NON SONO IO di Anabel Gonzalez – Recensione

Molto spesso l’arrivo in terapia è legato ad una richiesta di aiuto per l’emergere di pensieri, emozioni, comportamenti o sensazioni fisiche che vengono riconosciuti come problematici o estranei a come le persone sono abituate a percepire se stesse, il loro corpo o le loro relazioni. “Non sono io”, “Non è da me aver paura”, “Non mi riconosco più”, “Ho perso il controllo”.

I sintomi insomma: attacchi d’ansia, pensieri intrusivi, voci interne, giudizi negativi e ricorrenti su di sé, sugli altri o sul mondo, esplosioni di rabbia incontrollata, pianto, tristezza, solitudine, dolori fisici, preoccupazioni per la salute, difficoltà nel prendere decisioni, apatia, stanchezza cronica, angoscia. Ogni manifestazione di malessere ha la sua storia e sarà importante approfondirne l’esordio, l’intensità, la durata nel tempo e collocare per quanto possibile questo malessere in una traiettoria di vita che lo ha preceduto, provando poi a costruire una traiettoria che lo seguirà, in cui quel malessere troverà una comprensione e una ri-soluzione.

Quello che tuttavia tutti questi “sintomi” hanno in comune, con diversi gradi di intensità e profondità, è la percezione chiara che siano “intrusi”, “ostacoli” al benessere emotivo e mentale. Non me, appunto: pensieri che non vorrei avere o che non riconosco utili, comportamenti che non corrispondono alle mie scelte, sensazioni corporee che arrivano contro ogni previsione, emozioni che mi travolgono senza che io possa controllarle o comprenderle. Ricordi che vorrei dimenticare, ma che tornano nelle immagini e nei sogni. Di nuovo: non sono io, non è la mia storia.

Di recente uscita in italiano il testo di Anabel Gonzalez “Non sono io. Imparando a comprenderci.” (2020), è un libro di auto-aiuto e psicoeducazione sugli effetti a lungo termine di eventi traumatici o di traumi dello sviluppo che conducono spesso a questo senso di estraneità verso noi stessi, verso le nostre emozioni e pensieri, verso quello che ci è accaduto.

Non sono io, di Anabel Gonzalez
(2020)

Comprendere è il primo passo per iniziare a cambiare, mantenere un’attitudine aperta, curiosa e non giudicante è però al tempo stesso difficile da realizzare, ma fondamentale per procedere verso una maggiore integrazione e guarigione. Compito non facile, ma più affrontabile con una guida esperta. I sintomi sono spesso percepiti come eventi esterni che irrompono nel quotidiano e che spezzano una routine che fino a quel momento sembrava scorrere serena o che almeno non ci lasciava impotenti, frustrati o disperati. Se “non sono io”, posso sentirmi non colpevole o responsabile del mio malessere, posso sentirmi vittima di una situazione ingiusta, posso anche riconoscere legittimamente che alcuni eventi esterni hanno causato un malessere di cui avrei fatto volentieri a meno e questo è spesso un buon inizio per capire da dove arriva la sofferenza che oggi ci disturba. Ma se non sono io, cosa può aiutarmi a cambiare?

E’ molto vero che spessissimo alcune situazioni traumatiche vissute nell’infanzia o nella vita adulta possono lasciare un segno e una sofferenza che non avremmo avuto senza il verificarsi di quelle particolari e drammatiche circostanze ed è altrettanto importante ri-collocare le responsabilità effettive degli eventi che ci hanno ferito o fatto sentire impotenti. Soprattutto se quello che ci è accaduto è avvenuto nell’infanzia e in un tempo in cui non potevamo fare niente per cambiare le cose. Senza questo, diventa impossibile accedere a qualunque sforzo di comprensione e guarigione.

Tuttavia nel tempo diventa altrettanto importante fare per noi stessi alcuni passi in più: comprendere profondamente che le esperienze che pure ci hanno modificato ingiustamente non sono purtroppo eliminabili, ma solo superabili e che per guarire abbiamo bisogno di includere e accogliere gradualmente nella nostra mente e nel nostro corpo proprio le emozioni, i pensieri, il dolore che dopo quegli eventi è diventato parte della nostra traiettoria di vita, provando a non rifiutarlo, a non costringere parti di noi a restare alienate e nascoste perchè non allineate al “me” che sento giusto, positivo e orientato al futuro che vorrei. Molto semplice, per niente facile da realizzare.

Alcune chiavi proposte per riflettere su molti aspetti importanti riguardano il porsi le domande giuste: Come siamo abituati ad aiutarci nei momenti di difficoltà? Cosa facciamo per stare meglio? Come siamo abituati a proteggerci?

Le emozioni negative sono un segnale di qualcosa che ci sta succedendo all’interno, non sono un ostacolo al nostro benessere ma lavorano al contrario in nostra protezione. Provare a porsi le domande giuste ed esplorare con curiosità le nostre emozioni, è un buon inizio per un dialogo interiore più costruttivo e orientato a comprendere meglio il presente.

Cosa faccio per aiutarmi se sono triste? Cosa mi dico quando sono arrabbiato? Cosa mia aiuta quando sono in ansia? Cosa mi fa bene? Se le emozioni sono un segnale da cogliere, allora il punto non è eliminare le emozioni negative ma imparare a regolarle dentro e fuori di noi. Regolarle non ha a che fare con il controllarle o con il limitarle o con l’inibirle, al contrario regolarle ha più a che fare con la possibilità di tollerarle, accompagnarle e contenerle dentro di noi, rispettandone il messaggio e provando a portarlo fuori di noi nelle condizioni migliori possibili, in modo che venga cioè ascoltato e compreso al meglio. Un grande impegno che passa sia dall’intuizione e dal riconoscimento delle proprie emozioni, ma anche dall’ “allenare” quotidianamente le capacità che non ci hanno insegnato o trasmesso nell’infanzia. Ovviamente essere “costretti” ad imparare per noi stessi, quello che avremmo in realtà dovuto riceve di diritto “ascolto”, “accettazione”, “amore”, “attenzione”, non è né facile né privo di ambivalenze, ma dall’altro lato restare nella stessa posizione difficile in cui siamo stati nell’infanzia e sperare (o attendere) che gli altri riparino le nostre ferite è una prospettiva altrettanto pericolosa e nociva per la nostra vita adulta.

Il messaggio è chiaro: prima riusciamo come adulti a capire che siamo noi gli unici a poterci “rimettere alla guida” del nostro sistema emotivo, prima riusciremo a orientarci con amore e compassione verso quello che potrà renderci felici. Ma chi è l’adulto che guida?

Non sono io (che devo guidare)” spesso è la risposta implicita che prende forma in tanti pensieri e credenze bloccanti: “non ce la faccio”, “non è giusto”, “non sono capace”, “sono inadeguato”, “sono un fallito”, “sono impotente”, “sono fragile”, “sono debole”.

Spesso la richiesta alla psicoterapia è proprio trovare qualcuno che guidi al posto nostro, anziché qualcuno che ci insegni a guidare in modo autonomo. E non è sempre piacevole scoprire nel tempo che siamo noi a dover imparare. Niente è tuttavia semplice da realizzare, senza tempo, cura e dedizione.

Riconoscere bisogni ed emozioni interne, può certamente diventare una sfida molto molto complessa se abbiamo vissuto esperienze traumatiche intense e precoci, soprattutto quando i traumi hanno riguardato le primissime esperienze relazionali. I traumi relazionali precoci che espongono troppo presto nella vita ad un senso di paura e minaccia, magari proprio in famiglia laddove avremmo dovuto ricevere sicurezza a protezione, lasciano chiaramente grande frammentazione e smarrimento. In questa divisione interna può diventare molto difficile identificare e distinguere emozioni, bisogni e obiettivi. La sensazioni di “non essere io” è in questi casi molto più frequente e potente: la mente ha avuto nel passato e ha ancora nel presente la necessità di relegare (o dissociare) molte esperienze negative in angoli della mente in cui il dolore e i ricordi possono essere almeno temporaneamente sospesi o inascoltati.

La frammentazione dell’identità di cui parla Anabel Gonzalez è proprio il risultato della mancanza di uno sguardo attento, di quello specchio fondamentale nelle prime relazioni sigificative, che ci permette di esprimere un’emozione e di sentirla legittima, perché ascoltata, accolta e non-giudicata. Quando le nostre normali emozioni ricevono troppo precocemente rifiuto, critiche o minacce, impariamo presto a rifiutarle e a sviluppare l’automatismo appreso che sia meglio eliminare e distruggere le parti di noi che gli altri rifiutano. Di solito tuttavia si tratta delle parti più sofferenti, vulnerabili e arrabbiate: quelle che avrebbero cioè più bisogno di noi.

Ogni trauma può essere affrontato ed elaborato, ma questo rifiuto di parti di sé è spesso l’ostacolo più grande da superare, se non affrontato con la sicurezza, il rispetto e i tempi necessari. Per questo risultano fondamentali nel libro i capitoli dedicati alla cura di sé, alla capacità di proteggersi, alla possibilità di sviluppare un dialogo interno orientato innanzitutto alla cura di sè: “cosa mi fa bene?”, “cosa posso fare per stare bene ora?”. Di nuovo diventa importante porsi le domande giuste, poiché spesso chi non ha ricevuto cure adeguate nell’infanzia, fatica a sentire la motivazione a prendersi cura di sé e della propria salute, a sentirne l’esigenza e men che mai il desiderio. Quando questo non si attiva in modo spontaneo, può però diventare un’attitudine da imparare a coltivare ponendoci le domande giuste.

Inutile chiedersi se abbiamo voglia di fare sport allora, meglio chiedersi se ci farà bene farlo. E’ rischioso chiederci se abbiamo voglia di uscire quando la tristezza e la solitudine dell’infanzia riaffiorano improvvisamente insieme al dolore, è più saggio chiederci se fare una passeggiata ci farà sentire bene o almeno un po’ sollevati poi.

Le domande giuste possono aiutarci meglio di soluzioni pronte all’uso, soprattutto laddove le solite soluzioni ci sembrano vicoli ciechi perchè non abbiamo avuto la guida giusta nel passato.

Il libro di Anabel Gonzalez è una guida per tutti, uno spunto di riflessione in cui ogni “domanda giusta” può diventare un seme da coltivare e far crescere con tutta la cura e l’attenzione di cui siamo capaci. Ogni piccolo passo può aiutare ad integrare aspetti di noi prima rifiutati, ad imparare che come adulti abbiamo davvero molte possibilità che prima non avevamo, a sentire che l’adulto che siamo ha l’opportunità di sentirsi più completo, forte e gratificato se ogni parte di sé può dare il suo contributo.

Disturbo Borderline e trauma precoce: cosa nasce prima?

Uno dei disturbi più presenti nello scenario comune e più raccontati in cinematografia è il disturbo Borderline di personalità.
Ma di cosa parliamo esattamente? Quali sintomi o condizioni cliniche o storie di vita lo contraddistinguono?
Ecco alcune delle caratteristiche caratteriali e comportamentali più ricorrenti:
Cronica paura dell’abbandono, difficoltà nel regolare emozioni, autolesionismo, ideazione suicidaria, instabilità nelle relazioni, tendenza a creare relazioni intense e simbiotiche, alternanza tra svalutazione e idealizzazione dei legami affettivi, impulsività, abuso di sostanze, pensieri ricorrenti legati al suicidio, identità incerta e instabile, difficoltà nel definire obiettivi di vita e mantenere aspirazioni, valori, soddisfazione personale, alterata percezione del rischio con tendenza a esporsi a situazioni pericolose per la salute o per la vita.

Come terapeuta cognitivo-evoluzionista, la storia costituisce per me la parte fondamentale di ogni raccolta anamnestica: la storia di vita indica i principali eventi positivi e avversi che la persona ha affrontato nell’arco della sua vita fino al momento della consulenza terapeutica, ma anche le principali strategie di resilienza e di difesa che ha dovuto e potuto mettere in campo per sopravvivere, letteralmente o emotivamente, a condizioni sfavorevoli e che hanno provocato dolore. Tuttavia esistono le diagnosi e ogni clinico ha il dovere di orientarsi in un panorama categoriale che permette a terapeuti e pazienti di “inquadrare” il problema emotivo, di offrire una “etichetta” ai sintomi e non alla persona, con l’obiettivo di scegliere le linee guida terapeutiche più indicate e validate per quella specifica diagnosi o condizione clinica. Per quel malessere cui spesso è difficile dare un nome.
La chiave evoluzionistica è strettamente connessa alla cornice psicotraumatologica, che è quella branca della psicologia che si occupa di indagare prima e di lavorare poi sulle tracce cliniche e sintomatologiche che eventi di vita traumatici possono aver lasciato nella mente, nel corpo e nel sistema emotivo di una persona. L’indagine della storia traumatica è fondamentale per comprendere quali eventi di vita hanno creato delle “fratture” nella evoluzione emotiva della persona e soprattutto per capire come quella persona è riuscita ad andare avanti e a ri-organizzare la sua vita, la sua identità, la sua emotività e la sua capacità di creare relazioni solide e nutritive a seguito di quella frattura.
Le ferite generate da uno o più eventi di vita traumatici, possono annidarsi nel sistema emotivo e diventare nel tempo sintomi che generano grave malessere psicologico. Indagare i sintomi in una chiave evoluzionistica e psicotraumatologica permette di considerare quelle abitudini o reazioni emotive maladattive del presente o pattern relazionali, come il risultato di soluzioni emotive che sono state adattive nel passato, nel loro contesto originario di emergenza o di paura, ma si rivelano troppo costose o inutili o talora dannose nel presente della persona.
Di seguito il link ad un mio contributo pubblicato su PsychiatryOnLine, per la Rubrica Fantasmi nel sè di AISTED – Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione:

“Disturbo Borderline o Dissociazione Traumatica? Il caso di Linda”

di Camilla Marzocchi

Buona lettura!

La narrazione in psicoterapia: a cosa serve raccontare esperienze del passato che ci hanno fatto soffrire?

La psicoterapia è un trattamento basato sulla parola.

Ogni tipo di psicoterapia utilizza soprattutto il linguaggio per esprimere, accedere e modificare prospettive di vita, pensieri, emozioni. Nel panorama dei diversi approcci di cura non è raro trovarsi di fronte ad un relativismo estremo: approcci centrati solo sul comportamento, solo sul corpo, solo sulle emozioni, solo sul simbolismo delle parole, solo sull’ascolto silenzioso dell’esperienza dell’altro. Ogni cornice teorica recita e applica i suoi riferimenti, offrendo chiavi di lettura e strategie per conoscere meglio se stessi e affrontare nodi dolorosi della vita attraverso l’acquisizione di nuovi punti di vista. Ma alla fine la parola, la narrazione, il linguaggio assumono in ultima istanza e per tutti un ruolo indubbiamente centrale nel ridefinire una cornice, una nuova consapevolezza e una nuova scoperta su se stessi, qualunque sia stato il mezzo per esplorarsi.

Ma a cosa serve raccontare situazioni del passato che ci hanno fatto soffrire?

snoopy-raccontoNei processi narrativi presenti in psicoterapia un aspetto centrale da conoscere e ri-conoscere è il funzionamento della nostra memoria. Gli eventi traumatici o dolorosi della vita seguono infatti processi di elaborazione e memorizzazione del tutto simili a tutti gli altri eventi di vita, almeno finché questi eventi negativi vengono elaborati in un modo adattivo e funzionale alla nostra evoluzione come individui.  Ma come viene immagazzinato un evento?

Dalla neuropsicologia sappiamo che esistono diversi tipi di memoria, ognuno dei quali è funzionale alla nostra vita e al recupero di informazioni necessarie da utilizzare nel presente. Una prima differenza riguarda memorie dichiarative e memorie non dichiarative (Squire, 1994): le prime riguardano ricordi di eventi personali, di fatti, di informazioni riguardanti il mondo in generale e possono essere recuperate volontariamente, le seconde riguardano invece abilità, abitudini, associazioni emotive e risposte condizionate e sono principalmente memorie implicite, non recuperabili deliberatamente. Ad esempio l’andare in bicicletta può essere presente in entrambi i tipi di memoria, in un caso come ricordo del giorno in cui abbiamo imparato ad andare in bicicletta (mem. Dichiarativa autobiografica), nell’altro come memoria dei movimenti che ci consentono di pedalare senza cadere (mem. Implicita procedurale).

Altro aspetto importante riguarda secondo Tulving (2001) la differenza tra memoria episodica e memoria semantica. I ricordi contenuti nella memoria episodica riguardano avvenimenti accaduti in un determinato luogo, tempo e contesto della nostra vita e riusciamo grazie ad essa a recuperare questi elementi; al contrario la memoria semantica va a costituire le basi della nostra conoscenza su noi stessi, sugli altri e sul mondo, e non necessita di un evento di vita specifico o dell’esperienza. Sappiamo che in Africa ci sono i leoni senza essere necessariamente andati lì a vederli con i nostri occhi! Entrambe queste memorie possono entrare in gioco rispetto allo stesso evento di vita: possiamo ricordare ad esempio singoli eventi positivi della nostra vita professionale attivando una memoria episodica di quelle situazioni, o possiamo accedere ad una conoscenza di noi stessi come persone di successo e competenti senza recuperare volontariamente tutti gli episodi che a questo sono legati. E qui le cose iniziano a complicarsi un po’!

Infine la memoria episodica permette alla persona di accedere ad un altro tipo di informazioni: le rappresentazioni percettive sensoriali connesse ad eventi specifici. Il recupero di questi aspetti dei ricordi non può riguardare tutti gli eventi della nostra vita quotidiana, ma riguarda certamente eventi di vita vissuti con un’alta intensità emotiva, tali da rimanere “codificati” nella mente come eventi significativi. Recuperando il ricordo dell’ultima volta che abbiamo fatto la spesa non riusciremmo forse a riportare alla memoria sensazioni fisiche, odori e suoni di quella situazione (sarebbe un dispendio di energie troppo alto!), mentre riusciremo più facilmente a rivivere sensazioni e percezioni  della nostra prima “cotta”, anche a distanza di molti anni!

Tutti gli eventi significativi della nostra vita vengono archiviati in modo armonico nei diversi “magazzini” della memoria ed è importante poter accedere a tutti i diversi livelli e aspetti dei ricordi. Gli eventi molto negativi e traumatici tuttavia a volte rischiano di non essere elaborati nel modo per noi più adattivo possibile e faticano a venire “archiviati” regolarmente. Quando questo accade, i ricordi negativi possono lasciare frammenti sparsi di diversi aspetti dell’evento, frammenti che possono riaffiorare come pensieri negativi, immagini intrusive, sensazioni fisiche sgradevoli. Può emergere ad esempio il ricordo solo semantico di un evento molto negativo (ad es: “sono in pericolo”, “non valgo niente”, “sono un fallito”, “non farò mai niente nella vita”, “sono un debole”), ma non il ricordo episodico ad esso collegato (incidente, abuso, umiliazione, violenza fisica o verbale); possono emergere al contrario sensazioni fisiche intense di paura, dolore o irrequietezza in particolari situazioni che elicitano dei ricordi presenti nella memoria implicita, senza che vengano volontariamente collegati ad alcun ricordo della memoria dichiarativa o episodica. Possono comparire immagini intrusive o flash back dalla memoria episodica, in momenti di assoluta serenità. In tutti questi casi e in molti altri, questo tipo di  incongruenze può indicare la presenza di un ricordo non completamente e correttamente elaborato dalla nostra mente e la scarsa fluidità dei processi di memoria emerge solitamente attraverso il linguaggio, le parole, le espressioni prosodiche e le descrizioni che facciamo degli eventi.

Il racconto condiviso della propria storia in psicoterapia può aiutare a mettere in luce proprio queste incongruenze e a rintracciare tutti i frammenti sparpagliati nella memoria allo scopo di ricostruire un puzzle coerente e completo di quello che è accaduto, di bello e di brutto, nella vita. Recuperare i ricordi negativi e ri-collocarli in uno spazio e in un tempo definiti, aiuta a ridurre il loro potenziale traumatico nel presente, aiuta a separare ciò che è stato da ciò che è o potrà essere nel futuro, aiuta a dare loro un senso e un significato personale.

Ecco il cuore del processo terapeutico: dare senso e significato ad una storia attraverso il recupero del suo racconto, costruire una mappa nuova e completa del passato e lasciare a quei ricordi negativi un traccia da seguire per abbandonare luoghi oscuri e inesplorati della mente e raggiungere spazi più luminosi e accoglienti, in cui possano finalmente trovare uno luogo di quiete e, forse, di oblio.

Liberamente tratto da:

Schauer, Neuer, Elbert, Terapia dell’esposizione narrativa. Un trattamento a breve termine per i disturbi da stress post-traumatico. Giovanni Fioriti Editore (2014)

Cos'è l'EMDR?

L’EMDR è un approccio complesso utilizzato per elaborare eventi traumatici e consiste in una metodologia strutturata che può essere integrata nei programmi terapeutici aumentandone l’efficacia.
Il modello considera tutti gli aspetti di una esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici e vede nella patologia il “sintomo” di un’informazione immagazzinata in modo non funzionale, su tutti i livelli: cognitivo, emotivo, sensoriale e fisiologico.
Quando avviene un evento ”traumatico” l’equilibrio tra le nostre reti neurali (eccitatorie e inibitorie) viene disturbato e l’elaborazione di conseguenza resta bloccata, come “congelata” nella sua forma ansiogena originale. Questo è il modo in cui le sensazioni del passato si ripropongono come “sintomi” nel presente.
Questa metodologia si fonda su un processo neurofisiologico naturale, legato all’elaborazione accelerata dell’informazione (AIP) e utilizza movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio neuro fisiologico, provocando così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.
I movimenti oculari saccadici e ritmici usati con l’immagine traumatica, con le convinzioni negative ad essa legate e con il disagio emotivo facilitano infatti la rielaborazione dell’informazione fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi. Nella risoluzione adattiva l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo.
Le ricerche condotte su vittime di violenze sessuali, di incidenti, di catastrofi naturali, ecc. indicano che il metodo permette una desensibilizzazione rapida nei confronti dei ricordi traumatici e una ristrutturazione cognitiva che porta a una riduzione significativa dei sintomi del paziente (stress emotivo, pensieri invadenti, ansia, flashback, incubi).
L’EMDR è usato fondamentalmente per accedere, neutralizzare e portare a una risoluzione adattiva i ricordi di esperienze traumatiche che stanno alla base di disturbi psicologici attuali del paziente.
Queste esperienze traumatiche possono consistere in:

  • Piccoli/grandi traumi subiti nell’età  dello sviluppo
  • Eventi stressanti  nell’ambito delle esperienze comuni (lutto, malattia cronica, perdite finanziarie, conflitti coniugali, cambiamenti)
  • Eventi stressanti al di fuori dell’esperienza umana consueta quali disastri naturali (terremoti, inondazioni) o disastri provocati dall’uomo (incidenti gravi, torture, violenza)

Negli ultimi anni ci sono stati più studi e ricerche scientifiche sull’EMDR che su qualsiasi altro metodo usato per il trattamento del trauma e dei ricordi traumatici. I risultati di questi lavori hanno portato questo metodo terapeutico ad aprire una nuova dimensione nella psicoterapia. L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità . Nel 1995 il Dipartimento di Psicologia Clinica dell’American Psychological Association (APA) ha condotto una ricerca per definire il grado di efficacia di questo metodo terapeutico e le conclusioni sono state che l’EMDR è non solo efficace nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico ma che ha addirittura l’indice di efficacia più alto per questa categoria diagnostica.
(Fonte: Associazione EMDR Italia )
EMDR Institute USA
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Stress Post Traumatico e Disturbo Ossessivo: un caso clinico

Un recente studio olandese (Nijdam et al, 2013) descrive il caso di un paziente con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo (DOC) ad insorgenza post traumatica; la diagnosi e le prospettive di lavoro cambiano radicalmente quando i sintomi sono reattivi ad eventi traumatici e un trattamento che ne tenga conto è più sicuro e più efficace per la remissione totale dei sintomi.

Sia nel disturbo ossessivo che nel disturbo post-traumatico c’è una tendenza al controllo, che può manifestarsi nel primo caso con rituali compulsivi e nel secondo con evitamento delle situazioni temute o con uno stato di ipervigilanza sull’ambiente. In una quadro traumatico complesso in cui si manifestano entrambe le sintomatologie, il DOC potrebbe avere la funzione adattiva di “regolare le emozioni negative” legate al trauma, cioè di ridurne l’intensità, attraverso l’uso di rituali che sono completamente sotto controllo della persona e che aiutano la mente a focalizzarsi nel presente, inibendo l’attivazione delle intrusioni e dei ricordi traumatici.
Come sempre la mente si adatta al meglio che può, è importante capire questi meccanismi di adattamento e “disinnescarli” nel presente.
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