"Io, Daniel Blake." Ken Loach (2016)

L’ennesima denuncia di Ken Loach, l’ennesima necessaria riflessione sulla nostra realtà.

Daniel Blake è un carpentiere, ha circa 60 anni, vedovo e con un passato difficile, che si trova ad affrontare un periodo di malattia. E’ un uomo forte, capace di affrontare le difficoltà con ironia, di accettare le sofferenze della vita come eventi da cui imparare per andare avanti. L’apparenza burbera e l’aria semplice, si accompagnano a gesti e parole di grande delicatezza, saggezza e generosità, e mostrano un animo curioso e autenticamente aperto al mondo e agli altri.

A seguito di un attacco cardiaco Dan è costretto per la prima volta nella vita a chiedere aiuto allo Stato: non ha per fortuna avuto danni gravi, è in forze e autonomo in tutto, ma i medici gli vietano di lavorare perché il suo cuore è debole e deve ottenere un sussidio di invalidità che gli permetta di vivere, in attesa di riprendere il suo lavoro. Il problema è semplice, la soluzione a quanto pare impossibile.

i-daniel-blakUn funzionario ottuso e dedito alle procedure, più che a rendere servizio, valuta l’autonomia e la resilienza di Dan come un segnali di benessere e gli nega il sussidio, gettandolo in un paradosso senza soluzione: non può lavorare, non può avere assistenza. I ricorsi richiedono molto tempo e competenze informatiche che Dan non ha, ma lui non cede: ore di attesa ai call center, moduli online, code agli sportelli, internet point, documenti, visite mediche. Niente, ci vogliono mesi. Il sistema ha solo una soluzione rapida da offrire, di nuovo paradossale: fingere di cercare un lavoro, che non potrà accettare finché i medici non lo consentiranno, per ottenere un sussidio di disoccupazione che non gli spetterebbe. Dan non ha scelta e accetta, ma la sua identità solida e forte inizia ora a vacillare. Arrivano umiliazione, vergogna, inadeguatezza. Un senso di impotenza e di inutilità che prima non conosceva e che ora lo fanno temere per il futuro.

In questa lotta per i suoi diritti incontra Daisy, ragazza madre di due bambini, in grave difficoltà e isolamento. Dan trova tempo anche per lei: fa lavori di casa, aiuta i bambini con i compiti e con le difficoltà di integrarsi, costruisce mobili in legno e racconta loro delle storie prima di andare a letto. Dan ha davvero molte energie e molto da insegnare agli altri, ma trova solo in loro qualcuno in grado di apprezzarlo e di dargli il calore umano di cui ha bisogno.

Dan resiste, personalmente e eticamente. Non si arrabbia mai di fronte alle difficoltà, è abituato a risolvere problemi, ad aggiustare le cose e a farle funzionare. E’ e resta fiducioso. Ma le ingiustizie fanno crollare a poco a poco le sue certezze e lo indeboliscono come nient’altro.

Ken Loach ci porta di nuovo e con forza su temi di giustizia sociale, a riflettere su come le nostre società moderne gestiscono l’emarginazione, la malattia e la povertà, ma anche su come paradossalmente le risorse personali, l’interesse per il bene comune e il senso di responsabilità siamo sovrastate da superficialità e ignoranza, quando non addirittura osservate con sospetto.

La visione di Loach è dolorosa, ma chiara: non racconta la storia di un eroe, ma di un cittadino normale, con i suoi diritti e rispettoso dei suoi doveri, che non ha nessuna voglia di approfittare dello Stato, ma che si trova suo malgrado più dipendente e bisognoso di quello che vorrebbe, perché lo Stato semplicemente non funziona. La solidarietà sembra l’unica risposta possibile, a fronte di un servizio sociale che non solo non è in grado di comprendere e rispondere ai diritti minimi, ma che in più è lesivo della dignità e dell’identità stessa delle persone.

Chiaramente è qui rappresentato e colpito il servizio sanitario inglese, ma la denuncia di Loach genera molte riflessioni importanti sulla necessità di non perdere, tra innovazioni tecnologiche, burocratizzazione e automazione delle procedure, l’essenza irrinunciabile dell’assistenza pubblica e (aggiungerei) di ogni processo di cura: un aiuto che rispetti i diritti, le identità e le storie, che promuova l’autonomia e la crescita, che sia in grado di cogliere e valorizzare le risorse personali e soprattutto che non sia “iatrogeno” quando incontra la vita quotidiana delle persone.

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La Psicoterapia: Un luogo nuovo.

Ognuno di noi può in qualsiasi momento della propria vita sentire il bisogno di un supporto e confronto rispetto a differenti situazioni.
La relazione terapeutica permette di creare un “luogo nuovo”, all’interno del quale sperimentare pensieri, emozioni e comportamenti e costruire all’interno di questo spazio nuovi modi e nuovi strumenti per aumentare la capacità di “leggersi” e muoversi nel mondo.
In quest’ottica la psicoterapia non è un luogo in cui trovare risposte, ma uno spazio interattivo in cui costruire gli strumenti più efficaci per trovarle; è una palestra in cui vengono allenate e rinforzate delle abilità cognitive, emotive e comportamentali utili ad affrontare le più diverse situazioni quotidiane.
L’idea di scrivere questo blog, nasce dalla moltitudine di domande che vengono rivolte a noi clinici sul ruolo, sull’efficacia e sulla attendibilità della psicoterapia come strumento di cura. Spesso miti e legende ruotano intorno al ruolo dello psicoterapeuta e possono rendere difficile l’accesso a questo tipo di aiuto o creare delle aspettative irrealistiche sulle possibilità di riceverne. In entrambi i casi, la comprensione del ruolo dello psicoterapeuta e la funzione della psicoterapia in generale rischiano di essere declinati in modi lontani da quella che è invece l’esperienza clinica, questo sia dal punto di vista dello specialista sia da quello del cliente.
Mi piace pensare alla psicoterapia, come ad un percorso che permette di “aumentare i gradi di libertà” di un sistema, che aggiunge cioè possibilità in termini di pensieri, comportamenti, vissuti emotivi, laddove la sofferenza psichica può portare invece ad un povertà di soluzioni e soprattutto alla ripetitività di strategie già sperimentate come fallimentari. Questo ovviamente in termini di costi personali e non assoluti. L’introduzione di elementi nuovi può perturbare il sistema e produrre cambiamento in senso positivo, senza bisogno di modificare in modo radicale pensieri e comportamenti. La sola consapevolezza del proprio modo di funzionare può talora essere sufficiente a non pagare costi emotivi troppo elevati e aiutare a spiegarsi un po’ meglio il proprio modo di agire, di pensare e di “sentire”.
Questa funzione generale della psicoterapia sul benessere psicologico, può essere raggiunta ovviamente con altri mezzi, primo fra tutti l’accesso alle risorse personali, cui ognuno di noi può comprensibilmente attingere. Indispensabili sono poi le risorse che prendiamo dall’esterno – amici, familiari, lavoro, religione, gruppi di appartenenza – e da cui possiamo trarre scambi vantaggiosi e sufficienti a superare un momento di empasse. Non di meno esistono poi infinite “agenzia di cura” che si prefiggono di nutrire mente e corpo con mezzi e strumenti altrettanto validi ed efficaci, e credo che la psicoterapia si possa collocare tra queste.
Come per tutte le “agenzie di cura”, la differenza nella scelta del percorso più adeguato è legata ad un personale interesse, alla facilità di accesso ad alcuni tipi di supporto piuttosto che altri, ai propri valori, giudizi e pregiudizi, al carattere, alle proprie paure, credenze o semplicemente alle precedenti esperienze di vita.
Quello che rende un percorso efficacie è soprattutto l’incontro tra le attitudini personali e le caratteristiche proprie del percorso, motivo per cui credo possa essere di aiuto conoscere i mezzi e la direzione che un trattamento di tipo psicoterapico può offrire e, per quanto possibile, operare scelte che siano nelle nostre “corde”.
In questa sezione del blog, introdurrò alcuni contributi, personali e non, che possano avvicinare idealmente il lettore alla comprensione della psicoterapia e delle sue possibili declinazioni…
Buona lettura!
Camilla Marzocchi