Self-Compassion: ascoltare le proprie voci interiori

A seguito di eventi di vita traumatici è esperienza comune udire voci e vivere una frammentazione del sé difficile da gestire nelle più comuni attività quotidiane. Voci critiche, spaventate o impotenti possono condizionare la possibilità di rileggere il mondo per quello che è e creare continue sensazioni di sopraffazione e panico.
Le voci sono sintomi di diverse condizioni psicopatologiche e necessitano un approfondimento puntuale con un professionista che sappia esplorarne le caratteristiche e i contenuti. La presenza di sintomi psicotici viene spesso associata a schizofrenia ma non è sempre questo l’unico quadro clinico in cui si presentano.
Più spesso le voci interne sono il risultato di un adattamento della mente a situazioni traumatiche che hanno provocato dolore e sofferenza, cui il sistema emotiva ha dovuto reagire creando una divisione interna del sé utile a superare le difficoltà del momento, ma costosa in termini adattivi e nei suoi effetti a lungo termine. Di fronte a situazioni imprevedibili, soverchianti e senza sbocco, la mente umana sviluppa una incredibile capacità di fronteggiare gli eventi, ottimizzando le risorse per raggiungere la migliore sopravvivenza possibile. Ecco a cosa ci serve dividere il nostro sé in parti diverse: ogni voce interiore nasce in un contesto emergenziale in cui la sua presenza è servita alla persona per sopravvivere emotivamente e fisicamente a situazioni avverse, specie se avvenute nell’infanzia.
Voci bambine spaventate e ansiose possono avere la funzione di conservare e manifestare intensamente un bisogno di vicinanza e protezione che altrimenti temono di non riuscire a soddisfare; voci critiche e svalutanti possono nascere in momenti di pericolo in cui abbiamo avuto bisogno di combattere e non “perdere” tempo con emozioni dolorose e possono aver insegnato a non sentire, a non essere vulnerabili, a non mostrarsi mai impreparati. Voci minimizzanti e iper-razionali possono essere l’evoluzione di un necessario istinto di evitare il dolore e possono ostacolare le più normali attività quotidiane, facendo sentire chi le vive completamente inadeguato ad affrontare rischi, con l’obiettivo più alto di evitare in modo assoluto il rischio di deludere se stessi e gli altri. La procrastinazione può nascere da queste voci interne che si insinuano nel presente offrendo una via di fuga veloce a costo di rinunciare alla propria soddisfazione: è più sicuro rimandare, lasciar perdere, non lottare perché tanto è inutile, arrendersi per non soffrire di nuovo. Voci arrabbiate e minacciose possono invece nascere da situazioni in cui non è stato possibile difendersi e allora il sistema emotivo è portato a conservare quella reazione inespressa e ad usarla tutte le volte che incontriamo un ingiustizia o subiamo un torto; anche queste voci servono a ricordare al sistema emotivo il diritto di difesa, ma la loro intensità a volte può superare le effettive necessità del presente e rendere impossibile difendersi nei modi che essa impone. Voci suicidarie possono costituire una presenza insidiosa e difficile da individuare, ma spesso restano sullo sfondo del sistema emotivo come ultima ratio, a volte possono manifestare la loro potenza in comportamenti autolesivi. L’ultima arma della mente per evitare il dolore. A volte di tratta di voci più attive che possono portare a mettere a rischio la vita, altre volte si presentano come voci più fredde, sarcastiche, razionali pronte a offrire una soluzione estrema di fronte alla paura o alla vergogna di ri-sentire il dolore vissuto.
Nessuna parte di noi, neanche la più aggressiva, nasce nel nostro sistema con un intento distruttivo o masochistico. Anche le voci più estreme, costituiscono un estremo tentativo di protezione. Avvicinarsi a queste voci può far paura, ma un lavoro terapeutico che riesca a guidare verso una migliore comprensione di come la mente umana impara a difendersi dagli attacchi esterni, può in molti casi aiutare a capire il manifestarsi di stati interni angoscianti o conflittuali che altrimenti risulterebbero inspiegabili.
Nella terapia del trauma è centrale favorire lo sviluppo di una nuova parte di sé compassionevole, benevola e attenta ai bisogni e alle necessità di ogni parte. Ogni voce interna ha avuto un ruolo nella sopravvivenza e merita un posto nel processo di guarigione. 

“La compassione è il coraggio di calarsi nella realtà dell’esperienza umana.”

“Compassion is the courage to descend in to the reality of human condition”

Paul Gilbert

Il filmato che segue è un bellissimo contributo in questa direzione di cura e comprensione di come il trauma può influenzare la mante umana e di come il coraggio e la compassione verso se stessi possano essere la via più sicura per accompagnarsi fuori dal dolore.

Dovevi reagire! Sopravvissuti sotto attacco

Sono ormai note le reazioni emotive più comuni legate allo stress post traumatico: allerta, ipervigilanza, flashback, reazioni di evitamento, immagini intrusive degli eventi traumatici, distacco emotivo, dissociazione, alterazioni della coscienza. Ma la società è davvero pronta a capire?
Ogni essere umano è unico e speciale nelle sue caratteristiche, nella sua evoluzione e nella sua irripetibile storia. Tuttavia di fronte a pericoli potenzialmente mortali diventiamo tutti uguali e riveliamo un range molto più limitato di reazioni possibili: l’attacco, la fuga, l’immobilizzazione (congelamento o resa), lo svenimento. Ognuna di queste reazioni di fronte ad un pericolo di vita è guidata da pattern automatici che il nostro cervello rettiliano – il più antico e più legato alla sopravvivenza – mette in atto senza la mediazione della corteccia, e quindi senza una nostra capacità decisionale, intenzionale e volontaria, e seguendo una precisa gerarchia emergenziale: per un pericolo di vita ancora affrontabile il nostro cervello rettiliano ci “suggerisce” di provare a combattere e reagire, se il pericolo è inaffrontabile le gambe si mettono in moto per fuggire, se il pericolo è soverchiante e non possiamo fare più nulla per evitarlo il sistema nervoso ci spegne letteralmente e restiamo immobili, per restare nascosti (congelamento) o per non sentire il dolore o il terrore estremo della morte (resa o svenimento).

La ragione di questa organizzazione automatica e gerarchica del nostro sistema nervoso è semplice: se siamo in emergenza l’elaborazione cosciente delle informazioni sensoriali sarebbe troppo lenta per metterci in salvo! Per questa ragione l’evoluzione ha lasciato nel nostro sistema nervoso la possibilità di avere reazioni emotive e comportamentali istintive e non mediate dal ragionamento. Fin qui tutto chiaro e ampiamente documentato dalle neuroscienze e in particolare nel lavoro di ricerca del Dott. Stephan Porges nella sua Teoria Polivagale (vedi altri contributi sul tema).
Ma quali risposte siamo davvero in grado di accettare, culturalmente ed emotivamente?
Una volta superato il pericolo di vita e rientrati in un contesto di sicurezza fisica, relazionale ed emotiva la mente riprende il suo funzionamento regolare, reimmettendo la nostra coscienza nel flusso abituale di pensieri, ragionamenti, emozioni, comportamenti e reazioni che normalmente regolano la nostra quotidianità, le nostre scelte e relazioni. A questo punto la complessità  che ci contraddistingue come esseri umani emerge, lasciando spazio alla riflessione, alla valutazione di quello che ci è accaduto e al giudizio sulla qualità e sul valore delle nostre reazioni. Dimentichiamo che abbiamo delle reazioni innate e uguali per tutti i mammiferi e iniziamo a giudicare positivamente o negativamente noi stessi in base alla forza mostrata nel combattere, alla velocità con cui siamo scappati via o più spesso nell’autobiasimo rispetto a quello che avremmo dovuto o potuto fare. Un ultimo tentativo della  mente di recuperare controllo su quello che ci è accaduto, che si rivela tuttavia e troppo spesso un ostacolo alla guarigione e al superamento del trauma.
La gazzella una volta fuggita dal leone, torna a cercare cibo e ad unirsi al suo branco senza ricevere giudizi e senza tormentare se stessa per essere stata vittima di un attacco. Noi no, e questo complica un bel po’ le cose.
Nell’intervista a Stephan Porges che segue, recentemente pubblicata su The Guardian, emerge una riflessione importante: quali reazioni umane sono davvero tollerate dalla nostra società? La comprensione del nostro funzionamento mentale può affrancarci dal giudizio o dall’autobiasimo?
The Guardian: Intervista a Stephan Porges “Survivors are blamed because they don’t fight”
La nostra cultura occidentale sembra premiare le risposte di attacco e le reazioni di sfida, riesce appena a tollerare le reazioni di fuga come ultima ratio, ma mostra un pericoloso e inspiegabile disprezzo per le reazioni di sottomissione e resa, altrettanto automatiche e necessarie come le prime due. Anzi, la sottomissione e la resa sono le uniche reazioni salva-vita quando siamo davvero in condizioni estreme, inevitabili e insostenibili. Sottomettersi, arrendersi, non reagire sono in certi casi la reazione più saggia possibile. Ma purtroppo non siamo gazzelle.
Allora i sopravvissuti che non hanno potuto lottare o che non hanno trovato una via di fuga diventano per la collettività persone da giudicare: deboli, fragili, inette, senza forza di volontà o che addirittura volevano intimamente e inconsciamente vivere il trauma che ha segnato la loro vita! Un clamoroso errore di valutazione, comune tra i clinici come tra i non addetti ai lavori.
Il risultato culturale – che poi diventa clinico e sintomatologico per i sopravvissuti – si traduce in una trappola di vergogna e di colpa davvero difficili da elaborare e spesso peggiori, perché più duraturi, degli eventi traumatici che pur hanno attraversato.
Questo giudizio è ad oggi culturalmente inaccettabile oltre che scientificamente scorretto, sebbene racconti anch’esso la natura umana di fronte al dolore: il rifiuto della violenza, la paura del dolore fisico e mentale, l’impossibilità di ammettere le manifestazioni più crudeli dell’essere umano, in una parola: la negazione, del trauma e dei suoi effetti.
De-responsabilizzare le vittime è il primo passo per aiutarle a capire se stesse e a riappropriarsi della propria storia, per diventare consapevoli del proprio ruolo nel mondo e nel trauma vissuto, ma senza dubbi sulla natura delle proprie necessarie risposte di sopravvivenza.
Per questo è importante e cruciale promuovere una cultura del trauma che spieghi le reazioni, che insegni a rileggere le reazioni dei sopravvissuti in una chiave chiara e scevra di interpretazioni: siamo tutti uguali di fronte alla minaccia.
Buona lettura!
 
Approfondimenti:
Stephan Porges (2014). La Teoria Polivagale: fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione. Giovanni Fioriti  Editore.
Robert Sapolsky (2018) Perché alle Zebre non Viene l’Ulcera? La più istruttiva e divertente guida allo stress e alle malattie che produce. Con tutte le soluzioni per vincerlo. Ed. Castelvecchi

Le ragioni del Grinch: per un Natale trauma-informed

Il Grinch, celebre film di Ron Howard (2000) tratto dall’omonimo libro di Dr. Seuss (How the Grinch Stole Christmas), è l’ormai mitico protagonista di una fiaba che rappresenta per eccellenza la Resistenza allo spirito di condivisione del Natale e diventa l’unico (quasi) antieroe che ricorda al mondo che il Natale non è per tutti una grande festa. La scontrosità, la diffidenza, la solitudine, lo scherno non si fermano davanti alle luci lampeggianti e di certo i regali non rendono più sicuro il contatto con il mondo, la comunità, gli altri. Nonostante questo anche quella de Il Grinch è una favola e come tutte deve finire bene, ma lo stimolo che porta con sé non è per nulla scontato e inappropriato. Se ci fosse davvero spazio e rispetto per il “malumore natalizio”, avremmo modo di capirne meglio le ragioni e concederci qualche riflessione autentica sulla condivisione, sulla gioia e sulla solidarietà che i questi giorni ci avvolge e travolge tutti.
L’esperienza clinica e l’esperienza di chiunque osservi le persone che ha intorno è ricca di esempi e situazioni che sembrano tutt’altro che luccicanti, ma tuttavia la giostra corre veloce e bisogna salirci su. Qualche volta tra l’altro ci si diverte lo stesso, a dispetto dei timori e della paure iniziali, ma è necessario considerare quando non è così e quando al contrario le avventure natalizie assumono la forma di un luogo cupo e pieno di fantasmi.
“Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, parenti o amici. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Anche le violenze fisiche (come gli schiaffi, i calci, i pugni e i morsi) sono per la maggior parte opera dei partner o ex. Gli sconosciuti sono autori soprattutto di molestie sessuali (76,8% fra tutte le violenze commesse da sconosciuti).” (fonte Istat, 2014)
“Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: » 1 adulto su 4 (25%) nel mondo è stato abusato fisicamente da bambino; » il 36% degli adulti dichiarano di aver subìto un abuso psicologico; » 1 donna su 5 (il 20%), 1 uomo su 10 circa (5-10%) ha subito abuso sessuale da bambino; » 1 donna su 3 è stata vittima di violenza fisica o sessuale perpetrata dal proprio partner; » 1 anziano su 17 è vittima di violenza. (fonte Global Status Report on Violence Prevention, pubb. 11 dicembre 2014).
“In Italia circa 47,7 minorenni su 1000 sono seguiti dai Servizi sociali per varie tipologie di bisogni. Di questi 457.453 minori presi in carico circa 1 bambino ogni 5 è vittima di maltrattamento per abuso sessuale (76,5%), maltrattamento fisico (71%), violenza assistita (63,6%), trascuratezza materiale e affettiva (59,8%).” (fonte Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza | CISMAI | Terre des Hommes, 2015).
Se le statistiche sulla violenza intra-familiare e domestica non mentono, allora il luogo più pericoloso sembra essere proprio la famiglia e diventa inevitabile pensare oggi che gli incontri familiari dei prossimi giorni non saranno solo e per tutti un’occasione per ricordare le tradizioni del passato, condividere momenti insieme e raccontarsi le speranze per l’anno che verrà. Le statistiche ci suggeriscono piuttosto che molti bambini e molti adulti saranno probabilmente in pericolo durante le affollate riunioni familiari, probabilmente esposti a situazioni di rischio e di conflitto tutt’altro che rilassanti e che non sarà per tutti facile, né talora saggio!, seguire il dictat assoluto della condivisione.
Per chiunque la famiglia sia un luogo di pericolo, sofferenza e dolore, sarà necessario e forse utile ricordare alcuni diritti inalienabili che ognuno di noi ha e che lo “spirito del Natale” non può in nessun caso cancellare.
Quello che senti va bene. Se senti gioia, va bene, Se senti rabbia, va bene, Se senti tristezza, va bene. Se senti imbarazzo, va bene. Nessuno di noi sceglie cosa sentire, ma quello che sentiamo in alcune situazioni può arrivare dal passato e dalle esperienze negative o positive che abbiamo vissuto. Non ci sono emozioni giuste, solo reazioni emotive necessarie che possiamo decidere di esprimere oppure no, ma che è sempre utile rispettare e ascoltare perché ci dicono qualcosa di noi, di come stiamo e di cosa possiamo fare per aiutarci.
Proteggerti è tuo diritto. Non sei obbligato a incontrare chi ti ha fatto del male, non sei tenuto ad augurare un buon anno a chi ti ha picchiato, stuprato, umiliato. Nessuno merita di esporsi alla sofferenza, al pericolo o alla paura, se qualcuno te lo chiede non riesce a capire cosa provi o non ti sta rispettando come essere umano.
Puoi dire di no. E’ tuo diritto rifiutare situazioni che ti mettono a disagio, che ti spaventano, che ti fanno sentire minacciato/a o che semplicemente non ti piacciono. Che sia una cena affollata o un pranzo delizioso, non sei obbligato a spiegare, non devi per forza resistere se il dolore o la paura ti fanno sentire in balia degli eventi o degli altri. Nessuna tradizione vale la tua sofferenza. Ogni tradizione può essere cambiata e tu hai diritto di partecipare a questo cambiamento.
Difendi i tuoi confini. Ognuno ha diritto di scegliere per sé, esprimere le sue opinioni, avere i suoi valori, bisogni, pensieri, emozioni. Nessuno ha il diritto di ricattarti, minacciarti, insultarti, controllarti, costringerti. Nessuna forma di amore prevede questo, chi lo fa non ti rispetta ed è tuo diritto difenderti.
Trova un luogo sicuro. Se sei nella tua casa, ricorda che è tuo diritto avere uno spazio dove gli altri non potranno entrare. Se sei lontano dalla tua casa, cerca un luogo nuovo in cui puoi sentirti al sicuro e in cui puoi scegliere con chi stare o non stare. Se non è possibile, prova a cercare un luogo nella tua mente o a ricordare il volto di qualcuno che ti aiutato nel passato. E’ importante sapere che non è necessario vivere sempre in allerta o nel caos. Tutti hanno il diritto di vivere tranquilli ed essere lasciati in pace, anche tu.
Scegli chi vuoi vicino a te. Non sei obbligato a coltivare tutte le relazioni che incontri, anche tu puoi scegliere con chi stare, di chi fidarti, chi ti piace e chi non ti piace. Se le relazioni non ti fanno stare bene, possono concludersi, non è colpa di nessuno.
Prenditi cura di te. Se hai bisogno di correre, corri. Se hai voglia di leggere, leggi. Se hai voglia di stare da solo, resta solo. Se hai voglia di abbracciare, abbraccia. Se hai voglia di dormire, riposa. Se hai delle abitudini che ti fanno stare bene, rispettale. Anche se condividi il tempo e lo spazio con gli altri, puoi continuare a prenderti cura di te e ascoltare i tuoi bisogni. Non sei egoista se ti prendi cura di te. Ognuno dovrebbe farlo per sé. Stare insieme agli altri, non vuol dire rinunciare o sacrificarsi per loro, anzi arricchirsi reciprocamente è possibile solo se ognuno è libero e padrone di sé.

Qualunque cosa tu abbia scelto di fare, ti auguro di restare vicino a te stesso e alle tue emozioni durante queste festività e per tutto l’anno che verrà!


 
 
 

Il quinto principio di Paul Williams (2014)

Il quinto principio (2014) è il primo volume di una trilogia che Paul Williams ha scritto per raccontare al grande pubblico la storia della sua infanzia difficile, attraverso gli occhi dell’adulto che è oggi e dello psicanalista che lavora ogni giorno co i suoi pazienti vittime di trauma.
La sua opera non è solo coraggiosa, ma permette di accedere al mondo del trauma da una doppia prospettiva, sempre presente nella narrazione: quella della vittima che ha dovuto affrontare un’infanzia terrifica e piena di dolore, quella dell’adulto che ha superato e messo insieme i pezzi del suo passato senza dimenticare se stesso e i suoi pensieri di bambino.
Il testo è fondamentale non solo per tutti gli operatori che si trovano a lavorare con vittime di traumatizzazione cronica, ma utile a tutte le persone che hanno vissuto nella loro infanzia situazioni di grave maltrattamento, affrontando da piccolissimi una lotta che le parole di Paul Williams riescono a descrivere con profondità, attenzione e grande dignità.
 
 
Per leggere la Recensione completa:

Il quinto principio di Paul Williams (2014) – Recensione del libro

Feccia (2017) di Paul Williams – Recensione del libro


 

Lavorare sul trauma con l'EMDR.

Cos’è l’EMDR?

Si tratta di un metodo di lavoro che permette di lavorare sui ricordi traumatici e di ri-elaborarli in modo più funzionale, collocandoli nel proprio percorso di vita e riducendo l’effetto disturbante generalmente legato alla rievocazione del ricordo. Il processo terapeutico è caratterizzato da una prima fase di recupero dei principali eventi di vita, considerati traumatici e attualmente disturbanti, e una seconda fase di elaborazione degli elementi essenziali del ricordo in una chiave di lettura più “sana”, decentrata e priva degli effetti negativi, sul piano fisico ed affettivo, che quel evento aveva prima del trattamento.

emdr

L’EMDR sta per Eyes Movement Desensitization and Reprocessing e si basa sulla teoria dell’Elaborazione Accellerata dell’Informazione (AIP). In breve, questo modello della mente afferma che ogni essere umano è dotato di un sistema neurologico e fisiologico che permette di elaborare le informazioni in entrata (eventi, pensieri, emozioni,..) mantenendo un equilibrio tra lo stato del sistema “prima” e “dopo” l’ingresso di quell’informazione. Questa tendenza all’equilibrio permetterebbe alla mente di andare sempre verso una risoluzione adattiva e funzionale, in cui la mente riesce ad integrare vecchie e nuove informazioni e a recuperare l’equilibrio perso. Gli elementi che si vanno ad integrare sono: esperienze, emozioni, pensieri, reazioni fisiologiche e comportamenti.

Sia le esperienza positive che quelle negative possono quindi essere affrontate ed elaborate in modo autonomo ed efficace dalla nostra mente e su tutti i livelli (fisico, emotivo, cognitivo e comportamentale). In alcuni casi, tuttavia, le reazioni  che si attivano in risposta ad un episodio traumatico faticano ad essere integrate nel sistema e si genera quello che viene definito un pattern continuo di emotività: la reazione emotiva ad un evento non dura cioè il tempo necessario ad essere elaborata in modo adattivo, ma continua a manifestarsi anche a distanza di tempo e in assenza dello stimolo che l’aveva provocata. Diventa appunto un pattern che si riattiva quando una sensazione, un pensiero o un emozione simili a quelle provate in occasione di quel unico evento traumatico, vengono ri-esperiti o rievocati.

L’emotività e le sensazioni fisiche legate a quell’evento restano come “congelate” nella rete neurale e isolate dagli altri eventi di vita, in una perpetua attivazione che difficilmente viene spenta senza un intervento terapeutico specifico. L’esempio più tipico è il Disturbo da Stress Post-Traumatico, per cui l’EMDR è il trattamento d’elezione secondo l’Evidence Based Medicine.

Quali traumi causano l’attivazione del pattern continuo di emotività?

La gravità del trauma è legata innanzitutto alla reale o soggettiva percezione di essere in pericolo di vita.

Quindi tutte le situazioni  in cui questa minaccia è stata percepita come reale, sono situazioni potenziali per sviluppare un pattern continuo di emotività disturbante. E’ questo il caso degli abusi sessuali, degli incidenti, della catastrofi naturali. Una seconda situazione è quella dei traumi ripetuti, cioè traumi soprattutto relazionali in cui non si è sperimentato un vero e proprio pericolo di vita, ma in cui una particolare emozione si sia attivata in modo frequente e disfunzionale e senza dare la possibilità di una elaborazione completa dell’evento (Es: un clima familiare molto conflittuale in cui si è assistito a frequenti e intensi litigi tra i genitori).

L’intervento attraverso l’EMDR permette innanzitutto di sciogliere questo pattern di attivazione, molto disturbante e non più utile rispetto al passato, e di aprire lo spazio per una nuova elaborazione più adattiva dell’evento traumatico.

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