Le ragioni del Grinch: per un Natale trauma-informed

Il Grinch, celebre film di Ron Howard (2000) tratto dall’omonimo libro di Dr. Seuss (How the Grinch Stole Christmas), è l’ormai mitico protagonista di una fiaba che rappresenta per eccellenza la Resistenza allo spirito di condivisione del Natale e diventa l’unico (quasi) antieroe che ricorda al mondo che il Natale non è per tutti una grande festa. La scontrosità, la diffidenza, la solitudine, lo scherno non si fermano davanti alle luci lampeggianti e di certo i regali non rendono più sicuro il contatto con il mondo, la comunità, gli altri. Nonostante questo anche quella de Il Grinch è una favola e come tutte deve finire bene, ma lo stimolo che porta con sé non è per nulla scontato e inappropriato. Se ci fosse davvero spazio e rispetto per il “malumore natalizio”, avremmo modo di capirne meglio le ragioni e concederci qualche riflessione autentica sulla condivisione, sulla gioia e sulla solidarietà che i questi giorni ci avvolge e travolge tutti.
L’esperienza clinica e l’esperienza di chiunque osservi le persone che ha intorno è ricca di esempi e situazioni che sembrano tutt’altro che luccicanti, ma tuttavia la giostra corre veloce e bisogna salirci su. Qualche volta tra l’altro ci si diverte lo stesso, a dispetto dei timori e della paure iniziali, ma è necessario considerare quando non è così e quando al contrario le avventure natalizie assumono la forma di un luogo cupo e pieno di fantasmi.
“Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, parenti o amici. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Anche le violenze fisiche (come gli schiaffi, i calci, i pugni e i morsi) sono per la maggior parte opera dei partner o ex. Gli sconosciuti sono autori soprattutto di molestie sessuali (76,8% fra tutte le violenze commesse da sconosciuti).” (fonte Istat, 2014)
“Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: » 1 adulto su 4 (25%) nel mondo è stato abusato fisicamente da bambino; » il 36% degli adulti dichiarano di aver subìto un abuso psicologico; » 1 donna su 5 (il 20%), 1 uomo su 10 circa (5-10%) ha subito abuso sessuale da bambino; » 1 donna su 3 è stata vittima di violenza fisica o sessuale perpetrata dal proprio partner; » 1 anziano su 17 è vittima di violenza. (fonte Global Status Report on Violence Prevention, pubb. 11 dicembre 2014).
“In Italia circa 47,7 minorenni su 1000 sono seguiti dai Servizi sociali per varie tipologie di bisogni. Di questi 457.453 minori presi in carico circa 1 bambino ogni 5 è vittima di maltrattamento per abuso sessuale (76,5%), maltrattamento fisico (71%), violenza assistita (63,6%), trascuratezza materiale e affettiva (59,8%).” (fonte Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza | CISMAI | Terre des Hommes, 2015).
Se le statistiche sulla violenza intra-familiare e domestica non mentono, allora il luogo più pericoloso sembra essere proprio la famiglia e diventa inevitabile pensare oggi che gli incontri familiari dei prossimi giorni non saranno solo e per tutti un’occasione per ricordare le tradizioni del passato, condividere momenti insieme e raccontarsi le speranze per l’anno che verrà. Le statistiche ci suggeriscono piuttosto che molti bambini e molti adulti saranno probabilmente in pericolo durante le affollate riunioni familiari, probabilmente esposti a situazioni di rischio e di conflitto tutt’altro che rilassanti e che non sarà per tutti facile, né talora saggio!, seguire il dictat assoluto della condivisione.
Per chiunque la famiglia sia un luogo di pericolo, sofferenza e dolore, sarà necessario e forse utile ricordare alcuni diritti inalienabili che ognuno di noi ha e che lo “spirito del Natale” non può in nessun caso cancellare.
Quello che senti va bene. Se senti gioia, va bene, Se senti rabbia, va bene, Se senti tristezza, va bene. Se senti imbarazzo, va bene. Nessuno di noi sceglie cosa sentire, ma quello che sentiamo in alcune situazioni può arrivare dal passato e dalle esperienze negative o positive che abbiamo vissuto. Non ci sono emozioni giuste, solo reazioni emotive necessarie che possiamo decidere di esprimere oppure no, ma che è sempre utile rispettare e ascoltare perché ci dicono qualcosa di noi, di come stiamo e di cosa possiamo fare per aiutarci.
Proteggerti è tuo diritto. Non sei obbligato a incontrare chi ti ha fatto del male, non sei tenuto ad augurare un buon anno a chi ti ha picchiato, stuprato, umiliato. Nessuno merita di esporsi alla sofferenza, al pericolo o alla paura, se qualcuno te lo chiede non riesce a capire cosa provi o non ti sta rispettando come essere umano.
Puoi dire di no. E’ tuo diritto rifiutare situazioni che ti mettono a disagio, che ti spaventano, che ti fanno sentire minacciato/a o che semplicemente non ti piacciono. Che sia una cena affollata o un pranzo delizioso, non sei obbligato a spiegare, non devi per forza resistere se il dolore o la paura ti fanno sentire in balia degli eventi o degli altri. Nessuna tradizione vale la tua sofferenza. Ogni tradizione può essere cambiata e tu hai diritto di partecipare a questo cambiamento.
Difendi i tuoi confini. Ognuno ha diritto di scegliere per sé, esprimere le sue opinioni, avere i suoi valori, bisogni, pensieri, emozioni. Nessuno ha il diritto di ricattarti, minacciarti, insultarti, controllarti, costringerti. Nessuna forma di amore prevede questo, chi lo fa non ti rispetta ed è tuo diritto difenderti.
Trova un luogo sicuro. Se sei nella tua casa, ricorda che è tuo diritto avere uno spazio dove gli altri non potranno entrare. Se sei lontano dalla tua casa, cerca un luogo nuovo in cui puoi sentirti al sicuro e in cui puoi scegliere con chi stare o non stare. Se non è possibile, prova a cercare un luogo nella tua mente o a ricordare il volto di qualcuno che ti aiutato nel passato. E’ importante sapere che non è necessario vivere sempre in allerta o nel caos. Tutti hanno il diritto di vivere tranquilli ed essere lasciati in pace, anche tu.
Scegli chi vuoi vicino a te. Non sei obbligato a coltivare tutte le relazioni che incontri, anche tu puoi scegliere con chi stare, di chi fidarti, chi ti piace e chi non ti piace. Se le relazioni non ti fanno stare bene, possono concludersi, non è colpa di nessuno.
Prenditi cura di te. Se hai bisogno di correre, corri. Se hai voglia di leggere, leggi. Se hai voglia di stare da solo, resta solo. Se hai voglia di abbracciare, abbraccia. Se hai voglia di dormire, riposa. Se hai delle abitudini che ti fanno stare bene, rispettale. Anche se condividi il tempo e lo spazio con gli altri, puoi continuare a prenderti cura di te e ascoltare i tuoi bisogni. Non sei egoista se ti prendi cura di te. Ognuno dovrebbe farlo per sé. Stare insieme agli altri, non vuol dire rinunciare o sacrificarsi per loro, anzi arricchirsi reciprocamente è possibile solo se ognuno è libero e padrone di sé.

Qualunque cosa tu abbia scelto di fare, ti auguro di restare vicino a te stesso e alle tue emozioni durante queste festività e per tutto l’anno che verrà!


 
 
 

Il quinto principio di Paul Williams (2014)

Il quinto principio (2014) è il primo volume di una trilogia che Paul Williams ha scritto per raccontare al grande pubblico la storia della sua infanzia difficile, attraverso gli occhi dell’adulto che è oggi e dello psicanalista che lavora ogni giorno co i suoi pazienti vittime di trauma.
La sua opera non è solo coraggiosa, ma permette di accedere al mondo del trauma da una doppia prospettiva, sempre presente nella narrazione: quella della vittima che ha dovuto affrontare un’infanzia terrifica e piena di dolore, quella dell’adulto che ha superato e messo insieme i pezzi del suo passato senza dimenticare se stesso e i suoi pensieri di bambino.
Il testo è fondamentale non solo per tutti gli operatori che si trovano a lavorare con vittime di traumatizzazione cronica, ma utile a tutte le persone che hanno vissuto nella loro infanzia situazioni di grave maltrattamento, affrontando da piccolissimi una lotta che le parole di Paul Williams riescono a descrivere con profondità, attenzione e grande dignità.
 
 
Per leggere la Recensione completa:

Il quinto principio di Paul Williams (2014) – Recensione del libro

Feccia (2017) di Paul Williams – Recensione del libro


 

Stress Post-Traumatico e serie TV: il caso di Thomas Shelby

In questi giorni di vacanza e tempo libero, in molti avranno vissuto un altro – e meno gradito – grande classico del Natale: l’influenza stagionale! Tra febbre, tosse e nervosismo da ferie perse, saranno in tanti ad essere caduti tra le braccia rassicuranti e sempre disponibili di una lunga serie tv.
Per chi fosse finito nella rete del “Binge Watching” – senza entrare nel merito delle sue versioni più patologiche! – tra le ultime uscite prenatalizie non avrà certamente perso l’ultima stagione dei Peaky Blinders, serie tv britannica scritta e ideata da Steven Knight nel 2013, e le sfide del suo fascinoso protagonista: Thomas “Tommy” Shelby  (Cillian Murphy). I fratelli Shelby – ‘in arte’ Peaky Blinders – sono una gang di Birmingham e vivono nella zona povera della città, Small Heath, loro quartier generale da quando gli antenati gitani hanno scelto di insediarsi in città e mettere su attività illegali. La storia inizia nel 1919, quando tutti i fratelli rientrano dalla Francia, dove hanno combattuto la prima guerra mondiale, e riprendono possesso dell’ “azienda di famiglia” affidata negli ultimi anni alle sorelle rimaste ad aspettarli.
Ma cosa trovano al loro rientro? Il nemico combattuto in Francia, li aspettava tra le mura di casa. Una volta tornati liberi e padroni della città infatti, tutti i fratelli iniziano a sviluppare comportamenti bizzarri e imprevedibili: scatti d’ira, reazioni emotive incontrollate, abuso di sostanze e una eccessiva ricerca di rischi e efferatezze.
Come ormai in molte serie tv, il Disturbo da Stress Post-Traumatico diventa il “lato oscuro” di questi antieroi, il motore del loro agire e della narrazione stessa. Ma vediamoli più da vicino.
Tutti i sintomi del Disturbo da Stress Post-Traumatico (o nevrosi da guerra) sono ormai noti e riconoscibili anche per il grande pubblico: flashback, insonnia, incubi, allucinazioni, esplosioni di rabbia, depressione, abuso di sostanze. I fratelli Shelby reduci dalla guerra mostrano segnali evidenti di questa grave sofferenza psicologica che, aldilà della fiction cinematografica, può essere molto invalidante ed esporre al rischio di suicidio. Arthur e John sono aggressivi, irritabili, abusano di whiskey e cocaina, provano eccitamento nel minacciare, uccidere, sottomettere. Spesso perdono di vista gli affari o peggiorano in modo drammatico il loro comportamento di gangster, perdendo anche la stima e la fiducia della famiglia. Tommy Shelby invece appare diverso. La guerra non sembra aver intaccato la sua capacità di pianificare, di “proteggere” gli interessi di famiglia e di sedurre amici e nemici di ogni genere. E’ sempre in controllo delle sue emozioni e di quelle degli altri. Riesce a superare nuovi lutti e incidenti, nuove morti e abbandoni. E’ sempre vigile e capace di cogliere pericoli prima degli altri, restando calmo e capace di offrire sempre un piano B, per tutti.
Cosa permette a Tommy Shelby di restare così lucido, distaccato e impermeabile alla paura? Resilienza? Intelligenza? Narcisismo? Dissociazione?
Certamente una buona dose di Narcisismo sembra sostenerlo nei momenti di difficoltà e garantirgli un buon livello di energia psichica per andare avanti, inseguendo il sogno di abbandonare la malavita e scalare i vertici della politica del suo paese. Tuttavia questa autostima iperbolica non funziona affatto quando il trauma della guerra riemerge fuori dal suo controllo e proprio nei momenti di calma e serenità: il Narcisismo fallisce di fronte alla violenza dei sintomi da stress post traumatico e non lo aiuta a tenere insieme le parti diverse della sua identità, pre e post-traumatica. Quando è al sicuro Thomas Shelby diventa infatti improvvisamente vulnerabile: si trasforma, arrivano flashback, allucinazioni, paranoia, paura e una grave frammentazione del sé che ci mostrano tutta la gravità della Dissociazione traumatica interna di cui soffre. Abbiamo dunque due Tommy, uno “debole ed emotivo” che conserva sotto traccia i ricordi traumatici e il dolore della guerra, l’altro “forte e visibile agli altri” che è sempre pronto alla prossima battaglia. Quest’ultimo in effetti ha bisogno di una sfida per esistere, altrimenti le emozioni dell’altro prendono troppo spazio e forza nella sua mente. Questa alternanza rende la narrazione molto avvincente, ma allo stesso tempo ci permette di rintracciare sul piano clinico la presenza di sintomi post-traumatici solitamente meno evidenti, ma molto più frequenti nella realtà clinica delle persone che hanno vissuto una o più situazioni traumatiche, anche quando la loro parte più soffrente è offline. Ecco i sintomi post-traumatici che la parte “forte” di Tommy Shelby lascia trasparire:

  • Il pervasivo distacco emotivo in situazioni emotive o di pericolo estreme, è primo e più importante segnale dissociativo. Salta la percezione del rischio e del pericolo di vita.
  • Evitamento di situazioni o di argomenti legati al trauma, attraverso la manipolazione del contesto e delle persone. L’obiettivo implicito e non riesporsi alla situazione temuta.
  • Ritiro dalle relazioni, Pervasivo senso di sfiducia nell’essere aiutati, Autonomia ed autosufficienza estreme anche di fronte a gravi difficoltà.
  • Umore negativo e pensieri negativi persistenti su sé, sugli altri e sul proprio futuro
  • Perdita di senso del sé e di obiettivi di vita prima importanti.
  • Bisogno di sedare l’ansia attraverso l’uso di sostanze.
  • Ricerca compulsiva del sesso per regolare emozioni sgradevoli e intollerabili.
  • Il bisogno eccessivo di controllo su ogni aspetto della vita personale e familiare.
  • Senso pervasivo di colpa e vergogna, anziché una sana e forse più tollerabile responsabilità.

Le fiction ci offrono spesso uno spaccato della psicopatologia con la superficialità e la leggerezza che il contesto richiede, ma possono tuttavia offrire una rappresentazione chiara – seppur cinematografica – che permette importanti riflessioni cliniche.
Un primo spunto clinico è legato proprio alle caratteristiche esteriori di Thomas Shelby e ci ricorda l’importanza, nella clinica quotidiana, di indagare e riconoscere sempre anche i sintomi più nascosti del Disturbo da Stress Post-Traumatico e non subire la “fascinazione” di alcune identità, o parti della personalità, narcisistiche, iper-razionalizzanti o evitanti, che tendono a mettere una maschera apparentemente normale, alle emozioni più intollerabili e dolorose legate al trauma. Questa maschera permette da un lato di “ri-organizzare” il proprio mondo interno così frammentato, ma ostacola dall’altro la comprensione della sofferenza emotiva, innalzando difese forti contro ogni intervento clinico. Quando assistiamo a questo tipo di sintomi nascosti, gli episodi più importanti da esplorare con i pazienti non sono solo quelli legati ai comportamenti distruttivi, di dipendenza o di rischio, ma soprattutto i momenti di noia e di vuoto, le giornate più calme e prive di impegni, le ore di solitudine. Solo da questa finestra è possibile intravedere la frammentazione interna e iniziare a prendersene cura.
Un secondo spunto clinico, che emerge chiaramente nella narrazione, è inoltre l’importanza nell’osservare nei pazienti la ciclicità dei sintomi a l’alternanza di periodi di calma a periodi di malessere. Quello che risulta nella fiction un facile espediente narrativo, diventa nella vita reale dei pazienti una “gabbia” in cui tendono a ripetersi ciclicamente emozioni, pensieri e comportamenti sempre uguali e difficili da evitare. La sensazione di non avere il controllo sulle proprie azioni, salvo poi recuperarlo attraverso strategie disfunzionali o dannose, è il ciclo da individuare e interrompere in terapia, osservando le emozioni che lo muovono e lo rendono necessario.
Con un appropriato intervento clinico Thomas Shelby non avrebbe probabilmente più avventure da raccontare, ma nella realtà clinica senza un appropriato intervento clinico il Disturbo da Stress Post-Traumatico tende a peggiorare nel tempo e ripresentarsi anche a distanza di molti anni nello stesso identico modo. Tendono inoltre a peggiorare anche l’umore e l’ideazione suicidaria esponendo la persona e i suoi familiari a rischi gravi per la salute.
Dunque lunga vita a Thomas Shelby! Ma resta importante nella vita reale cercare invece una risoluzione e darsi la possibilità di elaborare i traumi del passato, affinché non condizionino così intensamente il nostro presente e la nostra personalità.

Trauma e linguaggio: "Feccia" di Paul Williams

“Non sapeva che nel mirino si sentiva oggetto di attenzione comunque meglio di un’indifferenza a vita ribellarsi invece un suicidio stai alla larga dai pericoli ovvio no? solo che non è ovvio non puoi mica stare alla larga da tutto specialmente se uno non lo sa che vuole stare alla larga da tutto. Terrorizzato dalla aggressioni da quando aveva dodici mesi fino a diciassette anni partenza dal cuboginnasiopaesegrigio prendi questo questo e questo! “andate via” “lasciatemi in pace” non riusciva a dirlo non lo diceva ma perché? Era la madre padre ad aggredire lui non lui loro era proprio così non l’opposto no? Era così no? Vergognarsi isolarsi significava che per lui invece non era così che era colpa sua si ritraeva da se stesso non si fidava di nessuno terrorizzato dalle aggressioni di chi loro sue? Sue. Loro. Terrorizzato dal terrore figurati!”
Paul Williams ci racconta attraverso una trilogia la storia della sua infanzia difficile, vissuta in un contesto di traumatizzazione cronica e grave trascuratezza che hanno lasciato traccia nella sua vita e nelle sue parole di adolescente.
La storia di Paul è la storia di molte persone vittime di trauma, costrette a vivere in un mondo arbitrario e imprevedibile e a trovare un modo per adattarsi e sopravvivere. Quando chi traumatizza è un padre o una madre il paradosso diventa indecifrabile per la mente: a chi chiedere aiuto? a chi affidarsi per avere conforto? dove nascondersi?
Se la mente non riesce a trovare pace, sicurezza e protezione, allora attiva altre strategie più efficaci per ridurre al massimo il dolore emotivo e le emozioni soverchianti che rischiano di farci sentire sopraffatti: la dissociazione. Il prezzo della dissociazione è un crescente senso di frammentazione della propria identità, di perdita di senso, di estraniamento, ma permette di andare avanti e di non sentirsi sempre sopraffatti e in balia degli altri.
La peculiarità di questo romanzo è indubbiamente il linguaggio, spezzato, interrotto, senza soggetto e spesso simile ad un flusso di coscienza, ma che riesce a trasmettere la difficoltà di Paul di decifrare se stesso, gli altri e il mondo in una chiave che lo aiuti a crescere. Almeno finché non gliene viene data l’occasione…
Trovate qui la recensione completa del libro: http://www.stateofmind.it/2017/09/feccia-paul-williams-recensione

Il trauma nella vita dei rifugiati: Terapia dell'Esposizione Narrativa

“Quando un essere umano infligge un dolore o un danno ad un altro essere umano, ne deriva una lacerazione a livello sociale e personale. Il trauma distrugge il nucleo di umanità caratteristico di ogni contesto sociale: la comunicazione, la parola, la memoria autobiografica, la dignità, la pace e la libertà.”

 
rifugiatiIl fenomeno migratorio ha assunto negli ultimi anni dimensioni enormi in tutto il mondo; intere popolazioni migrano in cerca di loghi sicuri in cui vivere e crescere la propria famiglia, fuggendo da guerre, povertà, calamità naturali. La ricerca di libertà e dignità verso una terra sconosciuta e talora inospitale è il più delle volte uno stato di necessità e come tale rende le persone combattive, pronte a lottare per la sopravvivenza e in grado di tollerare traumi e lutti che in uno stato diverso sarebbero probabilmente intollerabili per ognuno di noi.
I rifugiati più di tutti sono soggetti a questo: lo stato di emergenza e di minaccia alla vita è vissuto a lungo nella loro terra di origine, permane spesso durante tutto il loro viaggio e resta ancora attivo nella precarietà e nell’incertezza del luogo in cui arrivano.
Ma cosa succede quando l’emergenza finisce? 
Quanto tempo e con quali strumenti si possono elaborare gli eventi traumatici vissuti nel viaggio?
Che eredità lasciano questi traumi e vissuto alle generazioni successive e nelle comunità?
Per comprendere i possibili esiti traumatici nelle popolazioni di rifugiati è essenziali comprendere le caratteristiche della violenza organizzata e conoscere le condizioni in cui le persone hanno erano quando hanno vissuto le violenze. Solitudine, impotenza, colpa verso familiari lasciati indietro, perdite, violenza assistita sono tutti fattori di rischio, mentre l’appartenenza ad un gruppo, il sostegno della famiglia, l’avere uno scopo superiore e spirituale che guida, l’incontro con persone in grado di proteggere al momento giusto e la possibilità di accedere a servizi psicologici specializzati, possono essere certamente fattori che rendono i traumi superabili e che limitano il passaggio “transgenerazionale” della violenza e degli abusi.
Nei prossimi anni sarà necessario sviluppare strumenti di lavoro mirati ad intervenire su questi fenomeni, per lavorare sulle vittime di violenza, di tortura, di tratta e aiutarle a superare in modo completo i vissuti traumatici, così da ridurre il passaggio delle memorie traumatiche alle seconde generazioni di migranti.
Nell’articolo che segue propongo la recensione di un interessante testo che parla di un metodo psicoterapico per aiutare le vittime di violenza organizzata e di violazione dei diritti umani: Schauer, M., Neuer, F., Elbert, T. (2014) Terapia dell’esposizione narrativa. Un trattamento a breve termine per i disturbi da stress post-traumatico. Giovanni Fioriti Editore.

Il trauma nel racconto dei rifugiati: la terapia dell’esposizione narrativa (NET)


 

Last summer (2014) di Seragnoli – Recensione

E’ possibile rafforzare un legame alle soglie di un addio?

Last Summer (2014) è l’opera prima di Leonardo Guerra Seragnoli e mi è parso un film di particolare interesse psicologico perché in grado di offrire un racconto poetico ma molto dettagliato delle trame sottili che si intrecciano in una delle relazioni più importanti e significative della nostra vita: quella tra una madre, Naomi, e suo figlio, Ken.

La trama racconta di un legame difficile e della necessità di affrontare una separazione che sia protettiva e necessaria al legame stesso. Un tema complesso, ma descritto con la semplicità degli sguardi e dei movimenti di un bambino che cerca di elaborare l’abbandono uscendone rafforzato e più fiducioso, nonostante l’inevitabile dolore e la distanza che lo aspetta.

644-last-summer

La danza dell’attaccamento tra madre e figlio viene rappresentata in modo perfetto tra ricerca di vicinanza e ciclici rifiuti. Il ritmo segue l’evoluzione del loro legame, della fiducia ritrovata, della possibilità di sentire l’uno le emozioni dell’altro e di accettarle, con la lentezza e la sicurezza che meritano. Il trauma può essere riparato, se il legame torna ad essere sicuro e sintonizzato, capace di accogliere il dolore e di restituire calma e speranza per il futuro.

Di seguito la recensione completa pubblicata su State Of Mind:

Last Summer (2014): l’ultima estate di Naomi e Ken – Recensione del film



 
 
 

Buoni propositi e procrastinazione: Buon anno!

Gennaio si sa, è un mese di buoni propositi e ritrovate speranze: il Natale è passato, l’inverno segue una svolta in positivo e nuovi progetti, diete, attività sportiva, scelte di vita, prendono piede. Per ognuno il cambiamento segue strade e forme diverse, ma nessuno sembra riuscire a tirarsi completamente indietro di fronte alla tentazione di almeno una promessa fatta tra sé e sé.

P_20161230_112638Esplorare il mondo e noi stessi con curiosità e gentilezza è l’augurio che vorrei portare avanti per tutto l’anno, provando a dedicare attenzione e presenza ad ogni azione e momento delle mie giornate.
Quali sono i vostri?
Come tenete fede alle promesse?

I buoni propositi quasi sempre implicano un cambiamento, ma ogni cambiamento è azione e agire di solito è l’ultimo anello di una catena più lunga che sarebbe importante (di nuovo!) esplorare. In alcune situazioni agire è semplice come respirare, a volte invece diventa un’azione più complessa, che mette in gioco “parti” o aspetti di noi più nascosti che possono emergere improvvisamente e remarci contro. Qui si colloca la procrastinazione, una delle forme più tipiche in cui alcune parti di noi intervengono a boicottare progetti e cambiamenti importanti. Sia chiaro: rimandare una scelta, un’azione o un impegno non è di per sé patologico, né dannoso, né tanto meno un comportamento da curare. Spesso prendersi del tempo è tanto necessario, quanto saggio.

Ma cosa succede quando ci accorgiamo di aver procrastinato a lungo qualcosa che per noi era davvero importante? Cosa ci diciamo quando il tempo passa e non riusciamo ad iniziare quello che vorremmo?

Per ognuno di noi la procrastinazione ha motivazioni e modalità differenti, ma per tutti può diventare una grande fonte di stress poiché alimenta una visione negativa di se stessi come inconcludenti, inadeguati o incapaci, quando non addirittura falliti.

Innanzitutto la procrastinazione porta ad “evitare” l’azione che vorremmo intraprendere, quindi ha spesso (ma non solo) emozioni di ansia e paura sottostanti, che la guidano. Ma paura di cosa? a volte è semplicemente paura dell’ignoto e di ciò che non si conosce, più spesso paura di fallire, o magari paura del giudizio, paura di non essere abbastanza forti, capaci o bravi, paura di non farcela, paura di sbagliare e vergogna di mostrarsi inadeguati alla promessa fatta a se stessi o agli altri. Tutte emozioni normali, ma se molto intense certamente difficili da tollerare! Accanto a queste ed altre emozioni,  possono insinuarsi nella mente idee e pensieri inflessibili, che contribuiscono ad alimentare e mantenere il comportamento di evitamento:

l’idea di dover raggiungere i propri obiettivi in pochissimo (o nessun tempo!), a volte si mostra come un vero e proprio “pensiero magico” che rende molto frustrante l’incontro con la realtà;

l’idea di non poter fallire, a volte si mostra come un pensiero “tutto o nulla” e confondiamo il “fare un errore” con l’ “essere persone sbagliate”; chi inizierebbe mai qualcosa sapendo di non poter assolutamente fallire?

l’idea di dover raggiungere risultati eccellenti, “altrimenti non vale la pena iniziare”, a volte ci pone di fronte ad alti standard che, anziché motivarci, bloccano i nostri tentativi sul nascere e ci fanno chiudere in un perfezionismo astratto e irraggiungibile;

l’idea di non essere all’altezza, di essere fragili, di non avere pregi particolari o di essere un bluff, sono infine pensieri che possono colonizzare la mente e impedirci di intraprendere una sfida o un cambiamento. A volte esperienze negative o traumatiche del passato cristallizzano nella mente un’immagine di noi stessi negativa e stereotipata, che non tiene conto delle risorse personali e della nostra complessità come esseri umani, lasciandoci fermi in “idee irrazionali” e credenze su noi stessi che non mettiamo mai davvero in discussione.

Dove impariamo tutti questi pensieri, meriterebbe un approfondimento e una riflessione più ampia e personale, ma è certo che per ognuno la strada che queste idee percorrono è diversa. La propria famiglia d’origine è spesso la culla in cui queste idee vengono alla luce e prendono spazio nella mente, ma tutte le nostre esperienze di vita successive diventano luoghi in cui possono invece evolvere, nutrirsi di nuove occasioni e magari anche di un po’ di saggezza.

Detto questo, negoziare con le nostre parti emotive più inclini alla procrastinazione è compito arduo e spesso richiede un livello di energia, fisica e mentale, che non abbiamo o che non basta a contrastare paura, vergogna e tentazione di rinunciare. Sapere però che queste “parti” hanno dei pensieri e delle emozioni, può almeno aiutarci ad aprire un tavolo di trattativa e forse a non interrompere troppo a lungo le nostre esplorazioni!

Buon 2017!

"Io, Daniel Blake." Ken Loach (2016)

L’ennesima denuncia di Ken Loach, l’ennesima necessaria riflessione sulla nostra realtà.

Daniel Blake è un carpentiere, ha circa 60 anni, vedovo e con un passato difficile, che si trova ad affrontare un periodo di malattia. E’ un uomo forte, capace di affrontare le difficoltà con ironia, di accettare le sofferenze della vita come eventi da cui imparare per andare avanti. L’apparenza burbera e l’aria semplice, si accompagnano a gesti e parole di grande delicatezza, saggezza e generosità, e mostrano un animo curioso e autenticamente aperto al mondo e agli altri.

A seguito di un attacco cardiaco Dan è costretto per la prima volta nella vita a chiedere aiuto allo Stato: non ha per fortuna avuto danni gravi, è in forze e autonomo in tutto, ma i medici gli vietano di lavorare perché il suo cuore è debole e deve ottenere un sussidio di invalidità che gli permetta di vivere, in attesa di riprendere il suo lavoro. Il problema è semplice, la soluzione a quanto pare impossibile.

i-daniel-blakUn funzionario ottuso e dedito alle procedure, più che a rendere servizio, valuta l’autonomia e la resilienza di Dan come un segnali di benessere e gli nega il sussidio, gettandolo in un paradosso senza soluzione: non può lavorare, non può avere assistenza. I ricorsi richiedono molto tempo e competenze informatiche che Dan non ha, ma lui non cede: ore di attesa ai call center, moduli online, code agli sportelli, internet point, documenti, visite mediche. Niente, ci vogliono mesi. Il sistema ha solo una soluzione rapida da offrire, di nuovo paradossale: fingere di cercare un lavoro, che non potrà accettare finché i medici non lo consentiranno, per ottenere un sussidio di disoccupazione che non gli spetterebbe. Dan non ha scelta e accetta, ma la sua identità solida e forte inizia ora a vacillare. Arrivano umiliazione, vergogna, inadeguatezza. Un senso di impotenza e di inutilità che prima non conosceva e che ora lo fanno temere per il futuro.

In questa lotta per i suoi diritti incontra Daisy, ragazza madre di due bambini, in grave difficoltà e isolamento. Dan trova tempo anche per lei: fa lavori di casa, aiuta i bambini con i compiti e con le difficoltà di integrarsi, costruisce mobili in legno e racconta loro delle storie prima di andare a letto. Dan ha davvero molte energie e molto da insegnare agli altri, ma trova solo in loro qualcuno in grado di apprezzarlo e di dargli il calore umano di cui ha bisogno.

Dan resiste, personalmente e eticamente. Non si arrabbia mai di fronte alle difficoltà, è abituato a risolvere problemi, ad aggiustare le cose e a farle funzionare. E’ e resta fiducioso. Ma le ingiustizie fanno crollare a poco a poco le sue certezze e lo indeboliscono come nient’altro.

Ken Loach ci porta di nuovo e con forza su temi di giustizia sociale, a riflettere su come le nostre società moderne gestiscono l’emarginazione, la malattia e la povertà, ma anche su come paradossalmente le risorse personali, l’interesse per il bene comune e il senso di responsabilità siamo sovrastate da superficialità e ignoranza, quando non addirittura osservate con sospetto.

La visione di Loach è dolorosa, ma chiara: non racconta la storia di un eroe, ma di un cittadino normale, con i suoi diritti e rispettoso dei suoi doveri, che non ha nessuna voglia di approfittare dello Stato, ma che si trova suo malgrado più dipendente e bisognoso di quello che vorrebbe, perché lo Stato semplicemente non funziona. La solidarietà sembra l’unica risposta possibile, a fronte di un servizio sociale che non solo non è in grado di comprendere e rispondere ai diritti minimi, ma che in più è lesivo della dignità e dell’identità stessa delle persone.

Chiaramente è qui rappresentato e colpito il servizio sanitario inglese, ma la denuncia di Loach genera molte riflessioni importanti sulla necessità di non perdere, tra innovazioni tecnologiche, burocratizzazione e automazione delle procedure, l’essenza irrinunciabile dell’assistenza pubblica e (aggiungerei) di ogni processo di cura: un aiuto che rispetti i diritti, le identità e le storie, che promuova l’autonomia e la crescita, che sia in grado di cogliere e valorizzare le risorse personali e soprattutto che non sia “iatrogeno” quando incontra la vita quotidiana delle persone.

io-daniel-blake

Recensione di "Alaska", film di Claudio Cupellini (2015)

L’insostenibile fragilità del legame.

Fausto (Elio Germano) e Nadine (Àstrid Bergès-Frisbey) si incontrano sul tetto di un lussuoso albergo di Parigi: lui fuma una sigaretta per concedersi una pausa dal lavoro, lei in bikini e piumino blu cerca un accendino per una sigaretta che la aiuti a riflettere. Guardano lontano verso una città fredda e inospitale. Il mondo fuori è complesso e genera dispersione e isolamento, per entrambi difficile da sopportare.
Di seguito trovate la mia recensione pubblicata su State Of Mind:
http://www.stateofmind.it/2015/12/alaska-claudio-cupellini/
35470981_claudio-cupellini-racconta-una-scena-di-alaska-0
Legame e identità
Le identità dei due protagonisti si mostrano sin da subito fragili, sottili, indefinite, esposte al mondo esterno cui non riesco a mettere un confine chiaro e protettivo, che li aiuti sia a cogliere con entusiasmo le occasioni che la vita offre loro, sia a non farsi travolgere dalle stesse. Le identità fluttuanti caratterizzate da una profonda frammentazione interna e da sentimenti dolorosi che emergono silenziosi dalle loro storie, trovano nel loro legame una soluzione magica e improvvisa alla sofferenza e alla solitudine, al prezzo della possibilità di trovare entrambi una propria identità, solida e autonoma, e di sviluppare un dipendenza che li protegge dal rischio dell’abbandono ma solo finchè la loro unione è sentita solida, simbiotica, indissolubile e animata da forti emozioni.
Nelle loro storie vengono descritti alcuni nuclei di sofferenza centrali presenti nel Disturbo Borderline di Personalità, che spesso è il risultato proprio di storie di abbandono e trascuratezza, che cercano nelle relazioni e nella dipendenza il conforto al dolore dell’abbandono e una soluzione alla frammentazione interna che espone l’identità a ciclici sentimenti di vuoto e angoscia.

Stress psicologico da alte temperature!

Sono giorni duri per chi vive in città, lontano dalla brezza del mare o dall’aria leggera della montagna…

Stiamo assistendo in molte città italiane ad un innalzamento storico delle temperature e nelle ultime settimane il caldo e le strategie di sopravvivenza sono diventate argomento ingombrante in famiglia, tra gli amici, per strada, al supermercato e in tutti i luoghi in cui ci capita di vivere la nostra giornata. “L’ossessione” per il caldo (perdonate l’uso non clinico del termine) ha raggiunto una diffusione tale, tra persone e media, da meritare una riflessione psicologica per esplorare quali possano essere le ripercussioni psicologiche che tutti noi stiamo evidentemente subendo.

Per molti le alte temperature di questi giorni hanno innanzitutto effetti fisiologici importanti: sudorazione intensa, abbassamento di pressione, nausea, mal di testa, sensazione di affanno, tachicardia, gambe pesanti, giramenti di testa, bocca secca, spossatezza. Tutti questi effetti sono già sufficienti a creare un certo grado di malessere psicologico e di generale disagio in molti contesti sociali. Sudare in pubblico, sentirsi stanchi al mattino, fatica a concentrarsi in ufficio. Per chi è ansioso o per chi in generale pone molta attenzione ai segnali del corpo, alcuni dei “sintomi del caldo” sopracitati possono somigliare inoltre a sintomi d’ansia e generare un discreto stato di allarme. Ad esempio in persone che hanno vissuto l’esperienza del panico, alcune di queste reazioni fisiologiche possono facilmente essere mal-interpretate come “panico”, piuttosto che come “effetto normale delle alte temperature”. La mente va veloce, quindi  può essere utile fermarsi un attimo! Proviamo ad osservare il corpo, a riconoscere l’effetto che il caldo intenso sta producendo e cerchiamo un luogo fresco o con aria condizionata, prima di entrare in allarme..

Per chi è incline a vivere sbalzi d’umore, il caldo intenso e le sensazioni ad esso associate, possono richiamare invece pessimi ricordi e generare pensieri e sensazioni negative: sentirsi senza energie, non avere voglia di fare niente, sentimenti di impotenza, riduzione dell’appetito, brusca riduzione dell’interesse nelle attività piacevoli. Tutto questo può generare preoccupazione in chi ha vissuto ad esempio periodi di depressione, può innescare pensieri negativi su di sé e sulle proprie capacità e alimentare un circolo vizioso che aumenta il pessimismo ….quindi attenzione! Proviamo a considerare per un attimo i nostri vissuti valutando l’impatto che il caldo realmente sta avendo sul nostro livello di energia e sulle nostre risorse mentali. Forse varrà la pena innanzitutto aiutare il corpo a “tirarsi su”, mangiare molta frutta e verdura, bere molta acqua e se necessario assumere integratori di sali minerali, prima di rischiare di scivolare in veloci e catastrofiche autodiagnosi o innescare uno vero e proprio stato depressivo.

Chi al contrario è abituato a vivere con un umore “sopra le righe”, a riempire la giornata con molte attività, a non sentirsi mai stanco, a vivere tutto con molta energia ed entusiasmo, potrà vivere male gli effetti del caldo sul nostro comportamento e sulle attività quotidiane. Potrà forse vivere con rabbia questa insolita carenza di energie e gli invitabili effetti fisiologici. Il rischio è di diventare forse insofferente, insoddisfatto, irritabile, agitato. Per chi vive queste sensazioni forse vale la pena provare a rallentare. Ma sappiamo che non è per tutti facile fermarsi, ascoltare il corpo e accettare una temporanea riduzione di efficienza!

Infine c’è l’insonnia che in molti staranno vivendo a causa del caldo. Riposare bene è fondamentale per il nostro benessere psicologico. Per alcuni dormire male, poco o troppo, può determinare veri e propri sbalzi d’umore, irritabilità, sintomi d’ansia, per altri problemi di concentrazione, faticabilità, sonnolenza diurna, ma per tutti il sonno è fondamentale per mantenere un buon livello di energia fisica e mentale, una buona memoria, una buona concentrazione e uno stato di migliore integrazione tra il corpo e la mente.

Certamente ci sarà qualcuno che starà vivendo senza sofferenze e ripercussioni psicologiche questo anomalo innalzamento delle temperature, ma per tutti gli altri suggerisco qualche esercizio di rilassamento che possa aiutare ad arrivare forse più sereni alle ferie!

Scarica qui i file pdf con le indicazioni da seguire:

Esercizio Rilassamento 1 , Esercizio Rilassamento 2

AVVERTENZE!

Gli esercizi possono aiutare a ridurre l’arousal fisiologico e abbassare temporaneamente la temperatura corporea, ma non quella esterna!
Trovare un momento di calma e serenità, altrimenti può essere difficile trarne beneficio e conviene rimandare ad un altro momento.
Provare più volte, perché non è subito facile praticare esercizi di questo tipo se non si è mai provato ad usarli con una guida.