Concreteness Training (CNT) come cura per la depressione.

Recenti ricerche hanno dimostrato che i sintomi depressivi possono essere trattati “semplicemente” attraverso l’addestramento ad uno stile di pensiero orientato per obiettivi, attraverso esercizi mentali strutturati secondo l’approccio cognitivo-comportamentale chiamato “Modificazione dei bias cognitivi” (Cognitive Bias Modification).

Lo studio condotto dalla University of Exeter e finanziato dal Medical Research Council, è stato pubblicato lo scorso Novembre sulla rivista Psychological Medicine e sembra interessante rispetto alla  necessità di proporre programmi di intervento più rapidi, efficaci e meno costosi nei casi di depressione o depressione maggiore. La proposta dei ricercatori è: un training di soli due mesi in grado di produrre, attraverso l“Addestramento al pensiero concreto” (Concreteness Training, CNT), un cambiamento dello stile di pensiero e una parziale riduzione della sintomatologia depressiva.  L’obiettivo generale del training è di insegnare alle persone ad essere più specifici quando riflettono su un problema e questo sembra ridurre le difficoltà iniziali di approccio alla soluzione, il rimuginio conseguente, il brooding e infine l’umore depresso. Le persone che soffrono di depressione hanno infatti la tendenza a sviluppare uno stile di pensiero astratto e caratterizzato da una prevalenza di pensieri negativi e molto generali, che alimentano la loro generale “incapacità nella vita” e sensazione di impotenza. Il modello  proposto dai ricercatori sembra in grado di  intervenire in modo diretto proprio su questo stile di pensiero.
I 121 soggetti  sperimentali, scelti in una fase di abbassamento dell’umore all’interno di un episodio depressivo maggiore diagnosticato, sono stati suddivisi in tre gruppi: 1) prosecuzione terapia abituale, 2) terapia abituale + CNT, 3) terapia abituale + trainig di rilassamento.  Il modello CNT prevedeva la somministrazione ai partecipanti di alcuni esercizi mentali giornalieri, standardizzati per step successivi e accompagnati dall’ascolto di un CD, in cui era richiesto loro di focalizzarsi su un recente evento di vita abbastanza negativo e fonte di stress e di identificarne specifici dettagli immaginando come ognuno di questi, presi singolarmente, avrebbe potuto influenzare l’esito immaginato.
La riduzione dell’ansia e della depressione ha favorito il passaggio da una diagnosi di “depressione grave” ad una di “depressione moderata” entro i primi due mesi di training, con un buon mantenimento dei risultati a distanza di 3 e 6 mesi. In media, i pazienti che hanno proseguito invece la loro abituale terapia non sono migliorati nella sintomatologia depressiva, mentre quelli che avevano integrato con gli esercizi di rilassamento sono migliorati di più, ma solo i pazienti che hanno seguito il “Concreteness training” hanno ridotto l’intensità dei pensieri negativi legati alla ruminazione.
Il Professor Edward Watkins ha spiegato: “Questo studio è la prima dimostrazione del fatto che il solo orientare lo stile di pensiero per obiettivi può avere un impatto significativo nell’affrontare la depressione. Si tratta di un approccio che può comportare un contatto minimo con il clinico e il training può essere seguito tramite assistenza on line, aprendo la possibilità di utilizzare CD o addirittura applicazioni per smartphone.  Il vantaggio sta nella possibilità di offrire un trattamento poco costoso e accessibile per un numero maggiore di persone, obiettivo prioritario nella cura della depressione a causa della elevate percentuale di persone affette da questo problema e dai costi globali, sociali e sanitari, che questo comporta.” I ricercatori proseguiranno in questa direzione per verificare l’efficacia del protocollo e la possibilità di inserire la CNT come trattamento privilegiato dal National Health Service britannico per la cura della depressione.
L’effetto di questo training sembra, ad una prima occhiata, paragonabile all’effetto del farmaco antidepressivo, in alcuni casi “salvavita” e spesso utile nel recuperare le “forze” cognitive necessarie ad intraprendere un percorso psicoterapico più approfondito, quindi da non sottovalutare la possibilità di utilizzare il protocollo proposto nella fase iniziale della terapia..
Fonte: Watkins ERTaylor RSByng RBaeyens CRead RPearson KWatson L., (2011). “Guided self-help concreteness training as an intervention for major depression in primary care: a Phase II randomized controlled trial.”, Psychological Medicine, 16:1-13. (Mood Disorders Centre, University of Exeter, UK.)
ALTRI ARTICOLI SU QUESTO ARGOMENTO

Credenze che complicano la vita

Le idee che abbiamo su di noi, sugli altri e sul mondo sono spesso la “bussola” che ci permette di orientare le nostre scelte, di trovare nella moltitudine delle direzioni possibili quella che sentiamo più vicina e percorribile. Si tratta di pensieri che esprimono valutazioni generali, non legate cioè ad un contesto particolare, e che ci guidano nella lettura dei  fatti del mondo.

Ma quando queste credenze diventano inutili e fonte di sofferenza?

Il tema dei pensieri cosiddetti “disfunzionali” (A. Ellis) è caro alla psicologia cognitiva e questa striscia dei Peanuts (da “Su con la vita, Charlie Brown!” di A.Tverski) esprime in modo eccellente il peso delle credenze che abbiamo sulle  nostre emozioni.

In terapia cognitiva le credenze (pensieri) sono l’oggetto principale del trattamento: attraverso un’analisi accurata dei loro contenuti specifici e degli effetti che hanno su di noi (in termini di emozioni e comportamenti), si procede infatti alla loro confutazione e “critica” con l’obiettivo di restituire al pensiero stesso flessibilità, polarità positiva e un minor grado di generalizzazione. Non si tratta di un intervento che giudica il valore o la veridicità di un pensiero, ma che al contrario ne sottolinea la “legittimità” e approfondisce il legame tra quel pensiero e lo stato emotivo da esso evocato.

Albert Ellis e Aaron Beck sono stati i principali ideatori della terapia cognitiva e i primi a categorizzare i pensieri sulla base delle valutazione cui essi ci conducono: entrambi gli autori fanno riferimento a “errori/disfunzioni” che non riguardano il contenuto del pensiero (“cosa penso”), ma il processo che utilizzo nel costruirlo (“come penso”).

Ellis (in “Ragione ed emozione in psicoterapia”, 1962) parla di “idee irrazionali” e le divide in 5 categorie:

  1. Doverizzazioni (“devo assolutamente fare così”)
  2. Espressioni di intolleranza (“non tollero di fare una brutta figura!”)
  3. Generalizzazioni (“ho fatto una cosa stupida, quindi sono stupido!”)
  4. Pensieri catastrofizzanti (“arrossirò e questo sarà terribile!”)
  5. Bisogni assoluti (“non posso assolutamente rinunciare a…”).

Beck (in “Principi di Terapia cognitiva”, 1976) li definisce “errori cognitivi” e li descrive così:

  1. Pensiero tutto o nulla: considerare solo due conclusioni possibili e opposte.
  2. Lettura della mente: convinzione di poter discernere il pensiero altrui, senza prove.
  3. Etichettamento: generalizzazione di definizioni da un episodio o un comportamento a una intera persona o categoria di eventi.
  4. Saltare alle conclusioni: senza considerare criticamente i passaggi intermedi.
  5. Ragionamento emotivo: scambiare le emozioni per prove.

Potrebbe ora essere un valido esercizio per il lettore provare a:

  1. identificare un pensiero personale che abbia una o più delle seguenti caratteristiche e valutare l’intensità dell’emozione ad esso associata;
  2. una volta fatta questa operazione, sarebbe importate provare a chiedersi: che prove ho del fatto che sia così? In quali circostanze specifiche si verifica? E’ un pensiero logico o irrazionale? E’ un pensiero che mi danneggia o mi è utile a qualcosa? Le conseguenze che temo sono davvero così terribili? Sono davvero così poco in grado di tollerarle?
  3. Provare infine a modificare il pensiero in base alle risposte che ci si è dati e valutare di nuovo l’intensità dell’emozione associata al nuovo pensiero.

L’individuazione e modificazione dei “pensieri-trappola” e l’esperienza di una nuova emozione (più proporzionata!) permettono di approdare ad una vera e propria ristrutturazione del proprio punto di vista e costituiscono il cuore dell’intervento cognitivo.

Concludo su un fattore importante nella comprensione del disagio psichico, l’idea del continuum tra normalità e patologia: ogni stato emotivo doloroso è da considerarsi normale e sempre legittimo, ma può talora diventare patologico quando l’intensità, la frequenza e la durata rendono il malessere insopportabile. In quest’ottica la ristrutturazione delle credenze cognitive ha l’obiettivo di rendere i pensieri  più flessibili e le emozioni che ne conseguono meno dolorose, non di cambiare del tutto il modo in cui pensiamo o sentiamo.

Limitare “il potere” dei pensieri sulle nostre emozioni allevia l’intensità di uno stato doloroso e permette di recuperare risorse (fisiche e mentali) per la sfida successiva: capire le ragioni che ci hanno portato a costruire delle credenze che ci complicano la vita!

ALTRI ARTICOLI SU QUESTO ARGOMENTO