Invulnerabilità e trauma: in fondo non è stato nulla di grave

Il trauma infantile in psicoterapia è storicamente oggetto di analisi per i suoi effetti a lungo termine sulla vita di chi lo ha vissuto. C’è ormai ampio accordo tra terapeuti di tutto il mondo, sull’idea che eventi di vita traumatici e avversi, soprattutto se avvenuti nella prima infanzia e nel contesto familiare, possano causare ferite emotive profonde, capaci di modificare su più livelli – fisiologico, emotivo, comportamentale, relazionale e sociale – la traiettoria evolutiva della persona colpita. (Herman, 1992; Lanius, 2012; Liotti, Farina, 2011; van der Kolk, 2015). Abuso sessuale, violenza fisica e verbale, ipercriticismo, aggressioni, bullismo: le storie dei pazienti che mostrano sintomi di sofferenza psicologica e stress post-traumatico sono costellate da eventi di questo genere e spesso fino all’arrivo in terapia la persona non ha mai considerato il legame tra quegli eventi traumatici del passato e la sua sofferenza attuale.
Fin qui nulla di nuovo e molto è stato ampiamente già descritto nella letteratura scientifica, nonostante l’attenzione altalenante e l’ambivalenza con cui il tema degli effetti fisici e psichici del trauma e dell’abuso infantile sia stato trattato negli anni (ACE Studies, Felitti, 1998; Lanius, 2012;).
Ma cosa succede quando il trauma è invisibile? Quando non è la minaccia, ma l’assenza di protezione a creare il danno più grave? Quando non è la violenza diretta, ma la costante assenza di uno sguardo amorevole a lasciare ferite?
Quello che ancora rischia di cadere vittima del negazionismo più resistente è oggi il neglect emotivo o trascuratezza. Il “danno da negazione del danno”: sembra un gioco di parole, ma chi ha vissuto questa condizione credo non faccia molta fatica a riconoscere di cosa si sta parlando.
Il negazionismo è stato spesso l’ostacolo al riconoscimento di grandi e storiche ingiustizie, poiché determina un immediato congelamento a accantonamento delle emozioni negative e collude con l’impossibilità di esplorare le responsabilità, di riconoscere il danno e dunque di farsi carico della cura e della protezione delle vittime.
La negazione è una difesa psicologica che può stratificarsi e colpire a diversi livelli la vittima: il primo strato riguarda proprio la vittima stessa, che può negare e minimizzare l’esperienza vissuta, avere dubbi sulla sua responsabilità o meno e restare incastrata tra paura, rabbia e la colpa anche per molti anni; il secondo strato riguarda la famiglia – spesso teatro principale dei più gravi abusi emotivi nell’infanzia  – e la negazione di quello che è avvenuto, o la negazione del modo in cui è accaduto, o ancora la minimizzazione della violenza laddove riconosciuta, o ancora il criticismo sulle reazioni legittime della vittima al trauma vissuto; il terzo strato riguarda la comunità di appartenenza, l’adeguatezza dei servizi che ruotano intorno alla vittima e le possibilità di accedere ad un contesto comunitario protettivo e capace di raccogliere sia segnali precoci di sofferenza, sia gli effetti devastanti successivi. Infine c’è l’ultimo strato: la legge, la società e la politica che hanno la responsabilità di prendere posizione su temi così scottanti, di far ottenere un giusto riconoscimento del danno subito per le vittime e di garantire un processo rispettoso degli effetti psicologici e fisici del trauma, soprattutto infantile, su chi l’ha subìto. Le strade della negazione sono tante, ma il risultato è spesso lo stesso per chi lo subisce: un vissuto profondo di difettosità, di essere sbagliati, di non valere abbastanza e l’impossibilità certificata di essere compresi e protetti.
Spesso il ricordo degli abusi e delle violenze subite è sin da subito accessibile alla memoria e permetterebbe in molti casi un lavoro immediato di elaborazione dei ricordi traumatici, al fine di sciogliere i sentimenti di colpa, impotenza e rabbia e permettere alla vittima di andare avanti verso la cosiddetta crescita post-traumatica. Nessun processo di elaborazione è mai semplice e lineare, e le difese naturali che ogni paziente può mettere in campo per evitare di sentire il dolore del passato sono molte e tutte necessarie; tuttavia nell’esperienza clinica quotidiana gli ostacoli più rigidi e resistenti al lavoro di elaborazione dei ricordi sono costituiti soprattutto da quell’insieme di esperienze di negazione – soprattutto se vissute all’interno della famiglia – e che hanno costretto la vittima a sopprimere le proprie emozioni e sviluppare solide strategie difensive, adatte a proteggersi da ogni attacco, da ogni esposizione al pericolo, da ogni piccolo rischio di dare la propria fragilità “in pasto” a caregiver gravemente inadeguati o talora minacciosi. L’insieme di queste strategie apprese crea alcune tra le più solide barriere dissociative (negazione, evitamento, rimozione) e ostacola la possibilità del paziente di riconoscere ed entrare in connessione con le emozioni dolorose della sua infanzia. La negazione vissuta all’esterno, si ripete dunque all’interno e spesso con più forza e determinazione.
Il trauma da omissione, la trascuratezza fisica e affettiva, l’invisibilità, l’assenza di protezione, la solitudine, l’abbandono alimentano un paradosso difficile da sciogliere: in questi casi il dolore non è generato da un comportamento violento, da un gesto maltrattante visibile e identificabile, ma al contrario è causato da un vuoto, dall’assenza di azioni di cura e di protezione, dalla mancanza di qualcosa che non è stato mai neppure conosciuto, la cui assenza però ha generato angoscia, terrore, senso di morte e di non esistere.
In pratica un nemico invisibile che diventa difficile contrastare. L’unica soluzione efficacie diventa allora chiudere ogni accesso a quelle emozioni e non esporsi mai al confronto con quegli eventi e con tutto quel dolore inspiegabile.
MA cosa succede in terapia?
Quando l’invulnerabilità diventa la cura al dolore, allora l’accesso e il riconoscimento di queste emozioni diventa davvero molto difficile e quello che potrebbe aiutare a superare il trauma, è allo stesso tempo fonte di minaccia poiché richiede un’esposizione di quei vissuti. La paura crea un paradosso: per essere aiutato devo espormi, ma per salvarmi devo evitare ogni emozione.
Del resto se da bambino esporre i miei bisogni, esprimere emozioni e finanche essere malato ha raccolto questa grave mancanza di sintonizzazione, allora imparerò a tenere tutto dentro per non rinnovare il dolore del rifiuto e nel tempo maturerò alcune idee fondanti che sarà difficile sradicare:

  • devo sempre essere auto-sufficiente
  • non posso mostrarmi debole
  • non ho bisogno di nessuno, non devo dipendere dagli altri
  • non serve piangere, chi piange è pigro e disfattista
  • per me non c’è nessuno, quindi devo cavarmela da solo
  • essere perfetto è il minimo per iniziare qualcosa
  • stare in allerta è l’unico modo di difendersi
  • se mi rilasso, sarò ingannato
  • mai fidarsi di nessuno
  • non merito niente di buono

Le emozioni del bambino del passato vengono congelate efficacemente, ma i suoi bisogni continuano a vivere al interno del sistema emotivo annidati nel corpo che si ammala, nei pensieri negativi che ricorrono o nelle reazioni emotive soverchianti. Il bambino diventa un soldato e dimentica una parte di sé, per riuscire a far fronte al presente che richiede di ottimizzare le risorse e di orientarle subito alla soluzione dei problemi.
Recuperare i rapporti con le emozioni di quel “bambino soldato” è la sfida più grande per le persone che hanno sempre bisogno di sentirsi invulnerabili, ma che sono sopravvissute, fisicamente o emotivamente, a traumi relazionali legati alla trascuratezza, all’ipercriticismo, alla mancanza di cure. Le emozioni di colpa e vergogna assumono dimensioni enormi e devono essere affrontate nel presente, proprio perché nel passato hanno subito quella negazione e di quel mancato riconoscimento che avrebbe almeno potuto aiutarli a capire che quello che stavano vivendo era una guerra vera e non un gioco innocente finito male.

Young boy soldier portrait

Bibliografia:
L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta, a cura di Lanius, E. Vermetten, C. Pain, Giovanni Fioriti, 2012.
Herman, Judith Lewis [1992]. Trauma and recovery: the aftermath of violence – from domestic abuse to political terror. New York: BasicBooks. (Ed.It, Guarire dal Trauma: Affrontare le conseguenze della violenza, dall’abuso domestico al terrorismo, a cura di R.Russo, Magi Edizioni, 2005)
Bessel van der Kolk (2015). Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Raffello Cortina, Milano.
Gianni Liotti, Benedetto Farina (2011) Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa.Raffaello Cortina Editore, Milano.
Felitti, VJ, Anda, RF, Williamson, DF, Spitz AM, Edwards, V, Koss, MP, Marks, JS.“Relationship of Childhood Abuse and Household Dysfunction to Many of the Leading Causes of Death in Adults. The Adverse Childhood Experience (ACE) Study.” American Journal of Preventive Medicine in 1998, Volume 14, pages 245–258.

Buoni propositi e procrastinazione: Buon anno!

Gennaio si sa, è un mese di buoni propositi e ritrovate speranze: il Natale è passato, l’inverno segue una svolta in positivo e nuovi progetti, diete, attività sportiva, scelte di vita, prendono piede. Per ognuno il cambiamento segue strade e forme diverse, ma nessuno sembra riuscire a tirarsi completamente indietro di fronte alla tentazione di almeno una promessa fatta tra sé e sé.

P_20161230_112638Esplorare il mondo e noi stessi con curiosità e gentilezza è l’augurio che vorrei portare avanti per tutto l’anno, provando a dedicare attenzione e presenza ad ogni azione e momento delle mie giornate.
Quali sono i vostri?
Come tenete fede alle promesse?

I buoni propositi quasi sempre implicano un cambiamento, ma ogni cambiamento è azione e agire di solito è l’ultimo anello di una catena più lunga che sarebbe importante (di nuovo!) esplorare. In alcune situazioni agire è semplice come respirare, a volte invece diventa un’azione più complessa, che mette in gioco “parti” o aspetti di noi più nascosti che possono emergere improvvisamente e remarci contro. Qui si colloca la procrastinazione, una delle forme più tipiche in cui alcune parti di noi intervengono a boicottare progetti e cambiamenti importanti. Sia chiaro: rimandare una scelta, un’azione o un impegno non è di per sé patologico, né dannoso, né tanto meno un comportamento da curare. Spesso prendersi del tempo è tanto necessario, quanto saggio.

Ma cosa succede quando ci accorgiamo di aver procrastinato a lungo qualcosa che per noi era davvero importante? Cosa ci diciamo quando il tempo passa e non riusciamo ad iniziare quello che vorremmo?

Per ognuno di noi la procrastinazione ha motivazioni e modalità differenti, ma per tutti può diventare una grande fonte di stress poiché alimenta una visione negativa di se stessi come inconcludenti, inadeguati o incapaci, quando non addirittura falliti.

Innanzitutto la procrastinazione porta ad “evitare” l’azione che vorremmo intraprendere, quindi ha spesso (ma non solo) emozioni di ansia e paura sottostanti, che la guidano. Ma paura di cosa? a volte è semplicemente paura dell’ignoto e di ciò che non si conosce, più spesso paura di fallire, o magari paura del giudizio, paura di non essere abbastanza forti, capaci o bravi, paura di non farcela, paura di sbagliare e vergogna di mostrarsi inadeguati alla promessa fatta a se stessi o agli altri. Tutte emozioni normali, ma se molto intense certamente difficili da tollerare! Accanto a queste ed altre emozioni,  possono insinuarsi nella mente idee e pensieri inflessibili, che contribuiscono ad alimentare e mantenere il comportamento di evitamento:

l’idea di dover raggiungere i propri obiettivi in pochissimo (o nessun tempo!), a volte si mostra come un vero e proprio “pensiero magico” che rende molto frustrante l’incontro con la realtà;

l’idea di non poter fallire, a volte si mostra come un pensiero “tutto o nulla” e confondiamo il “fare un errore” con l’ “essere persone sbagliate”; chi inizierebbe mai qualcosa sapendo di non poter assolutamente fallire?

l’idea di dover raggiungere risultati eccellenti, “altrimenti non vale la pena iniziare”, a volte ci pone di fronte ad alti standard che, anziché motivarci, bloccano i nostri tentativi sul nascere e ci fanno chiudere in un perfezionismo astratto e irraggiungibile;

l’idea di non essere all’altezza, di essere fragili, di non avere pregi particolari o di essere un bluff, sono infine pensieri che possono colonizzare la mente e impedirci di intraprendere una sfida o un cambiamento. A volte esperienze negative o traumatiche del passato cristallizzano nella mente un’immagine di noi stessi negativa e stereotipata, che non tiene conto delle risorse personali e della nostra complessità come esseri umani, lasciandoci fermi in “idee irrazionali” e credenze su noi stessi che non mettiamo mai davvero in discussione.

Dove impariamo tutti questi pensieri, meriterebbe un approfondimento e una riflessione più ampia e personale, ma è certo che per ognuno la strada che queste idee percorrono è diversa. La propria famiglia d’origine è spesso la culla in cui queste idee vengono alla luce e prendono spazio nella mente, ma tutte le nostre esperienze di vita successive diventano luoghi in cui possono invece evolvere, nutrirsi di nuove occasioni e magari anche di un po’ di saggezza.

Detto questo, negoziare con le nostre parti emotive più inclini alla procrastinazione è compito arduo e spesso richiede un livello di energia, fisica e mentale, che non abbiamo o che non basta a contrastare paura, vergogna e tentazione di rinunciare. Sapere però che queste “parti” hanno dei pensieri e delle emozioni, può almeno aiutarci ad aprire un tavolo di trattativa e forse a non interrompere troppo a lungo le nostre esplorazioni!

Buon 2017!

"Ho paura e basta: non so perché!"

Immagini come questa possono essere per l’uomo stimoli ad “alto contenuto emotivo”, possono cioè provocare reazioni fisiche ed emotive molto intense. L’intensità della reazione è tuttavia spesso legata all’esperienza soggettiva e non alle caratteristiche proprie dello stimolo. L’effettiva pericolosità, la vicinanza allo stimolo, la probabilità di un evento, non sono sempre centrali nel provocare emozioni, pensieri e comportamenti che ne derivano.

Di cosa si tratta allora quando parliamo di fobie?

La fobia è una reazione di paura collegata a uno stimolo che produce tensione fino al punto da causare disturbi emotivi, sociali o occupazionali. È in genere riconosciuta come eccessiva o irrazionale e che porta a comportamenti di evitamento o ad ansia intensa in caso di esposizione allo stimolo temuto.

La maggior parte delle fobie sono legate a stimoli potenzialmente dannosi, pericolosi o che elicitano emozioni di disgusto. L’intensità delle emozioni e soprattutto le reazioni comportamentali messe in atto per evitare lo stimolo, costituiscono in genere la nostra “misura” di quanto quella paura sia in realtà una vera e propria fobia.

Per orientare il lettore alla comprensione della propria paura, è sicuramente utile sapere come riconoscerla:

  • Se la paura è sproporzionata rispetto al pericolo reale;
  • Se produce alterazioni dei normali cicli biologici (sonno, alimentazione);
  • Se influisce negativamente nelle normali attività quotidiane (lavoro, tempo libero, relazioni interpersonali,..);
  • Se causa malessere psicologico: ansia, depressione;
  • Se si è costretti all’utilizzo di “aiuti esterni” per superare il disagio (aiuto degli altri, farmaci).

Ecco le reazioni più comuni alle fobie:

  1. Cosa si prova? Sintomi fisici: agitazione, tachicardia, sudorazione, vertigini, giramenti di testa, apnea, nausea. Emozioni: paura, ansia.
  2. Cosa si pensa? Timore di catastrofi imminenti, paura di non riuscire a farcela, paura di morire, paura di impazzire, paura di perdere il controllo, …
  3. Quali sono i comportamenti usati per fronteggiare la situazione? Evitare le situazioni ritenute scatenanti (es: luoghi affollati, attività fisica, guidare auto,..); ricorrere a Comportamenti protettivi (es: richiedere accompagnamento di qualcuno, uso di sostanze, farmaci o droghe..).

Spesso le condizioni di vita cambiano e insieme ad esse le nostre esigenze, l’incontro con la nostra fobia potrebbe non verificarsi mai in tutta la vita o accentuarsi in situazioni di stress e complicare una situazione già non semplice.

L’ingresso di una fobia nella nostra vita può essere dunque subdolo e distogliere la nostra attenzione dal vero problema che ci preoccupa, scoprirlo può sicuramente farci risparmiare tempo ed energie!

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