Attaccamento e relazioni adulte: strategie! (III Parte)

Come possiamo riconoscere la nostra modalità di attaccamento? Cosa implica nelle nostre relazioni attuali? (LEGGI ANCHE precedenti contributi sul tema!)

Un primo concetto importante per comprendere meglio quale sia il nostro stile di attaccamento è l’idea che l’attaccamento, come necessità biologica innata, venga ricercato automaticamente nel caregiver di riferimento, permettendo così di adattarci a qualunque contesto relazionale e sociale. Come già sottolineato nei precedenti contributi sul tema, l’attaccamento nei primi mesi e anni di vita, garantisce la sopravvivenza stessa dell’individuo e dunque costituisce un bisogno irrinunciabile anche nei contesti più difficili e inadatti ad accogliere questo bisogno.

Un secondo concetto fondamentale è dunque l’idea che qualunque cosa facciamo per raggiungere e mantenere questo legame nell’infanzia sia non solo lecito e necessario, ma spesso anche “la cosa migliore da fare in quel momento. Piangere di più o non piangere mai, urlare più forte o mantenere un’espressione adeguata, aggredire il caregiver o prendersi cura di lui: tutto è funzionale se volto a garantirci quel legame, nel momento in cui ne abbiamo più bisogno.

Dati questi due punti di partenza, il corollario che ne deriva è che molto spesso le nostre modalità di attaccamento (o meglio di relazione) restano invariate in età adulta e non sempre integrate da altre modalità più adulte e funzionali. Insomma, continuiamo a cercare il partner o a crescere i nostri figli utilizzando quell’antica modalità di “legarci” agli altri come principale modus operandi e questo, in alcuni casi, può diventare anche molto disfunzionale. Questi pattern – che contengono emozioni, pensieri e comportamenti – tendono a stabilizzarsi nel tempo, pur non restando gli unici modi possibili di relazione, e vanno a costruire il nostro bagaglio di “reazioni” e soluzioni a determinati contesti relazionali (chiamati Internal Working Model o Modelli Operativi Interni).

attaccamento-bowlbyIn estrema sintesi, tutti gli stili di attaccamento muovono da un unico obiettivo: mantenere la massima vicinanza possibile al caregiver. Come viene raggiunto questo scopo?

Di seguito le principali modalità di attaccamento in cui ognuno di noi può facilmente ritrovarsi:

1  Attaccamento sicuro o B: si sviluppa quando da bambini si è potuto sperimentare un libero e incondizionato accesso alla figura di attaccamento, in condizioni di necessità, e questo  ha permesso di interiorizzare una idea dell’altro accogliente e positiva. Questo stile di attaccamento si manifesta in età adulta con una generale fiducia nel partner, con la capacità di vivere sia l’intimità, condividendo emozioni e bisogni profondi, sia la distanza senza angoscia o timori. Le relazioni frutto di un attaccamento sicuro consentono di creare e mantenere legami soddisfacenti, ricchi e capaci di adattarsi in modo flessibile al contesto e ai cambiamenti di vita, rispettando bisogni di vicinanza e accudimento, così come quelli di autonomia nei propri spazi di vita. Resta l’idea che l’altro possa rispondere ai nostri bisogni e restarci vicino, mentre proviamo ad esplorare il mondo e ad assumerci i rischi che questo comporta.

2 Attaccamento insicuro-evitante o A: si sviluppa quando da bambini si è vissuto in presenza di una figura di attaccamento rifiutante o completamente inaccessibile nel rispondere ai bisogni primari (es: genitore depresso, assente per lavoro, malato). Il bambino matura in questo caso una precoce ed eccessiva autonomia, con apparenti manifestazioni di distacco e di rifiuto-di-aiuto, “immunizzante” rispetto alla sofferenza di essere soli. La distanza relazionale diventa uno strumento per controllare queste emozioni e sperare in un contatto riducendo al minimo le richieste. Questo stile si manifesta in età adulta con atteggiamenti di ritiro, di isolamento e sfiducia totale nell’altro. Nelle relazioni emerge una profonda incapacità nel condividere bisogni, emozioni e pensieri in modo libero e autentico. Resta l’idea che l’intimità possa produrre un immediato allontanamento dell’altro e questo viene evitato a tutti i costi.

3 Attaccamento insicuro-ambivalente o C: si sviluppa quando da bambini si è vissuto in presenza di una figura di attaccamento imprevedibile nella sua presenza o capacità di rispondere ai bisogni primari. Quando si è esposti ciclicamente ad esperienze di intimità e improvvise perdite del legame, si sviluppa nel bambino una modalità di attaccamento basata sulla necessità di mantenere costante la vicinanza, sia in condizioni di necessità che in condizioni di sicurezza. Questo provoca sentimenti di colpa o eccessiva responsabilità in caso di rottura del legame. Questo stile si manifesta in età adulta con una fatica nel condividere bisogni ed emozioni in modo autentico e privo di paura, poiché non si riesce a prevedere come l’altro reagirà o meglio si teme l’improvviso abbandono. Resta l’idea illusoria di poter controllare la relazione attraverso la costante negazione dei propri bisogni, riducendo al minimo i rischi di un abbandono, ma oscillando sempre tra bisogno di dipendenza e ostentazione esagerata di autonomia. La colpa eccessiva è il rischio principale in caso di separazione.

4 Attaccamento disorganizzato-disorientato o D: si sviluppa quando da bambini si è sperimentata una condizione di costante minaccia nella relazione di attaccamento, con aggressioni attive o con una grave trascuratezza emotiva (es: genitori maltrattanti, abusanti, abbandono). In questo caso l’obiettivo non è più la ricerca di accettazione o cura, ma la sopravvivenza ad un caregiver minaccioso o pericoloso. La modalità di relazione alterna comportamenti tipici del sistema difensivo attacco, fuga o congelamento con l’obiettivo di “contenere” e ridurre le minacce provenienti dall’ambiente. Questo stile si manifesta in età adulta con una ricerca delle relazioni guidata dalla paura, con un’idea di reale pericolo, ed è condotta con modalità ostili e a loro volta minacciose. Resta l’idea che per sopravvivere nelle relazioni si debba attaccare prima di essere attaccati o che al contrario non c’è nulla da fare, in un mondo che è e resta pericoloso qualunque sia la nostra strategia.

Ogni stile di attaccamento può essere affiancato, in età adulta, da strategie e risorse apprese nel corso dell’esperienza e migliorate dall’incontro con persone significative con cui si riesca ad instaurare legami positivi e funzionali, che danno la possibilità di “rispondere” ad alcuni bisogni rimasti inascoltati e di “costruire”  strategie più efficaci per muoversi nelle relazioni traendone il meglio possibile. 

La psicoterapia è un’esperienza relazionale che può consentire questo cambiamento. Attraverso la comprensione di queste strategie, è possibile modificare o rendere meno automatici i nostri modelli operativi interni. Il cambiamento è possibile, ma solo all’interno di una relazione significativa, protettiva e rispettosa dei limiti relazionali necessari all’esplorazione serena di se stessi e dei propri bisogni.

Nota importante! Le nostre modalità di legarci agli altri non hanno nulla a che fare con l’amore o con la capacità di provare sentimenti profondi, ma solo con il modo in cui comunichiamo questo agli altri e riusciamo a creare con loro un legame autentico, profondo e libero da paure più antiche.

Lorenzini, Sassaroli “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità.” Raffaello Cortina Editore

Tolleranza emotiva o exit strategy?

Riflessioni contemporanee su come vivere alle emozioni.

Su l’importanza delle emozioni  ho scritto ormai molto, su come sia importante dare loro valore e riconoscerne la funzione di “guida” nel prendere decisioni o nel dare significati agli eventi, siamo ormai in molti d’accordo ….ma quando si parla di emozioni negative, le cose cambiano un po’. Cosa vuol dire “vivere e lasciar scorrere” un’emozione negativa nel presente delle nostre giornate? Cosa implica davvero per il nostro corpo, per la mente e per le nostre relazioni?  In altre parole, siamo così sicuri di saperlo fare come ci raccontiamo?

lucy-rabbia-peanuts-02La crescente capacità di trovare informazioni in modo autonomo su questi temi e la grande reperibilità on line di strategie e metodi per “gestire lo stress” (o più correttamente, le emozioni negative che ne derivano!), sono fondamentali e talora utilissime per affrontare momenti di sofferenza, scelte di vita che ci creano ansia e relazioni che non ci soddisfano. Spesso gli strumenti che troviamo risultano illuminanti e possono davvero aiutare a “svoltare” in una situazione in cui ci sentivamo in stallo e senza mezzi.

Leggere, studiare, informarsi, fare liste di obiettivi, programmare impegni nella giornata, modificare pensieri negativi in pensieri più positivi, lavorare su pro e contro per scegliere meglio, bloccare abitudini disfunzionali e poi ancora stabilire delle routine salutari di vita, prendersi cura di sé, camminare, correre, nuotare, fare massaggi, iscriverci ad un nuovo corso di lingua, di cucina, di ballo, di teatro, di yoga: queste ed altre migliaia di possibilità risultano tutte centrali nel soddisfare i nostri bisogni cognitivi emotivi e di relazione, ci aiutano a mantenere o a recuperare una buona salute fisica e mentale, offrendo valide soluzioni concrete per raggiungere obiettivi importanti: insomma, ci rendono felici e in tempi record!

Le strategia di maggior successo mediatico e che attirano più consensi e curiosità sul web sono divisibili a mio parere in due principali categorie: quelle che agiscono sul corpo e quelle che agiscono sulla mente. Le prime ci aiutano di solito a regolare il nostro livello di energia e mantenerlo ad uno stato desiderabile che ci consenta di portare avanti la nostra giornata; queste strategie suscitano in genere sensazioni fisiche di benessere, di piacere, di forza, di controllo, di padronanza o al contrario di rilassamento, di abbandono delle tensioni, di pace interiore, di un contatto positivo con il proprio corpo. Le seconde ci aiutano invece a regolare la nostra efficienza mentale e a mantenere una buona attenzione, concentrazione, memoria. In genere ci aiutano a sentirci persone più competenti, confidenti, razionali, capaci di risolvere problemi, curiose, piene di interessi, attive. Talora ci offrono anche di più: ad esempio strategie mentali per sostituire pensieri negativi o attitudini mentali pessimistiche, con pensieri nuovi e più funzionali. Ci propongono – in estrema sintesi – di muoverci nel mondo “portando in giro” una nuova idea di noi stessi o una nuova attitudine positiva o un nuovo comportamento, che si rivelano capaci di innescare meccanicamente (ma efficacemente!) un circolo virtuoso che ci aiuta a riacquistare fiducia in noi stessi e speranze per il futuro.

Tutte le strategie brevemente elencate sono solo alcuni esempi di molte “exit strategy” che risultano efficaci nel gestire le emozioni negative e nutrono senza alcun dubbio la nostra resilienza: riducono infatti sentimenti di sopraffazione, di perdita di controllo, di profonda disperazione e ci tengono lontani da comportamenti distruttivi per noi stessi o per gli altri, restituendo un senso di efficacia personale e di padronanza nelle situazioni.

Quando queste emozioni sono davvero intense e soverchianti è ovviamente importantissimo e utilissimo per tutti noi avere ALMENO un modo di stare meglio e in tempi brevi. Ma cosa succede per le altre situazioni? La disponibilità di tutti questi mezzi per ridurre o evitare la sofferenza emotiva, rende davvero poco attrattiva la possibilità di restare in ascolto delle proprie emozioni, soprattutto se negative. Per qualcuno può sembrare una scelta inutile, per un altro una scelta scomoda o pericolosa e forse per qualcun altro addirittura masochistica…..Ma siamo sicuri che non serva proprio a nulla? Siamo sicuri di avere gli strumenti per spegnere tutto, ma proprio tutto quello che ci fa e ci farà soffrire?

Le emozioni negative nella vita quotidiana possono essere ovviamente molte e legate a diverse esperienze comuni: fallimenti, conflitti, responsabilità, problemi economici, malattie, perdite, abbandoni, pericoli, insuccessi, rifiuti, incomprensioni, brutte figure, … Ognuno di noi sarà più sensibile ad alcune situazioni piuttosto che ad altre, e dunque sarà legittimamente soggetto ad avere reazioni più o meno intense e soverchianti in ognuna delle situazioni descritte.

A tutti però vorrei lanciare una riflessione, anzi due:

peanuts-nr-07-evitamentoQuale soglia di sofferenza ci concediamo di attraversare, prima di cercare una soluzione rapida che spenga l’emozione negativa?

Quanto tempo dedichiamo davvero a sostare in un’emozione negativa, prima di ripristinare un buon livello di energia ed efficienza mentale?

Ai prossimi contributi qualche risposta o.. proposta!

Attaccamento e relazioni adulte (II parte)

*** Seconda Parte ***

Oltre al sistema di accudimento e di attaccamento (Leggi precedente articolo: Cosa condiziona le nostre relazioni? Attaccamento e relazioni adulte), come esseri umani, siamo dotati un terzo sistema biologico, molto importante per la nostra sopravvivenza, presente sin dalla nascita e che ci accompagna per tutta la vita, che è il sistema di difesa: si tratta di un sistema biologico più arcaico, che coinvolge l’apparato neurovegetativo e consente di mettere in atto reazioni di emergenza (attacco, fuga, svenimento e freezing) in situazioni di pericolo. Quando siamo molto piccoli le situazioni di pericolo attiveranno dapprima il sistema di attaccamento per richiedere protezione, ma se a questo non ci sarà risposta di cura da parte dell’adulto, allora l’allarme resterà così inteso da scatenare strategie di emergenza.
Ovviamente le condizioni per cui non avviene una risposta di accudimento adeguata possono essere molteplici: l’assenza dell’adulto, la trascuratezza, la difficoltà dell’adulto di sintonizzarsi con le necessità del bambino, la presenza di traumi e lutti che hanno colpito la famiglia o il contesto primario di appartenenza. E’ in queste primissime esperienze relazionali che si creeranno i presupposti dei nostri schemi adulti, che ci renderanno in grado di fidarci e affidarci a l’altro, di costruire una relazione.
Una delle condizioni più critiche per lo sviluppo in età adulta di relazioni affettive positive e soddisfacenti è l’aver vissuto durante l’infanzia in presenza di una figura di riferimento a sua volta minacciosa. In questo caso infatti il sistema di attaccamento si trova di fronte ad un paradosso da cui però dipende la propria sopravvivenza: come chiedere aiuto e conforto alla stessa persona che è fonte di pericolo ? L’esito di questo tipo di esperienze è spesso una “disorganizzazione” del sistema di attaccamento, che anche in età adulta non saprà sintonizzarsi con gli altri in modo armonico e positivo; la paura diventa emozione centrale in questa modalità di attaccamento e resta presente sia nella ricerca di intimità che nella lontananza. Il paradosso del sistema di attaccamento è risolto con il permanere di uno stato di allerta, molto costoso in termini emotivi, ma efficace nel garantire una buon percezione di controllo dell’ambiente e delle persone. Viene chiamata “fobia dell’attaccamento” e spesso è tanto più intensa quanto più il legame affettivo diventa per la persona significativo e importante.
Spesso si pensa a situazioni di violenza fisica, di abuso, di grave esplosività nel contesto familiare o di eventi avversi e traumatici che bloccano la possibilità di uno sviluppo sano e funzionale. Quello che meno spesso emerge, è che “fobia dell’attaccamento” può essere costruita giorno per giorno in contesti familiari che siamo abituati a considerare “normali ” e “sani”, ma che posso contenere elementi di minaccia meno evidenti ma altrettanto insidiosi: un clima estremamente critico e svalutante, la labilità o l’assenza di confini relazionali chiari, con poca possibilità di esprimersi come individui autonomi, o un contesto familiare percepiti come imprevedibile e incostante, rispetto alla capacità di corrispondere a bisogni affettivi importanti.
Senza entrare nel merito della psicopatologia e della diagnosi, è importante riconoscere in clinica come nella vita alcuni segnali di questa “fobia dell’attaccamento” che spesso si manifesta con comportamenti apparentemente incongruenti e irrazionali, che assumono un senso solo nel contesto relazionale in cui vengono manifestati:
–  la paura del legame viene spesso espressa con rabbia e rifiuto, allotanando l’altro e garantendo una distanza che permette di recuperare una maggiore sicurezza, controllo e autonomia;
– al contrario la paura può essere espressa con passività e arrendevolezza, mostrando totale adesioni e dipendenza con l’obiettivo di controllare l’aggressività dell’altro;
– infine la paura può comportare la fuga, l’evitamento della relazione e il ritiro.
A tutti può capitare di usare una di queste strategie in particolari situazioni o contesti di vita, ma quello che succede a chi ha costruito nel tempo una modalità relazionale basata sulla “fobia del legame” è di utilizzare tutte queste modalità in rapida successione e alternanza, mostrandosi talora incongruenti e imprevedibili a loro volta e provocando poi l’effettivo allontanamento dell’altro dalla relazione. Tutte queste modalità sono diretta espressione di un sistema di difesa molto attivo e disfunzionale, che – se non compreso e riconosciuto – rischia di inibire la possibilità di un legame affettivo sicuro basato sullo scambio, sulla fiducia e sulla condivisione emotiva.
Nessun essere umano spaventato è in grado di godere a pieno della presenza, dalla vicinanza e della sintonia dell’altro. Finché sentirà la necessità di difendersi, si difenderà rinunciando a tutto il resto.
Al prossimo contributo strategie e percorsi di cura validi per comprendere meglio questi schemi relazionali.

Cosa condiziona le nostre relazioni?

Attaccamento e relazioni adulte (Prima parte)

E’ esperienza molto comune quella di vivere nelle relazioni per noi importanti conflitti che tendono a riproporsi nel tempo e sempre nello stesso modo. Ad alcuni sarò capitato nella vita di non sentirsi mai capiti profondamente, ad altri di incontrare sempre persone strane,  ad altri ancora di trovarsi sempre soli di fronte alle difficoltà, ad altri di innamorarsi sempre delle persone sbagliate..
A volte le situazioni sembrano così ripetitive da sembrarci una vera e propria congiura!
Tutto quello che ci capita ciclicamente nella vita in periodi e contesti tra loro diversi è di solito fonte di grande sofferenza psicologica e ci lascia talora impotenti e sconsolati. Tuttavia assumendo un atteggiamento più “scientifico” e, se vogliamo, più razionale nei confronti della nostra sofferenza, potremmo iniziare considerare questi fatti  come fonti di informazioni utili su di noi e sulla nostra storia, un modo insomma per conoscerci meglio!
Ma partiamo dal principio.
scimmie attaccL’essere umano, come molti mammiferi, nasce completamente immaturo e bisognoso degli altri per sopravvivere. Nutrimento, conforto e protezione sono completamente delegati agli adulti che ha intorno e questa dipendenza è garantita da due sistemi biologici e innati capaci di attivare rispettivamente nel neonato la ricerca dell’altro e l’espressione dei suoi bisogni – chiamato sistema di attaccamento (John Bowlby)  e nell’adulto le reazioni adatte a soddisfarlisistema di accudimento. La spesso citata “sintonizzazione emotiva” ha a che fare innanzitutto con questa reciprocità biologica e l’attività risonante dei due sistemi oltre che garantire la sopravvivenza, costituisce una primordiale e importantissima esperienza di relazione.
Si inizia qui ad apprendere che i propri bisogni possono essere ascoltati oppure no, che di fronte al pericolo qualcuno interverrà a proteggerci oppure no, che quando stiamo male qualcuno ci soccorrerà, che possiamo esprimere bisogni e paure perché verranno accolte, che non saremo mai lasciati soli, ..
LINUS COPERTANon tutto si giocherà nei primissimi mesi di vita, ma al contrario i due sistemi resteranno attivi a lungo: il sistema di attaccamento si attiverà tutte le volte che il bambino sperimenterà paura o bisogno di cure e quello di accudimento risponderà regolando i bisogni e le emozioni più disturbanti. La capacità di esplorare il mondo e di “allontanarsi da casa” sarà paradossalmente tanto più sviluppata quanto più il bambino sentirà stabile e sicuro il suo legame di attaccamento. Se al contrario la possibilità di accedere al sistema di accudimento sarà intermittente, imprevedibile o addirittura impossibile, il sistema di esplorazione si bloccherà e resterà iper-attivato quello di attaccamento, finché sarà ripristinato il legame.
Questa attività di graduale e reciproca regolazione muove dai bisogni primari (fame, sete, protezione) e si estende alle emozioni primarie (paura, rabbia, tristezza, felicità, disgusto), fino a condizionare via via quelle più complesse (delusione, colpa, vergogna, ..), offrendo un aiuto esterno alla comprensione dei  propri stati mentali, altrimenti difficili da interpretare e comprendere.
Un esempio utile e di facile comprensione è quello delle fobie: nessuno di noi nasce con il terrore dei ragni, poiché si tratta di un animale non necessariamente pericoloso, almeno nelle specie più comunemente presenti nelle nostre case! Tuttavia la percezione di pericolosità del bambino può variare molto in base a come gli adulti intorno a lui hanno reagito alla vista di un ragno: un adulto che prende in mano il ragno e ci gioca, offrirà un’idea di non pericolosità, un adulto che inizierà a gridare o a scappare offrirà un’idea di pericolo, un adulto che porterà via il bambino dalla stanza offrirà forse l’idea che non ci si possa difendere o, più in generale, che non si possano affrontare la difficoltà, …e così via..
Lo stesso meccanismo di apprendimento avviene per la comprensione delle emozioni: può capitare quando siamo piccoli che gli adulti intorno a noi reagiscano alle nostre emozioni negandole, considerandole esagerate, preoccupandosi molto o, nel migliore dei casi, semplicemente accettandole come normali manifestazioni del nostro sentire in quel dato momento. Non sempre tuttavia questo avviene e il susseguirsi di “apprendimenti” negativi legati alle proprie emozioni può compromettere la capacità di comprendere e regolare i propri stati interni . Potremmo cioè diventare – come nel caos dei ragni – fobici verso le nostre stesse emozioni, iniziare a negarle, a giudicarle negativamente o a preoccuparci molto per esse, semplicemente ..perché così ci è stato insegnato!
La comprensione delle proprie emozioni è alla base della costruzione di relazioni adulte positive e soddisfacenti: ci rende capaci di dare e offrire il “nutrimento affettivo” necessario per mantenere un legame per noi importante, ci aiuta a distinguere quello che per noi è fonte di benessere e piacere e quello che invece può essere “tossico” e nocivo alla nostra sopravvivenza emotiva.
Al prossimo contributo riflessioni e strumenti per migliorare le nostre relazioni!

Recensione di "Alaska", film di Claudio Cupellini (2015)

L’insostenibile fragilità del legame.

Fausto (Elio Germano) e Nadine (Àstrid Bergès-Frisbey) si incontrano sul tetto di un lussuoso albergo di Parigi: lui fuma una sigaretta per concedersi una pausa dal lavoro, lei in bikini e piumino blu cerca un accendino per una sigaretta che la aiuti a riflettere. Guardano lontano verso una città fredda e inospitale. Il mondo fuori è complesso e genera dispersione e isolamento, per entrambi difficile da sopportare.
Di seguito trovate la mia recensione pubblicata su State Of Mind:
http://www.stateofmind.it/2015/12/alaska-claudio-cupellini/
35470981_claudio-cupellini-racconta-una-scena-di-alaska-0
Legame e identità
Le identità dei due protagonisti si mostrano sin da subito fragili, sottili, indefinite, esposte al mondo esterno cui non riesco a mettere un confine chiaro e protettivo, che li aiuti sia a cogliere con entusiasmo le occasioni che la vita offre loro, sia a non farsi travolgere dalle stesse. Le identità fluttuanti caratterizzate da una profonda frammentazione interna e da sentimenti dolorosi che emergono silenziosi dalle loro storie, trovano nel loro legame una soluzione magica e improvvisa alla sofferenza e alla solitudine, al prezzo della possibilità di trovare entrambi una propria identità, solida e autonoma, e di sviluppare un dipendenza che li protegge dal rischio dell’abbandono ma solo finchè la loro unione è sentita solida, simbiotica, indissolubile e animata da forti emozioni.
Nelle loro storie vengono descritti alcuni nuclei di sofferenza centrali presenti nel Disturbo Borderline di Personalità, che spesso è il risultato proprio di storie di abbandono e trascuratezza, che cercano nelle relazioni e nella dipendenza il conforto al dolore dell’abbandono e una soluzione alla frammentazione interna che espone l’identità a ciclici sentimenti di vuoto e angoscia.

La narrazione in psicoterapia: a cosa serve raccontare esperienze del passato che ci hanno fatto soffrire?

La psicoterapia è un trattamento basato sulla parola.

Ogni tipo di psicoterapia utilizza soprattutto il linguaggio per esprimere, accedere e modificare prospettive di vita, pensieri, emozioni. Nel panorama dei diversi approcci di cura non è raro trovarsi di fronte ad un relativismo estremo: approcci centrati solo sul comportamento, solo sul corpo, solo sulle emozioni, solo sul simbolismo delle parole, solo sull’ascolto silenzioso dell’esperienza dell’altro. Ogni cornice teorica recita e applica i suoi riferimenti, offrendo chiavi di lettura e strategie per conoscere meglio se stessi e affrontare nodi dolorosi della vita attraverso l’acquisizione di nuovi punti di vista. Ma alla fine la parola, la narrazione, il linguaggio assumono in ultima istanza e per tutti un ruolo indubbiamente centrale nel ridefinire una cornice, una nuova consapevolezza e una nuova scoperta su se stessi, qualunque sia stato il mezzo per esplorarsi.

Ma a cosa serve raccontare situazioni del passato che ci hanno fatto soffrire?

snoopy-raccontoNei processi narrativi presenti in psicoterapia un aspetto centrale da conoscere e ri-conoscere è il funzionamento della nostra memoria. Gli eventi traumatici o dolorosi della vita seguono infatti processi di elaborazione e memorizzazione del tutto simili a tutti gli altri eventi di vita, almeno finché questi eventi negativi vengono elaborati in un modo adattivo e funzionale alla nostra evoluzione come individui.  Ma come viene immagazzinato un evento?

Dalla neuropsicologia sappiamo che esistono diversi tipi di memoria, ognuno dei quali è funzionale alla nostra vita e al recupero di informazioni necessarie da utilizzare nel presente. Una prima differenza riguarda memorie dichiarative e memorie non dichiarative (Squire, 1994): le prime riguardano ricordi di eventi personali, di fatti, di informazioni riguardanti il mondo in generale e possono essere recuperate volontariamente, le seconde riguardano invece abilità, abitudini, associazioni emotive e risposte condizionate e sono principalmente memorie implicite, non recuperabili deliberatamente. Ad esempio l’andare in bicicletta può essere presente in entrambi i tipi di memoria, in un caso come ricordo del giorno in cui abbiamo imparato ad andare in bicicletta (mem. Dichiarativa autobiografica), nell’altro come memoria dei movimenti che ci consentono di pedalare senza cadere (mem. Implicita procedurale).

Altro aspetto importante riguarda secondo Tulving (2001) la differenza tra memoria episodica e memoria semantica. I ricordi contenuti nella memoria episodica riguardano avvenimenti accaduti in un determinato luogo, tempo e contesto della nostra vita e riusciamo grazie ad essa a recuperare questi elementi; al contrario la memoria semantica va a costituire le basi della nostra conoscenza su noi stessi, sugli altri e sul mondo, e non necessita di un evento di vita specifico o dell’esperienza. Sappiamo che in Africa ci sono i leoni senza essere necessariamente andati lì a vederli con i nostri occhi! Entrambe queste memorie possono entrare in gioco rispetto allo stesso evento di vita: possiamo ricordare ad esempio singoli eventi positivi della nostra vita professionale attivando una memoria episodica di quelle situazioni, o possiamo accedere ad una conoscenza di noi stessi come persone di successo e competenti senza recuperare volontariamente tutti gli episodi che a questo sono legati. E qui le cose iniziano a complicarsi un po’!

Infine la memoria episodica permette alla persona di accedere ad un altro tipo di informazioni: le rappresentazioni percettive sensoriali connesse ad eventi specifici. Il recupero di questi aspetti dei ricordi non può riguardare tutti gli eventi della nostra vita quotidiana, ma riguarda certamente eventi di vita vissuti con un’alta intensità emotiva, tali da rimanere “codificati” nella mente come eventi significativi. Recuperando il ricordo dell’ultima volta che abbiamo fatto la spesa non riusciremmo forse a riportare alla memoria sensazioni fisiche, odori e suoni di quella situazione (sarebbe un dispendio di energie troppo alto!), mentre riusciremo più facilmente a rivivere sensazioni e percezioni  della nostra prima “cotta”, anche a distanza di molti anni!

Tutti gli eventi significativi della nostra vita vengono archiviati in modo armonico nei diversi “magazzini” della memoria ed è importante poter accedere a tutti i diversi livelli e aspetti dei ricordi. Gli eventi molto negativi e traumatici tuttavia a volte rischiano di non essere elaborati nel modo per noi più adattivo possibile e faticano a venire “archiviati” regolarmente. Quando questo accade, i ricordi negativi possono lasciare frammenti sparsi di diversi aspetti dell’evento, frammenti che possono riaffiorare come pensieri negativi, immagini intrusive, sensazioni fisiche sgradevoli. Può emergere ad esempio il ricordo solo semantico di un evento molto negativo (ad es: “sono in pericolo”, “non valgo niente”, “sono un fallito”, “non farò mai niente nella vita”, “sono un debole”), ma non il ricordo episodico ad esso collegato (incidente, abuso, umiliazione, violenza fisica o verbale); possono emergere al contrario sensazioni fisiche intense di paura, dolore o irrequietezza in particolari situazioni che elicitano dei ricordi presenti nella memoria implicita, senza che vengano volontariamente collegati ad alcun ricordo della memoria dichiarativa o episodica. Possono comparire immagini intrusive o flash back dalla memoria episodica, in momenti di assoluta serenità. In tutti questi casi e in molti altri, questo tipo di  incongruenze può indicare la presenza di un ricordo non completamente e correttamente elaborato dalla nostra mente e la scarsa fluidità dei processi di memoria emerge solitamente attraverso il linguaggio, le parole, le espressioni prosodiche e le descrizioni che facciamo degli eventi.

Il racconto condiviso della propria storia in psicoterapia può aiutare a mettere in luce proprio queste incongruenze e a rintracciare tutti i frammenti sparpagliati nella memoria allo scopo di ricostruire un puzzle coerente e completo di quello che è accaduto, di bello e di brutto, nella vita. Recuperare i ricordi negativi e ri-collocarli in uno spazio e in un tempo definiti, aiuta a ridurre il loro potenziale traumatico nel presente, aiuta a separare ciò che è stato da ciò che è o potrà essere nel futuro, aiuta a dare loro un senso e un significato personale.

Ecco il cuore del processo terapeutico: dare senso e significato ad una storia attraverso il recupero del suo racconto, costruire una mappa nuova e completa del passato e lasciare a quei ricordi negativi un traccia da seguire per abbandonare luoghi oscuri e inesplorati della mente e raggiungere spazi più luminosi e accoglienti, in cui possano finalmente trovare uno luogo di quiete e, forse, di oblio.

Liberamente tratto da:

Schauer, Neuer, Elbert, Terapia dell’esposizione narrativa. Un trattamento a breve termine per i disturbi da stress post-traumatico. Giovanni Fioriti Editore (2014)

Stress psicologico da alte temperature!

Sono giorni duri per chi vive in città, lontano dalla brezza del mare o dall’aria leggera della montagna…

Stiamo assistendo in molte città italiane ad un innalzamento storico delle temperature e nelle ultime settimane il caldo e le strategie di sopravvivenza sono diventate argomento ingombrante in famiglia, tra gli amici, per strada, al supermercato e in tutti i luoghi in cui ci capita di vivere la nostra giornata. “L’ossessione” per il caldo (perdonate l’uso non clinico del termine) ha raggiunto una diffusione tale, tra persone e media, da meritare una riflessione psicologica per esplorare quali possano essere le ripercussioni psicologiche che tutti noi stiamo evidentemente subendo.

Per molti le alte temperature di questi giorni hanno innanzitutto effetti fisiologici importanti: sudorazione intensa, abbassamento di pressione, nausea, mal di testa, sensazione di affanno, tachicardia, gambe pesanti, giramenti di testa, bocca secca, spossatezza. Tutti questi effetti sono già sufficienti a creare un certo grado di malessere psicologico e di generale disagio in molti contesti sociali. Sudare in pubblico, sentirsi stanchi al mattino, fatica a concentrarsi in ufficio. Per chi è ansioso o per chi in generale pone molta attenzione ai segnali del corpo, alcuni dei “sintomi del caldo” sopracitati possono somigliare inoltre a sintomi d’ansia e generare un discreto stato di allarme. Ad esempio in persone che hanno vissuto l’esperienza del panico, alcune di queste reazioni fisiologiche possono facilmente essere mal-interpretate come “panico”, piuttosto che come “effetto normale delle alte temperature”. La mente va veloce, quindi  può essere utile fermarsi un attimo! Proviamo ad osservare il corpo, a riconoscere l’effetto che il caldo intenso sta producendo e cerchiamo un luogo fresco o con aria condizionata, prima di entrare in allarme..

Per chi è incline a vivere sbalzi d’umore, il caldo intenso e le sensazioni ad esso associate, possono richiamare invece pessimi ricordi e generare pensieri e sensazioni negative: sentirsi senza energie, non avere voglia di fare niente, sentimenti di impotenza, riduzione dell’appetito, brusca riduzione dell’interesse nelle attività piacevoli. Tutto questo può generare preoccupazione in chi ha vissuto ad esempio periodi di depressione, può innescare pensieri negativi su di sé e sulle proprie capacità e alimentare un circolo vizioso che aumenta il pessimismo ….quindi attenzione! Proviamo a considerare per un attimo i nostri vissuti valutando l’impatto che il caldo realmente sta avendo sul nostro livello di energia e sulle nostre risorse mentali. Forse varrà la pena innanzitutto aiutare il corpo a “tirarsi su”, mangiare molta frutta e verdura, bere molta acqua e se necessario assumere integratori di sali minerali, prima di rischiare di scivolare in veloci e catastrofiche autodiagnosi o innescare uno vero e proprio stato depressivo.

Chi al contrario è abituato a vivere con un umore “sopra le righe”, a riempire la giornata con molte attività, a non sentirsi mai stanco, a vivere tutto con molta energia ed entusiasmo, potrà vivere male gli effetti del caldo sul nostro comportamento e sulle attività quotidiane. Potrà forse vivere con rabbia questa insolita carenza di energie e gli invitabili effetti fisiologici. Il rischio è di diventare forse insofferente, insoddisfatto, irritabile, agitato. Per chi vive queste sensazioni forse vale la pena provare a rallentare. Ma sappiamo che non è per tutti facile fermarsi, ascoltare il corpo e accettare una temporanea riduzione di efficienza!

Infine c’è l’insonnia che in molti staranno vivendo a causa del caldo. Riposare bene è fondamentale per il nostro benessere psicologico. Per alcuni dormire male, poco o troppo, può determinare veri e propri sbalzi d’umore, irritabilità, sintomi d’ansia, per altri problemi di concentrazione, faticabilità, sonnolenza diurna, ma per tutti il sonno è fondamentale per mantenere un buon livello di energia fisica e mentale, una buona memoria, una buona concentrazione e uno stato di migliore integrazione tra il corpo e la mente.

Certamente ci sarà qualcuno che starà vivendo senza sofferenze e ripercussioni psicologiche questo anomalo innalzamento delle temperature, ma per tutti gli altri suggerisco qualche esercizio di rilassamento che possa aiutare ad arrivare forse più sereni alle ferie!

Scarica qui i file pdf con le indicazioni da seguire:

Esercizio Rilassamento 1 , Esercizio Rilassamento 2

AVVERTENZE!

Gli esercizi possono aiutare a ridurre l’arousal fisiologico e abbassare temporaneamente la temperatura corporea, ma non quella esterna!
Trovare un momento di calma e serenità, altrimenti può essere difficile trarne beneficio e conviene rimandare ad un altro momento.
Provare più volte, perché non è subito facile praticare esercizi di questo tipo se non si è mai provato ad usarli con una guida.

Il regno d'inverno (2014) di Ceylan – Recensione

Il narcisismo sommerso

Una fotografia meravigliosa dipinge sulla pellicola ogni momento della storia e dona forza espressiva al mondo che il regista turco Nuri Bilge Ceylan, vincitore della Palma D’Oro a Cannes nel 2014, ha di nuovo scelto di rappresentare.

Locandina "Il regno d'inverno" di Nuri Bilge Ceylan (2014)
Locandina “Il regno d’inverno” di Nuri Bilge Ceylan (2014)

“Il regno d’Inverno” fa respirare i suoi protagonisti nel freddo e nella desolazione di uno sperduto villaggio dell’Anatolia, mentre lascia ardere dentro di loro un irrinunciabile bisogno di calore, di vita. Il grigio della terra nel paesaggio intorno, contrasta con il giallo intenso delle piccole lampade che illuminano l’interno delle case, il vento gelido che porta una neve ostile e minacciosa, si oppone al calore dei camini e delle stufe a legna che scaldano le stanze. Un mondo turco certamente diverso dall’immaginario più noto e colorato di Istanbul, in cui la durezza dell’ambiente impone le sue regole e determina l’evoluzione stessa dei suoi protagonisti.

Aydin (Haluk Bilginer) è un ex attore di teatro e intellettuale decadente, che a seguito della morte dei genitori eredita un grande albergo scavato nella roccia in un piccolo villaggio dell’Anatolia, l’Othello. Accetta di proseguire il lavoro del padre con spirito di sacrificio e rassegnazione, pur godendo dei privilegi che la sua eredità gli consente di avere in una terra così povera e difficile. La gestione economica delle molteplici proprietà tuttavia lo imbarazza e se ne distanzia mostrando disinteresse per gli affittuari inadempienti e delegando al suo uomo di fiducia, Hidayet (Ayberk Pekcan), i conflitti e lo loro risoluzione. Aydin osserva il mondo dal suo studiolo, mentre il vento batte sul vetro della piccola finestra annunciando l’arrivo dell’inverno; dedica le sue giornate alla scrittura di piccoli saggi su un giornale locale e insegue il sogno di scrivere un grandioso volume sulla storia del teatro turco per offrire finalmente al mondo una ricostruzione eccellente e dettagliata sul tema, a suo parere assente nei volumi fino ad oggi scritti. Insieme a lui vive nel grande albergo di pietra la giovane moglie Nihal (Melisa Sozen), bella e annoiata, che cerca di uscire dalla monotonia di giornate tutte uguali impegnandosi nella raccolta di fondi per le scuole dei villaggi vicini. Le sue emozioni sono appena accennate e sempre mascherate da una tranquillità controllata e fragile: vive un conflitto grande tra la dipendenza economica, comoda e necessaria, e il desiderio di cercare una sua identità autonoma, per la quale servono coraggio e determinazione. Nihal è caduta nella rete delle fascinose promesse di un attore maturo e innamorato della sua giovinezza, e ha offerto in cambio le sue emozioni vitali e la sua completa dedizione. Salvo poi scoprire, dietro l’attore, l’uomo e il suo cuore sofferente e impietrito. Con loro vive la sorella di Aydin, Necla (Demet Akbag), reduce da una separazione con un marito alcolista e insieme al fratello ereditiera de l’Othello, in cui sceglie di andarsi a rifugiare. Necla si trascina da un divano all’altro, leggendo libri e pontificando sul valore dei rapporti umani, sul significato della religione e su come sia opportuno affrontare il male nel mondo. I suoi pensieri di grande respiro e ricerca filosofica, finiscono spesso però per trasformarsi in invettive cieche e personali, rivelando la sua rabbia e la sua impotenza, contro coloro che restano i suoi unici interlocutori e affetti: il fratello e Nihal.

L’immagine delle case e dell’albergo incastonati nella roccia sembra ben descrivere le loro emozioni: tutti vengono da un passato pieno di passioni, Aydin dal teatro, Necla dal suo focoso matrimonio, Nihal dalla sua giovinezza ingenua e piena di speranze, ma i loro cuori appaiono sbiaditi e duri come la roccia che li avvolge. Solo nella solitudine delle loro stanze ritrovano quelle passioni e le coltivano segretamente, ma quando d’inverno la neve scende a ricoprire pesante i tetti, le strade, le valli, i turisti vanno via insieme alla tranquillità e alla curiosa vitalità che li ha portati lì. Solo allora l’isolamento e l’immobilità lasciano emergere le ombre che si nascondo dietro quelle lunghe e illuminanti conversazioni sul destino del mondo..

Aydin è un narcisista. Bisognoso di un pubblico che lo ammiri e che da lui dipenda. “Il suo mondo è piccolo ma almeno è lui il re” e questo basta a permettergli di esprimere critiche e giudizi taglienti, mantenendo un sorriso paterno e uno sguardo compassionevole verso i suoi sudditi. Più furbo e controllato della sorella, Aydin cerca di nascondere il suo profondo bisogno di riconoscimento e la sua necessità di essere compiaciuto, indossando la maschera della benevolenza e portando in giro una versione di sé umile e trasandata. E’ quello che verrebbe definito un narcisista covert , “sommerso”:  la grandiosità, l’esibizionismo, l’ambizione e il bisogno di ammirazione, vengono espressi attraverso la maschera della fragilità, dell’insicurezza, della vulnerabilità e dell’aperta autocritica. Ma la sensibilità al giudizio e il terrore del confronto con gli altri, smascherano il cuore della sua personalità e lo fanno emergere per quello che è: bramoso e spietato predatore delle debolezze altrui.

Ha imparato dalla sua infanzia fredda e silenziosa, che bisogna cavarsela da soli e che non c’è tempo per le emozioni. Sono cose da nevrotici, egocentrici e infantili, come Nihal.

Nessuno conta davvero per lui. Nessuno lo conosce mai davvero. Ma non importa. Nonostante le grandi capacità di introspezione, le relazioni sono per Aydin un mondo ancora incomprensibile, ma di cui sa di avere assoluto bisogno. La fuga solitaria si rivela una corsa verso il nulla, la sua libertà è possibile solo stando vicino allo sguardo di chi lo osserva e ammira.

Resta il re solo finché ha dei sudditi. Fuori da questo è un uomo comune, che aspetta un treno per Istanbul in ritardo di un’ora, in una stazione fredda e desolata dell’Anatolia. Invisibile come tanti, intollerabile per se stesso.

Allora torna sui suoi passi, si dà un tono con una fortunata battuta di caccia. Rispetto a quel vuoto sente il bisogno urgente di un legame forte che lo riporti letteralmente alla vita. Poco importa se per farlo ha bisogno di mostrarsi di nuovo fragile, solo e umile. Poco importa se Nihal non lo ama più. La sua presenza e vicinanza gli bastano a ritrovare se stesso e rimettersi a scrivere il suo sogno grandioso.

E’ inverno e Aydin è di nuovo l’unico Re del suo regno.

winter sleep stazione

Resilienza e risorse personali: affrontare le negatività!

Non esistono due modi identici di reagire alla stessa situazione, positiva o negativa che sia.

Ognuno di noi arriva a quella situazione con una storia, con delle idee, emozioni e valori. Ognuno di noi ha il suo modo di chiedere o non chiedere aiuto.Ognuno di noi ha il suo modo specifico di cavarsela da solo.Ognuno di noi manifesta a suo modo agitazione e rabbia. Felicità e tristezza. Divertimento o noia. Ognuno di noi ha il suo modo particolare di restare immobile di fronte agli eventi.

Un-fiore-nella-rocciaNel tempo molti studiosi si sono occupati di studiare ed approfondire dettagliatamente i fattori che scatenano nell’uomo ferite e traumi emotivi, in tutte le età, con particolare attenzione all’infanzia. Quello che meno è stato oggetto di studio e di approfondimento è invece ciò che ci porta naturalmente a sopravvivere agli eventi negativi, a resistere, a trovare soluzioni, ad andare avanti nella vita.

La resilienza, insomma. Ma di che si tratta?

Sono state date diverse definizioni del termine “resilienza”, eccone alcune. In fisica la resilienza è la proprietà di un metallo di non spezzarsi, ma di acquistare una nuova forma dopo aver ricevuto un colpo non così forte da provocarne la rottura. Il termine resilienza comprende quindi il concetto di resistenza all’urto, di flessibilità, ma anche di malleabilità , intesa come capacità di cambiare forma, di adeguarsi alle situazioni mutevoli, di adattarsi. Nell’uomo la resilienza produce, di fronte agli stress e ai colpi della vita, risposte flessibili e funzionali che si adattano alle diverse circostanze e alle esigenze del momento, tanto che si può scoprire di avere questa qualità anche solo in un momento di emergenza, trovando dentro di sé forze innate che non si pensava di avere (Fernandez, Maslovaric 2011). Quando si parla di individui resilienti non si fa tuttavia riferimento a persone che possiedono il gene dell’invulnerabilità o dell’eroismo, ma piuttosto di persone che sono capaci di attraversare il dolore e le emozioni negative, che hanno le risorse per sentirle prima ancora che di affrontarle e che accettano la possibilità di soffrire nel presente, per trovare solo poi una soluzione positiva nel futuro.

La persona resiliente è orientata all’evoluzione, piuttosto che alla staticità a tutti i costi!

La persona resiliente conosce se stessa nelle situazioni migliori e in quelle peggiori, riconosce e accetta i propri limiti e risorse in modo sufficiente per sapere come muoversi nel mondo.

La persona resiliente ha l’inarrestabile tendenza a “salvare il salvabile”, a resistere di fronte alle avversità.

Secondo uno studio del 1999 del National Institute of Mental Health (NIMH) le caratteristiche di una persona resiliente sono: essere naturalmente socievole, coscienzioso, disponibile, emotivamente stabile e intelligente. Mentre le capacità apprese di risposta agli eventi critici che garantirebbero un buon grado di resilienza sono state identificate nella convinzione di poter influenzare gli eventi in corso e quindi di poter assumere un atteggiamento attivo e proattivo per agire in modo concreto; nella capacità di sentirsi profondamente appassionati e coinvolti nelle situazioni negative da affrontare; nel viversi come protagonista, al centro delle proprie decisioni  e con il “potere” di scegliere, nei limiti personali e ambientali, i modi per raggiungere le proprie mete.

La resilienza, come molte delle nostre capacità, non è tuttavia stabile nel tempo.

Può variare, anche molto. Può crescere o diminuire e si nutre di alcune importantissime variabili: la stima di sé, l’affetto e l’amicizia, la scoperta del senso della vita e l’impressione di poter controllare la propria esistenza (Vanistendael, 2000).

Ovviamente le caratteristiche che rendono ognuno di noi più o meno resiliente si intrecciano alle relazioni affettive della nostra vita, al contesto sociale in cui viviamo e all’esposizione a situazioni traumatiche: tutte queste variabili possono alterare molto le nostre predisposizioni caratteriali.

L’idea forse centrale nella resilienza è che queste caratteristiche possono essere recuperate, se perse, potenziate e favorite da nuove situazioni di vita, da nuove relazioni e dal nostro stesso metterci positivamente in gioco tutte le volte che ne abbiamo la possibilità.

Liberamente tratto da: “Traumi psicologici, ferite dell’anima” (2011), di Isabel fernandez, Giada Maslovaric, Miten Veniero Galvagni.

 

Disturbo Bipolare: trattamento e psicoeducazione.

Il “Manuale di Psicoeducazione per il disturbo bipolare” di Colom e Vieta (2004) offre uno strumento molto efficace per affrontare e comprendere uno dei disturbi psichiatrici più complessi e, se non trattati, invalidanti per i pazienti che ne soffrono.

I disturbi dell’umore, di tipo bipolare, sono caratterizzati dalla presenza di un deficit a carico del sistema limbico dei meccanismi che regolano l’umore e la capacità di adattarsi in modo armonico e funzionale ad eventi esterni positivi o negativi. L’alterazione riguarda la produzione di neurotrasmettitori specifici (dopamina, serotonina, noradrenalina, acetilcolina) che sono fondamentali nel determinare le nostre reazioni emotive e la successiva capacità di ripristinare l’omeostasi corporea e affettiva. In condizioni normali il sistema limbico funge da “termostato” e segnala la necessità di incrementare l’umore, le attività, l’energia per affrontare alcune situazioni o di ridurre l’investimento energetico, le performance e la velocità con cui ci muoviamo e prendiamo decisioni per meglio adattarsi alle nostre necessità. Nei disturbi bipolari questo meccanismo è talora deficitario e inefficace nel consentire una buona regolazione degli stati affettivi, delle emozioni e delle scelte che ne derivano.

manuale colom vietaChi soffre di disturbo bipolare tende a vivere lunghi periodi di umore depresso, caratterizzato da pensieri negativi, stanchezza fisica, anedonia, astenia, insonnia, ansia, che si alternano a periodi mania, caratterizzati da una espansività emotiva, pensieri di grandiosità, incremento delle attività quotidiane e delle performance fisiche e lavorative, ridotto bisogno di sonno, tachipsichismo e talora ansia e aggressività associate. Tutti noi ci troviamo a vivere periodi simili a quelli descritti finora, magari quando eventi di vita stressanti condizionano il nostro umore o semplicemente abbiamo giornate “no” o giornate in cui sentiamo una particolare energia positiva. Tuttavia le condizioni per porre una diagnosi di disturbo bipolare riguardano alcuni aspetti importanti di queste fasi, quali durata, intensità e compromissione delle normali attività quotidiane, che possono aiutare a differenziare un normale andamento dell’umore da un’alternanza problematica di stati affettivi opposti. Anche l’abuso di sostanze psicotrope o la presenza di alcune patologie organiche possono causare sintomi simili al disturbo bipolare (ad es: ipo o iper tiroidismo, assunzione di farmaci, ipertensione,..), dunque solo uno specialista può porre questa diagnosi, valutando attentamente la presenza di eventuali eventi di vita scatenanti, la storia clinica specifica e l’anamnesi del paziente in consultazione.

(Per maggiori informazioni sui principali sottotipi di disturbi dell’umore, clicca i link di seguito: Disturbi depressivi unipolari disturbi bipolari.)

Ma tornando al manuale, l’idea principale che guida gli autori riguarda un concetto importantissimo e non sempre da tutti condiviso: il diritto ad essere informati, come primo passo per un percorso di cura. Quello che sarebbe un diritto inviolabile di ogni paziente, non solo in psichiatria, ma in tutte le branche mediche, diventa per gli autori molto di più: diventa esso stesso uno strumento di comprensione e di cura in grado di aiutare le persone a gestire un disturbo così complesso, riducendo sintomi e ricadute in modo significativo. Questo determina il miglioramento del decorso, poiché ormai si sa il disturbo bipolare non trattato tende a peggiorare negli anni – sia rispetto all’intensità  alla durata delle fasi che rispetto ai sintomi manifestati – fino a provocare grave menomazione della vita del paziente.

Il percorso che propongono gli autori e un programma di gruppo, composto di 21 incontri da 2 ore ciascuno, in cui 8-12 pazienti vengono informati e guidati nella comprensione dei disturbi dell’umore, dapprima con nozioni generali e poi successivamente con l’apprendimento di tecniche personalizzate per la comprensione della loro specifica condizione clinica. Tutti i partecipanti al gruppo, sono seguiti farmacologicamente da un medico psichiatra e devono necessariamente trovarsi in una fase eutimica del tono dell’umore, di equilibrio tra depressione e mania.

Di seguito in sintesi gli obiettivi delle diverse sedute del trattamento di gruppo, che possano essere un riferimento a terapeuti che vogliano intraprendere un lavoro terapeutico i questo, ma anche a utenti che abbiano ricevuto questa diagnosi e vogliano fare richiesta di una trattamento di gruppo così orientato nella loro zona.

Prime sei sessioni – Blocco 1:  Coscienza di malattia

– che cos’è la malattia bipolare?
– Fattori scatenanti ed eziologici?
– Sintomi mania? Sintomi depressivi?
– prognosi e decorso
Blocco 2: Aderenza farmacologica
trattamenti a disposizione oggi
– analisi necessarie (litio, carbamazepina,..)
– gravidanza, consulenza genetica
– terapie alternative
– rischi associati all’interruzione del trattamento
Blocco 3:  Abuso di sostanze
effetto delle sostanze psicoattive nel peggioramento della malattia
– effetti diretti delle sostanze sul manifestarsi del disturbo
– sostanze da evitare
Blocco 4: Individuazione precoce nuovi episodi
– segnali  prodromici di mania e depressione
– cosa fare se si riconosce l’inizio di un nuova fase
Blocco 5:  Regolarità dello stile di vita
regolarizzare sonno, alimentazione, attività fisica
– tecniche per il controllo dello stress
– strategie di soluzione dei problemi
– migliore gestione dell’emotività