Credenze che complicano la vita

Le idee che abbiamo su di noi, sugli altri e sul mondo sono spesso la “bussola” che ci permette di orientare le nostre scelte, di trovare nella moltitudine delle direzioni possibili quella che sentiamo più vicina e percorribile. Si tratta di pensieri che esprimono valutazioni generali, non legate cioè ad un contesto particolare, e che ci guidano nella lettura dei  fatti del mondo.

Ma quando queste credenze diventano inutili e fonte di sofferenza?

Il tema dei pensieri cosiddetti “disfunzionali” (A. Ellis) è caro alla psicologia cognitiva e questa striscia dei Peanuts (da “Su con la vita, Charlie Brown!” di A.Tverski) esprime in modo eccellente il peso delle credenze che abbiamo sulle  nostre emozioni.

In terapia cognitiva le credenze (pensieri) sono l’oggetto principale del trattamento: attraverso un’analisi accurata dei loro contenuti specifici e degli effetti che hanno su di noi (in termini di emozioni e comportamenti), si procede infatti alla loro confutazione e “critica” con l’obiettivo di restituire al pensiero stesso flessibilità, polarità positiva e un minor grado di generalizzazione. Non si tratta di un intervento che giudica il valore o la veridicità di un pensiero, ma che al contrario ne sottolinea la “legittimità” e approfondisce il legame tra quel pensiero e lo stato emotivo da esso evocato.

Albert Ellis e Aaron Beck sono stati i principali ideatori della terapia cognitiva e i primi a categorizzare i pensieri sulla base delle valutazione cui essi ci conducono: entrambi gli autori fanno riferimento a “errori/disfunzioni” che non riguardano il contenuto del pensiero (“cosa penso”), ma il processo che utilizzo nel costruirlo (“come penso”).

Ellis (in “Ragione ed emozione in psicoterapia”, 1962) parla di “idee irrazionali” e le divide in 5 categorie:

  1. Doverizzazioni (“devo assolutamente fare così”)
  2. Espressioni di intolleranza (“non tollero di fare una brutta figura!”)
  3. Generalizzazioni (“ho fatto una cosa stupida, quindi sono stupido!”)
  4. Pensieri catastrofizzanti (“arrossirò e questo sarà terribile!”)
  5. Bisogni assoluti (“non posso assolutamente rinunciare a…”).

Beck (in “Principi di Terapia cognitiva”, 1976) li definisce “errori cognitivi” e li descrive così:

  1. Pensiero tutto o nulla: considerare solo due conclusioni possibili e opposte.
  2. Lettura della mente: convinzione di poter discernere il pensiero altrui, senza prove.
  3. Etichettamento: generalizzazione di definizioni da un episodio o un comportamento a una intera persona o categoria di eventi.
  4. Saltare alle conclusioni: senza considerare criticamente i passaggi intermedi.
  5. Ragionamento emotivo: scambiare le emozioni per prove.

Potrebbe ora essere un valido esercizio per il lettore provare a:

  1. identificare un pensiero personale che abbia una o più delle seguenti caratteristiche e valutare l’intensità dell’emozione ad esso associata;
  2. una volta fatta questa operazione, sarebbe importate provare a chiedersi: che prove ho del fatto che sia così? In quali circostanze specifiche si verifica? E’ un pensiero logico o irrazionale? E’ un pensiero che mi danneggia o mi è utile a qualcosa? Le conseguenze che temo sono davvero così terribili? Sono davvero così poco in grado di tollerarle?
  3. Provare infine a modificare il pensiero in base alle risposte che ci si è dati e valutare di nuovo l’intensità dell’emozione associata al nuovo pensiero.

L’individuazione e modificazione dei “pensieri-trappola” e l’esperienza di una nuova emozione (più proporzionata!) permettono di approdare ad una vera e propria ristrutturazione del proprio punto di vista e costituiscono il cuore dell’intervento cognitivo.

Concludo su un fattore importante nella comprensione del disagio psichico, l’idea del continuum tra normalità e patologia: ogni stato emotivo doloroso è da considerarsi normale e sempre legittimo, ma può talora diventare patologico quando l’intensità, la frequenza e la durata rendono il malessere insopportabile. In quest’ottica la ristrutturazione delle credenze cognitive ha l’obiettivo di rendere i pensieri  più flessibili e le emozioni che ne conseguono meno dolorose, non di cambiare del tutto il modo in cui pensiamo o sentiamo.

Limitare “il potere” dei pensieri sulle nostre emozioni allevia l’intensità di uno stato doloroso e permette di recuperare risorse (fisiche e mentali) per la sfida successiva: capire le ragioni che ci hanno portato a costruire delle credenze che ci complicano la vita!

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