adulta. Come molte situazioni croniche legate allo stress, anche la balbuzie può essere condizionata o peggiorata dalla presenza di eventi stressanti o traumatici di vario tipo. La prognosi è sicuramente più negativa se ci sono episodi di balbuzia presenti in famiglia o precedenti nella vita del paziente, ma in generale si tratta di un disturbo che può essere trattato come un disturbo primario del linguaggio, laddove vengano escluse altre cause scatenanti. Nessun dato certo sulla presenza di patologie psichiatriche in pazienti balbuzienti, né presenza di tratti di personalità particolarmente predisponenti a sviluppare questo disturbo. Quello che è certo però è che si tratta di un disturbo molto invalidante, spesso alla base dello sviluppo di disturbi psicologici secondari che possono peggiorare i sintomi e rendere la riabilitazione più complessa.

Intanto qualche definizione.

«La balbuzie è un disordine nel ritmo della parola per cui il paziente sa cosa vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di arresti, ripetizioni e/o prolungamenti di un suono che hanno carattere di involontarietà. […] La balbuzie […] ha natura intermittente e multidimensionale, poiché appare condizionata da variabili di natura socioculturale, psicologica, fisiologica e genetica, e come tale può essere descritta a molteplici livelli […]. La definizione e la diagnosi tradizionali di balbuzie si basano sulla rilevazione uditiva e valutazione qualitativa delle disfluenze, che per numero, tipo, durata e posizione sono giudicate anomale e qualificano chi le produce come balbuziente.» (Organizzazione Mondiale della Sanità, 1977).

w.allenLa balbuzie interessa circa l’1% della popolazione mondiale, ma circa il 5% può dire di averne sofferto in qualche misura nel corso della sua vita. La differenza tra i due tassi è spiegabile con l’alta percentuale di remissione, circa il 75-80%, che avviene per lo più spontaneamente dai 12 ai 18 mesi di distanza dal momento dell’insorgenza, e che è da collocare tipicamente nella prima infanzia. Per il 75 % dei soggetti colpiti da balbuzie l’insorgenza si situa dai 18 ai 41 mesi, quando le abilità linguistiche, cognitive e motorie del bambino sono interessate da un rapido processo di maturazione e sviluppo, l’età media d’insorgenza è di 32 mesi e vi è una scomparsa virtuale di nuovi casi dopo i 12 anni. Le ricerche di tipo genetico basate sugli antecedenti famigliari e sulla gemellarità monozigote fanno ritenere che la balbuzie venga trasmessa per via genetica, e anche se il meccanismo di trasmissione resta sconosciuto, il tipo di legame parentale e il sesso contribuiscono a determinare le probabilità che un bambino cominci a balbettare e forse anche quelle del suo recupero (da Associazione Italiana Balbuzie e Comunicazione, A.I.BA.COM).

Il trattamento EMDR per a balbuzie si può collocare dunque su due livelli di intervento:

I livello

Ricostruire gli eventi di vita immediatamente precedenti l’insorgenza della balbuzie, allo scopo di individuare l’eventuale presenza di situazioni traumatiche importanti (lutti, separazioni, nascita di fratelli, abusi,..) che possano aver portato all’espressione di questo sintomo in quel momento preciso della vita e non in un altro.

Gli eventi di vita negativi e traumatici, possono provocare dei blocchi in tutte le funzioni cognitive (memoria, attenzione, linguaggio,…) in base alle vulnerabilità genetiche, a fattori temperamentali o ambientali predisponenti, che ognuno di noi ha e che ci portano a sviluppare un disturbo piuttosto che un altro. In generale tutti i disturbi su base traumatica, qualunque sia l’abilità/capacità colpita, sono l’esito inizialmente funzionale di una ri-organizzazione emotiva e cognitiva delle risorse mentali. Strategie di coping quindi necessarie per gestire lo stress, ma che nel lungo periodo diventano inutili e potenzialmente invalidanti.

I ricordi target su cui si lavora sono quindi gli eventi traumatici che hanno preceduto il primo episodio di balbuzie. Da lì si procede all’elaborazione, al fine di eliminare l’impatto emotivo di quegli eventi.

Tutti i sintomi reattivi ad uno stress/trauma hanno una funzione evolutiva importante che va compresa e rielaborata, prima di poter affrontare qualunque cambiamento, e la balbuzie può essere uno di questi.

Se l’esordio della balbuzie è immediatamente successivo ad un chiaro trauma vissuto dal paziente, l’intervento tempestivo con EMDR  ha una buona prognosi e permette di evitare le successive traumatizzazioni legate al disturbo stesso.

II livello

Individuare le prime esperienze di balbuzie e gli episodi traumatici correlati proprio alla manifestazione stessa del disturbo: ad esempio, la reazione dei coetanei o dei familiari di fronte a questa difficoltà, ricordi traumatici delle prime interrogazioni a scuola, ricordi di umiliazioni subite o di timore rispetto alla propria condizione.

Tutti questi ricordo hanno un ruolo centrale in quella che viene definita “ansia anticipatoria”, legata proprio all’aspettativa di sbagliare, di essere giudicati o umiliati o ritenuti sciocchi. Questi sono in genere potenti fattori di mantenimento del disturbo e possono interferire con il processo riabilitativo, causando blocchi e graduale limitazione nelle attività quotidiane in cui si è costretti ad esporsi a situazioni potenzialmente invalidanti.

I ricordi target su cui si lavora sono, in questo caso, gli episodi di invalidazione/umiliazione/frustrazione vissuti come conseguenza del proprio disturbo, poiché tutte le situazioni a loro simili fungono da “attivatori” (trigger) dell’ansia e sono in genere peggiorativi del disturbo.

L’impatto sociale, lavorativo e psicologico di questo disturbo è ancora molto forte e spesso non è sempre facile accedere alle cure migliori o ricevere una chiara diagnosi sull’origine del proprio disturbo. 

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Stress Post Traumatico e Disturbo Ossessivo: un caso clinico

Un recente studio olandese (Nijdam et al, 2013) descrive il caso di un paziente con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo (DOC) ad insorgenza post traumatica; la diagnosi e le prospettive di lavoro cambiano radicalmente quando i sintomi sono reattivi ad eventi traumatici e un trattamento che ne tenga conto è più sicuro e più efficace per la remissione totale dei sintomi.

Sia nel disturbo ossessivo che nel disturbo post-traumatico c’è una tendenza al controllo, che può manifestarsi nel primo caso con rituali compulsivi e nel secondo con evitamento delle situazioni temute o con uno stato di ipervigilanza sull’ambiente. In una quadro traumatico complesso in cui si manifestano entrambe le sintomatologie, il DOC potrebbe avere la funzione adattiva di “regolare le emozioni negative” legate al trauma, cioè di ridurne l’intensità, attraverso l’uso di rituali che sono completamente sotto controllo della persona e che aiutano la mente a focalizzarsi nel presente, inibendo l’attivazione delle intrusioni e dei ricordi traumatici.
Come sempre la mente si adatta al meglio che può, è importante capire questi meccanismi di adattamento e “disinnescarli” nel presente.
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A cosa servono le emozioni?

Gli scopi del nostro sentire.

Le emozioni, ormai lo sappiamo, sono segnali importanti che orientano il nostro agire e l’agire di chi ci osserva (vedi precedente contributo su Corpo ed Emozioni). Senza sentire e riconoscere le emozioni che stiamo provando, resteremmo probabilmente immobili di fronte ad un pericolo, impassibili davanti ad un amico che soffre o imperturbabili nel affrontare una prova per noi importante.

Tutto questo può succedere in ogni caso, ma quelle su citate posso essere reazioni ad un’emozione non completamente chiara o riconosciuta, oppure semplicemente il risultato di una scelta consapevole dettata da altri scopi, che non sono i più evidenti o comprensibili, la sopravvivenza, la conservazione della specie o la capacità di prepararsi di fronte ad una sfida.

L’avere una coscienza, qualunque cosa essa significhi, ci permette di ragionare sulle nostre emozioni, talora di decidere volontariamente di non considerarle o al contrario di considerarle l’unica chiave possibile per comprendere il nostro agire.

L’essere umano oscilla spesso tra razionalità estrema e rivendicazione della libertà ad essere impulsivi, spesso senza essere consapevoli, da nessuna delle due posizioni, di che ruolo abbiano le nostre emozioni, in un dato momento, contesto e relazione.

E così per alcuni arrabbiarsi sarà sempre inutile, per altri sempre necessario, per alcuni piangere sarà sempre inevitabile, per altri mai accettabile, per alcuni avere paura sarà un’esperienza quotidiana, per altri una condizione mai (consapevolmente) sperimentata. 

Una possibile cornice comune, per capire che ruolo hanno le nostre emozioni e l’importanza del saperle riconoscere, al di là del nostro modo soggettivo e personalissimo di manifestarle, è quella degli SCOPI.

Quali scopi sono sottesi alle emozioni principali?

Quali emozioni esplodono se uno o più degli scopi che abbiamo vengono impediti?

La cornice proposta è quella evoluzionistica, non solo in termini di sopravvivenza della specie, ma soprattutto in relazione all’agire umano all’interno di un contesto innanzitutto sociale, collettivo e condiviso da tutti. Alcune emozioni sono più legate a scopi primari, legate cioè alla nostra sopravvivenza, altre sono legate a scopi sociali, altrettanto importanti poiché legati al nostro “stare nel branco”- nel gruppo di appartenenza – e ci garantiscono di mantenere una buona immagine e di definire il nostro ruolo all’interno del gruppo.

Sia le emozioni negative che quelle positive hanno una funzione, possono essere più o meno difficili da tollerare ma TUTTE hanno un senso. In quest’ottica nessuna emozione può essere sbagliata, sciocca, esagerata…è lo scopo che in quel momento è stato frustrato a fare la differenza!

Un esempio:

PAURA/ANSIA  —— Proviamo paura quando percepiamo o ipotizziamo una minaccia ad un nostro scopo (es: sopravvivere ad un pericolo, superare un esame). 

La paura ha SEMPRE una funzione PREVENTIVA, dispone infatti l’organismo ad agire affinché il pericolo non si realizzi (es: scappare o attaccare, rispondere alle richieste che ci vengono fatte).

Provando a pensare per ogni emozione sotto elencata una situazione target in grado di farla rivivere, valutate lo scopo descritto e verificate il suo legame con il vostro agire in quella data situazione.

Per scaricare una scheda completa delle emozioni e dei loro scopi CLICCA QUI

Altri articoli su questo argomento:

Come ti senti? La miglior risposta è..in 3D!

Daniel Pennac “Storia di un corpo” – Recensione

Altri contributi sul tema “Emozioni”

Come curare le ossessioni?

Un volta identificata la presenza di “ossessioni patologiche” (vedi contributo: Come riconoscere quando le ossessioni diventano patologiche?), è necessario rivolgersi ad uno specialista per verificare che la diagnosi sia corretta e scegliere di sottoporsi ad un trattamento specifico. In alcuni casi è consigliabile accompagnare  il percorso psicologico con un trattamento farmacologico (in genere antidepressivi SSRI).

L’indagine sul sintomo e su come si è sviluppato e mantenuto negli anni è la base da cui partire per un buona trattamento terapeutico. Come per molti gli altri disturbi d’ansia, i primi aspetti da indagare e chiarire sono:

  • la prima volta che sono comparsi pensieri intrusivi o compulsioni (esordio);
  • le situazioni, i pensieri e le emozioni legate a quel momento;
  • indagare gli elementi che hanno favorito l’insorgere della sintomatologia nel periodo precedente l’esordio: stress sul lavoro, conflitti familiari, malattia, lutti (fattori di scompenso);
  • indagare i fattori che contribuiscono oggi a mantenere vivi i sintomi riferiti (fattori di mantenimento).

La TCC offre numerosi protocolli che permettono, a questo punto, di costruire un percorso di cura che tenga conto di tutti gli aspetti analizzati e del ruolo che i sintomi hanno nella vita della persona. L’Esposizione con Prevenzione della Risposta (E/RP) è un intervento di dimostrata efficacia per il trattamento dei disturbi d’ansia, in particolare per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) e per il Disturbo di Panico: questo metodo è in grado di produrre una riduzione stabile dei sintomi anche dopo anni dalla fine del trattamento e il cambiamento sintomatologico non si risolve semplicemente in uno spostamento del sintomi ma esita in un  cambiamento esteso e stabile (Lakatos e Reinecker, 1999). Il principio guida di questo metodo è quello dell’abituazione, che potremmo definire come “un decremento della risposta (emotiva e fisiologica) dovuto a stimolazione (esposizione) ripetuta”.

In soldoni: qualunque stimolo che sia percepito da noi come minaccioso e/o disgustoso (es: il lavandino sporco, la scrivania in disordine, un gatto nero che ci attraversa la strada) provoca in genere un’intensa risposta fisiologica, emotiva e mentale ogni volta che ci viene presentato; questa risposta sarà sempre la stessa e produrrà tendenzialmente la medesima reazione comportamentale: fuga o comportamento “di annullamento” (compulsione)!

Quando invece siamo “costretti” da circostanze particolari di vita (o da un trattamento psicologico) ad esporci a quello stesso stimolo – temuto e/o disgustoso – più volte al giorno e per un certo periodo di tempo, lentamente la nostra risposta – fisiologica, emotiva e mentale – allo stimolo diventerà meno intensa e sempre meno disturbante (estinzione della risposta). Solo a questo punto il nostro comportamento può finalmente cambiare!

Questa la cornice teorica generale. Nella pratica clinica il trattamento va condiviso passo per passo, attraverso l’utilizzo di esposizioni graduali e guidate, che possano lentamente accompagnare la persona affetta da DOC attraverso tutte le fasi successive della terapia:

confrontarsi con le situazioni che ATTIVANO le ossessioni e le compulsioni (“rituali di annullamento”)

ridurre lentamente le compulsioni, con strategie alternative che aiutino a tollerare le sensazioni sgradevoli

– valutare, attraverso l’esperienza e il confronto nel dialogo clinico, l’effettiva veridicità e fondatezza di alcune convinzioni su cui si basano le proprie ossessioni ricorrenti. Le più comuni riguardano: fusione pensiero-azione (“Se penso che potrei prender un coltello e ferire qualcuno, allora vuol dire che potrei realmente farlo!”),  eccessivo senso di responsabilità personale (“Magari ho investito qualcuno con l’auto senza accorgermi e allora devo tornare indietro a controllare”), inaccettabilità che alcuni pensieri possano procurare ansia (“Non ho il controllo di questi pensieri, quindi sono pericolosi!”), difficoltà a tollerare gradi di incertezza inferiori al 100% (“come faccio ad essere sicuro che non andrò all’inferno?“), pensiero magico o superstizioso (“un gatto nero che arriva da sinistra porta male! (da destra no).”).

riscoprire il piacere in altre attività.

Ingredienti fondamentali di questo trattamento sono pazienza e tenacia nel voler combattere i rituali che spesso da lungo tempo accompagnano la vita quotidiana e che sono ormai in grado di dare sufficiente conforto e rassicurazione nei momenti di difficoltà, ma che, ormai lo sappiamo!, tolgono tempo e risorse alla vita..



Le reazioni biologiche alla paura

La paura è un’emozione funzionale e adattiva, presente in tutti gli animali e legata a meccanismi biologici ed evolutivi fondamentali. Si tratta di un’emozione che prepara all’azione, che ci dà un segnale che qualcosa di negativo sta per succedere e che ci aiuta ad identificare uno stimolo dell’ambiente come pericoloso per la nostra sopravvivenza. L’ansia negli essere umani è l’espressione di questa emozione e solo se esagerata, sproporzionata e protratta nel tempo può assumere caratteristiche psicopatologiche importanti. Oltre agli aspetti già citati nel precedente post (vedi: “Ho paura e basta: non so perché!”), un elemento importante è quello legato alle reazioni comportamentali istintive che la paura genera e di cui spesso non ci si riesce a spiegare la ragione.

Se qualcuno ha paura dei cani può capire l’esempio che segue: nonostante il saggio consiglio di non mostrare paura e di non scappare alla vista di un cane, per chi di voi ha paura sarà risultato davvero impossibile resistere alla tentazione di farlo..nonostante la probabilità enormemente più alta di essere rincorsi! Ecco spiegato il perché: le nostre reazioni alla paura non sono guidate dalla sola corteccia cerebrale, responsabile delle nostre scelte consapevoli, ma da un parte più antica e primitiva del cervello su cui fortunatamente non abbiamo alcun controllo e che agisce con estrema velocità nelle scelte per noi vitali: l’amigdala e il sistema limbico!

Queste aree cerebrali sono responsabili del buon funzionamento del nostro sistema di difesa e protezione dai pericoli e determinano le reazioni che comunemente esperiamo in presenza di stimoli che ci spaventano:

La prima si innesca quando lo stimolo che abbiamo davanti è percepito come “affrontabile” senza troppo rischio per la propria sopravvivenza, la seconda si attiva in situazioni che decisamente non conviene affrontare e in cui l’unica soluzione è la fuga, la terza è una fase di blocco dell’azione ed è in genere uno stato transitorio in cui c’è attivazione fisiologica di preparazione all’azione e consapevolezza dell’ambiente circostante, ma non si riesce a reagire e infine la quarta è lo svenimento che comporta un improvviso crollo del tono muscolare, della frequenza cardiaca e una momentanea perdita di coscienza. Quest’ultima particolarmente nota a chi ha una fobia per sangue e ferite!

Nell’uomo, che a differenza degli animali è dotato di coscienza, queste normali e biologiche reazioni comportamentali sono spesso oggetto di valutazione o talora di giudizio negativo soprattutto se lo stimolo a cui si reagisce non è considerato “degno” di attivare un’emozione di paura.

Fuggire da luoghi affollati, rimanere bloccati e inermi di fronte ad una violenza fisica, svenire durante un esame del sangue sono spesso considerati comportamenti imputabili ad una propria fragilità, incapacità o inadeguatezza … mentre spesso sono semplicemente il segnale che il nostro sistema limbico è perfettamente sano!

Il punto cruciale da analizzare in presenza di reazioni di questo tipo non è quindi giudicare o analizzare la reazione in sé, ma comprendere i motivi per cui uno stimolo che reputiamo “normale” venga percepito dalla nostra mente e dal nostro corpo come a tal punto pericoloso da generare in modo automatico e incontrollato la reazione del nostro sistema di difesa.

Il prezzo della coscienza!

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Concreteness Training (CNT) come cura per la depressione.

Recenti ricerche hanno dimostrato che i sintomi depressivi possono essere trattati “semplicemente” attraverso l’addestramento ad uno stile di pensiero orientato per obiettivi, attraverso esercizi mentali strutturati secondo l’approccio cognitivo-comportamentale chiamato “Modificazione dei bias cognitivi” (Cognitive Bias Modification).

Lo studio condotto dalla University of Exeter e finanziato dal Medical Research Council, è stato pubblicato lo scorso Novembre sulla rivista Psychological Medicine e sembra interessante rispetto alla  necessità di proporre programmi di intervento più rapidi, efficaci e meno costosi nei casi di depressione o depressione maggiore. La proposta dei ricercatori è: un training di soli due mesi in grado di produrre, attraverso l“Addestramento al pensiero concreto” (Concreteness Training, CNT), un cambiamento dello stile di pensiero e una parziale riduzione della sintomatologia depressiva.  L’obiettivo generale del training è di insegnare alle persone ad essere più specifici quando riflettono su un problema e questo sembra ridurre le difficoltà iniziali di approccio alla soluzione, il rimuginio conseguente, il brooding e infine l’umore depresso. Le persone che soffrono di depressione hanno infatti la tendenza a sviluppare uno stile di pensiero astratto e caratterizzato da una prevalenza di pensieri negativi e molto generali, che alimentano la loro generale “incapacità nella vita” e sensazione di impotenza. Il modello  proposto dai ricercatori sembra in grado di  intervenire in modo diretto proprio su questo stile di pensiero.
I 121 soggetti  sperimentali, scelti in una fase di abbassamento dell’umore all’interno di un episodio depressivo maggiore diagnosticato, sono stati suddivisi in tre gruppi: 1) prosecuzione terapia abituale, 2) terapia abituale + CNT, 3) terapia abituale + trainig di rilassamento.  Il modello CNT prevedeva la somministrazione ai partecipanti di alcuni esercizi mentali giornalieri, standardizzati per step successivi e accompagnati dall’ascolto di un CD, in cui era richiesto loro di focalizzarsi su un recente evento di vita abbastanza negativo e fonte di stress e di identificarne specifici dettagli immaginando come ognuno di questi, presi singolarmente, avrebbe potuto influenzare l’esito immaginato.
La riduzione dell’ansia e della depressione ha favorito il passaggio da una diagnosi di “depressione grave” ad una di “depressione moderata” entro i primi due mesi di training, con un buon mantenimento dei risultati a distanza di 3 e 6 mesi. In media, i pazienti che hanno proseguito invece la loro abituale terapia non sono migliorati nella sintomatologia depressiva, mentre quelli che avevano integrato con gli esercizi di rilassamento sono migliorati di più, ma solo i pazienti che hanno seguito il “Concreteness training” hanno ridotto l’intensità dei pensieri negativi legati alla ruminazione.
Il Professor Edward Watkins ha spiegato: “Questo studio è la prima dimostrazione del fatto che il solo orientare lo stile di pensiero per obiettivi può avere un impatto significativo nell’affrontare la depressione. Si tratta di un approccio che può comportare un contatto minimo con il clinico e il training può essere seguito tramite assistenza on line, aprendo la possibilità di utilizzare CD o addirittura applicazioni per smartphone.  Il vantaggio sta nella possibilità di offrire un trattamento poco costoso e accessibile per un numero maggiore di persone, obiettivo prioritario nella cura della depressione a causa della elevate percentuale di persone affette da questo problema e dai costi globali, sociali e sanitari, che questo comporta.” I ricercatori proseguiranno in questa direzione per verificare l’efficacia del protocollo e la possibilità di inserire la CNT come trattamento privilegiato dal National Health Service britannico per la cura della depressione.
L’effetto di questo training sembra, ad una prima occhiata, paragonabile all’effetto del farmaco antidepressivo, in alcuni casi “salvavita” e spesso utile nel recuperare le “forze” cognitive necessarie ad intraprendere un percorso psicoterapico più approfondito, quindi da non sottovalutare la possibilità di utilizzare il protocollo proposto nella fase iniziale della terapia..
Fonte: Watkins ERTaylor RSByng RBaeyens CRead RPearson KWatson L., (2011). “Guided self-help concreteness training as an intervention for major depression in primary care: a Phase II randomized controlled trial.”, Psychological Medicine, 16:1-13. (Mood Disorders Centre, University of Exeter, UK.)
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