“Briciole. Storia di un’anoressia.”, di Alessandra Arachi

“E’ difficile credere all’anoressia mentale. Chi la osserva da fuori non riesce a concepire che il cibo possa diventare un nemico all’improvviso. Chi la vive non capisce più come sia possibile per le persone riuscire a mangiare senza pensieri, senza ansia, senza angoscia.”

L’incomprensione, la distanza e l’estraneità tra mondo interno e mondo esterno sembra il filo conduttore del celebre libro di Alessandra Arachi “Briciole”, pubblicato nel 1994 ma che resta ancora un valido riferimento per chi vive o voglia conoscere il mondo interiore di chi soffre di anoressia e bulimia nervosa.

“Briciole” è un testo diretto, spesso duro, che racconta senza giraci attorno i pensieri e le emozioni di chi vive ogni giorno la paura del cibo, del peso e di quello che rappresenta per la propria storia e per la propria identità. L’inizio dell’anoressia raccontata in prima persona dall’autrice è, come spesso accade, in adolescenza: il confronto faticoso con gli altri, il corpo che cambia improvvisamente e non sempre nel modo desiderato, l’osservazione attenta di ciò che i coetanei più apprezzano e poi all’improvviso l’idea che basti dimagrire per non sentirsi più esclusi!

Una semplice dieta. E in pochissimo tempo arrivano una pioggia di complimenti, sguardi complici, ogni giorno scorre più facile ad ogni chilo perso. Perché fermarsi? Così l’ammirazione degli altri diventa un nuovo nutrimento: insufficiente per il corpo, ma molto molto potente per la mente!

“In meno di un mese il cervello è riuscito a trasformare un pezzo di pane in un dannoso concentrato di zuccheri, l’olio in un accumulo irrecuperabile di grassi. Diffidavo di qualsiasi cosa commestibile, ma riservavo al cibo tutti i pensieri della mia giornata.”

Così inizia il calvario della protagonista: aver trovato nella magrezza una soluzione per sentirsi in controllo di se stessa e accettata dagli altri, farà della magrezza una vera e propria dipendenza.

Ma dove finiscono le emozioni dell’adolescente?

Vergogna, tristezza, rabbia, paura del giudizio, del rifiuto, di non valere abbastanza, di non essere amati, la solitudine, …tutto finisce in un piatto, che viene sistematicamente rifiutato e rispedito al mittente: negare le emozioni, la fatica, i problemi quotidiani e la realtà diventa una soluzione efficace che spegne le emozioni negative, finché queste non vengono completamente sommerse e dimenticate. Alessitimia.

L’impossibilità di dare un nome alle emozioni è uno dei sintomi più difficili e resistenti dei disturbi del comportamento alimentare, in cui le persone faticano a descrivere, riconoscere e sentire le emozioni connesse alle esperienze che vivono, pur mantenendo un’assoluta capacità di analizzare in dettaglio i pensieri, i comportamenti e talora le sensazioni fisiche che le hanno accompagnate.

In questa distanza tra razionalità estrema e azione pura, si collocano le emozioni, spesso negate e mal giudicate, fino al punto di essere considerate semplicemente un intralcio, un segnale inutile di debolezza, anziché il segnale di una sofferenza che meriterebbe di essere ascoltata e accolta.

Il cibo allora offre una soluzione immediata: la restrizione, il digiuno, il vomito, l’abbuffata diventano modi disfunzionali che permettono però di sentirsi “sotto controllo”, o meglio, “in controllo di se stessi e delle proprie emozioni”, più sicuri della propria immagine, più padroni della propria vita. Cosa succederebbe se lasciassimo andare un po’ di controllo?

Questo scenario semplicemente non viene  più esplorato e un circolo vizioso, disfunzionale ma rassicurante, prende il posto delle emozioni che non si riescono più neppure a nominare.

Nel libro viene descritta con grande delicatezza l’importanza di recuperare gradualmente questa esplorazione e la vitalità che porta con sé l’iniziare a sentire di nuovo. Briciole di emozioni positive possono aiutare lentamente ad affrontare briciole di emozioni che fanno più paura, per trovare insieme un modo più efficace di affrontarle.

Nutrire la resilienza e stimolare un senso di sé più forte e capace di affrontare le difficoltà è la grande sfida, iniziare a coltivare il dubbio che le emozioni non siano proprio così inutili e pericolose è il primo passo verso la guarigione.

“Briciole. Storie di un’anoressia”, di Alessandra Arachi (1994) Fetrinelli.

Percezione del pericolo e sicurezza: La teoria Polivagale

Per noi essere umani l’esplorazione dell’ambiente è stata in origine fonte di rischi e pericoli. Alla nascita il nostro sistema nervoso è immaturo e abbiamo bisogno di cure e protezione per sopravvivere. 
Sin da piccolissimi tuttavia, siamo in grado di intercettare i pericoli dell’ambiente e di segnalarli a chi ci è vicino attraverso il pianto, il lamento o vocalizzazioni. Questo permette di segnalare velocemente a chi deve proteggerci che siamo in pericolo e costituisce un basilare sistema di protezione dalla minaccia, che evolverà successivamente in età adulta e permetterà a noi stessi di valutare la presenza di pericoli e minacce, per scegliere le reazioni e i comportamenti per noi più protettivi. Questa antichissima abilità percettiva è stata definita da Stephan Porges “Neurocezione” ed è un vero e proprio “senso”, che orienta la nostra attenzione nell’ambiente e che ci permette di intercettare i pericoli al di sotto della soglia di consapevolezza, e che funziona quindi in modo istintivo e automatico. Proprio come l’olfatto ci permette di individuare odori piacevoli o sgradevoli e orienta le nostre scelte, allo stesso modo il Sistema di Neurocezione è online e attivo per aiutarci ad intercettare i pericoli il più velocemente possibile. Le strutture cerebrali che permettono questo risiedono nelle parti evolutivamente più antiche del cervello e sono collegate ai circuiti difensivi primordiali direttamente collegati ai comportamenti di attacco, fuga, congelamento e collasso.
Quando lo sviluppo dell’individuo segue una evoluzione lineare, caratterizzata da un percorso di graduale autonomia in un contesto che sia sufficientemente protettivo e al tempo stesso capace di offrire l’esplorazione necessaria del mondo, il sistema neurocettivo evolve di pari passo e permette all’individuo di imparare come orientare l’attenzione nell’ambiente in modo appropriato e adeguato alle circostanze; questo permette di esplorare con calma e sicurezza anche le situazioni nuove, lasciando attivo il sistema di difesa primordiale solo in situazioni più estreme e eccezionali di pericolo o minaccia alla vita.
Ma cosa succede quando lo sviluppo e la crescita di un individuo avvengono in un contesto non protettivo, trascurante o esso stesso fonte di pericoli? Come si adatta il nostro sistema emotivo quando restiamo vittime di abusi, violenze o maltrattamenti nella prima infanzia?
In questi casi molto spesso il nostro sistema neurocettivo evolve prendendo strade meno lineari: tende cioè a restare iperattivato durante tutta l’infanzia, finché il contesto di vita risulta pericoloso e fonte di minaccia, e conserva questa soglia di reattività anche in età adulta, esponendo la persona a reazioni di allerta eccessive e non necessariamente proporzionate al pericolo effettivo.  In questo tipo di sviluppo traumatico, il sistema neurocettivo si abitua ad intercettare il pericolo anche nelle relazioni, che sono stata la fonte primaria di minaccia, e blocca la possibilità di affidarsi e cercare sicurezza negli altri, a fronte di un costante stato di allerta che garantisce difesa e protezione.
Questo è comprensibilissimo dal punto di vista neurobiologico ed evolutivo: il sistema emotivo impara che è meglio restare in allerta perché il mondo è arbitrario e potenzialmente pieno di pericoli! Ma diventa meno comprensibile nei contesti sociali, nelle relazioni intime e, in generale, nella vita quotidiana, esponendo la persona già vittimizzata ad un ulteriore isolamento e distanza dagli altri che faticano a comprendere questo tipo di reazioni.
Questo circolo vizioso può essere modificato attraverso la psicoterapia e il sistema neurocettivo può re-imparare una nuova soglia di allerta verso l’ambiente e le relazioni, aiutando la persona a gestire meglio l’ansia e a cercare con più serenità il contatto e la vicinanza degli altri, senza vivere il contatto e l’intimità con terrore, ma cercando nelle relazioni che lo meritano, calore e sicurezza.
Per chi è interessato di seguito alcuni miei contributi pubblicati su StateOfMind, relativi alla Teoria Polivagale di Stephan Porges, il principale ricercatore che si è occupato di formulare una teoria complessa dell’evoluzione dei nostri sistemi difensivi da una prospettiva neurobiologica: 

Intervista con Stephen Porges: La Teoria Polivagale e le basi fisiologiche delle nostre intuizioni


 

A cosa servono le neuroscienze nella pratica clinica? Il modello di Stephen Porges


 
 

Buoni propositi e procrastinazione: Buon anno!

Gennaio si sa, è un mese di buoni propositi e ritrovate speranze: il Natale è passato, l’inverno segue una svolta in positivo e nuovi progetti, diete, attività sportiva, scelte di vita, prendono piede. Per ognuno il cambiamento segue strade e forme diverse, ma nessuno sembra riuscire a tirarsi completamente indietro di fronte alla tentazione di almeno una promessa fatta tra sé e sé.

P_20161230_112638Esplorare il mondo e noi stessi con curiosità e gentilezza è l’augurio che vorrei portare avanti per tutto l’anno, provando a dedicare attenzione e presenza ad ogni azione e momento delle mie giornate.
Quali sono i vostri?
Come tenete fede alle promesse?

I buoni propositi quasi sempre implicano un cambiamento, ma ogni cambiamento è azione e agire di solito è l’ultimo anello di una catena più lunga che sarebbe importante (di nuovo!) esplorare. In alcune situazioni agire è semplice come respirare, a volte invece diventa un’azione più complessa, che mette in gioco “parti” o aspetti di noi più nascosti che possono emergere improvvisamente e remarci contro. Qui si colloca la procrastinazione, una delle forme più tipiche in cui alcune parti di noi intervengono a boicottare progetti e cambiamenti importanti. Sia chiaro: rimandare una scelta, un’azione o un impegno non è di per sé patologico, né dannoso, né tanto meno un comportamento da curare. Spesso prendersi del tempo è tanto necessario, quanto saggio.

Ma cosa succede quando ci accorgiamo di aver procrastinato a lungo qualcosa che per noi era davvero importante? Cosa ci diciamo quando il tempo passa e non riusciamo ad iniziare quello che vorremmo?

Per ognuno di noi la procrastinazione ha motivazioni e modalità differenti, ma per tutti può diventare una grande fonte di stress poiché alimenta una visione negativa di se stessi come inconcludenti, inadeguati o incapaci, quando non addirittura falliti.

Innanzitutto la procrastinazione porta ad “evitare” l’azione che vorremmo intraprendere, quindi ha spesso (ma non solo) emozioni di ansia e paura sottostanti, che la guidano. Ma paura di cosa? a volte è semplicemente paura dell’ignoto e di ciò che non si conosce, più spesso paura di fallire, o magari paura del giudizio, paura di non essere abbastanza forti, capaci o bravi, paura di non farcela, paura di sbagliare e vergogna di mostrarsi inadeguati alla promessa fatta a se stessi o agli altri. Tutte emozioni normali, ma se molto intense certamente difficili da tollerare! Accanto a queste ed altre emozioni,  possono insinuarsi nella mente idee e pensieri inflessibili, che contribuiscono ad alimentare e mantenere il comportamento di evitamento:

l’idea di dover raggiungere i propri obiettivi in pochissimo (o nessun tempo!), a volte si mostra come un vero e proprio “pensiero magico” che rende molto frustrante l’incontro con la realtà;

l’idea di non poter fallire, a volte si mostra come un pensiero “tutto o nulla” e confondiamo il “fare un errore” con l’ “essere persone sbagliate”; chi inizierebbe mai qualcosa sapendo di non poter assolutamente fallire?

l’idea di dover raggiungere risultati eccellenti, “altrimenti non vale la pena iniziare”, a volte ci pone di fronte ad alti standard che, anziché motivarci, bloccano i nostri tentativi sul nascere e ci fanno chiudere in un perfezionismo astratto e irraggiungibile;

l’idea di non essere all’altezza, di essere fragili, di non avere pregi particolari o di essere un bluff, sono infine pensieri che possono colonizzare la mente e impedirci di intraprendere una sfida o un cambiamento. A volte esperienze negative o traumatiche del passato cristallizzano nella mente un’immagine di noi stessi negativa e stereotipata, che non tiene conto delle risorse personali e della nostra complessità come esseri umani, lasciandoci fermi in “idee irrazionali” e credenze su noi stessi che non mettiamo mai davvero in discussione.

Dove impariamo tutti questi pensieri, meriterebbe un approfondimento e una riflessione più ampia e personale, ma è certo che per ognuno la strada che queste idee percorrono è diversa. La propria famiglia d’origine è spesso la culla in cui queste idee vengono alla luce e prendono spazio nella mente, ma tutte le nostre esperienze di vita successive diventano luoghi in cui possono invece evolvere, nutrirsi di nuove occasioni e magari anche di un po’ di saggezza.

Detto questo, negoziare con le nostre parti emotive più inclini alla procrastinazione è compito arduo e spesso richiede un livello di energia, fisica e mentale, che non abbiamo o che non basta a contrastare paura, vergogna e tentazione di rinunciare. Sapere però che queste “parti” hanno dei pensieri e delle emozioni, può almeno aiutarci ad aprire un tavolo di trattativa e forse a non interrompere troppo a lungo le nostre esplorazioni!

Buon 2017!

Attaccamento e relazioni adulte: strategie! (III Parte)

Come possiamo riconoscere la nostra modalità di attaccamento? Cosa implica nelle nostre relazioni attuali? (LEGGI ANCHE precedenti contributi sul tema!)

Un primo concetto importante per comprendere meglio quale sia il nostro stile di attaccamento è l’idea che l’attaccamento, come necessità biologica innata, venga ricercato automaticamente nel caregiver di riferimento, permettendo così di adattarci a qualunque contesto relazionale e sociale. Come già sottolineato nei precedenti contributi sul tema, l’attaccamento nei primi mesi e anni di vita, garantisce la sopravvivenza stessa dell’individuo e dunque costituisce un bisogno irrinunciabile anche nei contesti più difficili e inadatti ad accogliere questo bisogno.

Un secondo concetto fondamentale è dunque l’idea che qualunque cosa facciamo per raggiungere e mantenere questo legame nell’infanzia sia non solo lecito e necessario, ma spesso anche “la cosa migliore da fare in quel momento. Piangere di più o non piangere mai, urlare più forte o mantenere un’espressione adeguata, aggredire il caregiver o prendersi cura di lui: tutto è funzionale se volto a garantirci quel legame, nel momento in cui ne abbiamo più bisogno.

Dati questi due punti di partenza, il corollario che ne deriva è che molto spesso le nostre modalità di attaccamento (o meglio di relazione) restano invariate in età adulta e non sempre integrate da altre modalità più adulte e funzionali. Insomma, continuiamo a cercare il partner o a crescere i nostri figli utilizzando quell’antica modalità di “legarci” agli altri come principale modus operandi e questo, in alcuni casi, può diventare anche molto disfunzionale. Questi pattern – che contengono emozioni, pensieri e comportamenti – tendono a stabilizzarsi nel tempo, pur non restando gli unici modi possibili di relazione, e vanno a costruire il nostro bagaglio di “reazioni” e soluzioni a determinati contesti relazionali (chiamati Internal Working Model o Modelli Operativi Interni).

attaccamento-bowlbyIn estrema sintesi, tutti gli stili di attaccamento muovono da un unico obiettivo: mantenere la massima vicinanza possibile al caregiver. Come viene raggiunto questo scopo?

Di seguito le principali modalità di attaccamento in cui ognuno di noi può facilmente ritrovarsi:

1  Attaccamento sicuro o B: si sviluppa quando da bambini si è potuto sperimentare un libero e incondizionato accesso alla figura di attaccamento, in condizioni di necessità, e questo  ha permesso di interiorizzare una idea dell’altro accogliente e positiva. Questo stile di attaccamento si manifesta in età adulta con una generale fiducia nel partner, con la capacità di vivere sia l’intimità, condividendo emozioni e bisogni profondi, sia la distanza senza angoscia o timori. Le relazioni frutto di un attaccamento sicuro consentono di creare e mantenere legami soddisfacenti, ricchi e capaci di adattarsi in modo flessibile al contesto e ai cambiamenti di vita, rispettando bisogni di vicinanza e accudimento, così come quelli di autonomia nei propri spazi di vita. Resta l’idea che l’altro possa rispondere ai nostri bisogni e restarci vicino, mentre proviamo ad esplorare il mondo e ad assumerci i rischi che questo comporta.

2 Attaccamento insicuro-evitante o A: si sviluppa quando da bambini si è vissuto in presenza di una figura di attaccamento rifiutante o completamente inaccessibile nel rispondere ai bisogni primari (es: genitore depresso, assente per lavoro, malato). Il bambino matura in questo caso una precoce ed eccessiva autonomia, con apparenti manifestazioni di distacco e di rifiuto-di-aiuto, “immunizzante” rispetto alla sofferenza di essere soli. La distanza relazionale diventa uno strumento per controllare queste emozioni e sperare in un contatto riducendo al minimo le richieste. Questo stile si manifesta in età adulta con atteggiamenti di ritiro, di isolamento e sfiducia totale nell’altro. Nelle relazioni emerge una profonda incapacità nel condividere bisogni, emozioni e pensieri in modo libero e autentico. Resta l’idea che l’intimità possa produrre un immediato allontanamento dell’altro e questo viene evitato a tutti i costi.

3 Attaccamento insicuro-ambivalente o C: si sviluppa quando da bambini si è vissuto in presenza di una figura di attaccamento imprevedibile nella sua presenza o capacità di rispondere ai bisogni primari. Quando si è esposti ciclicamente ad esperienze di intimità e improvvise perdite del legame, si sviluppa nel bambino una modalità di attaccamento basata sulla necessità di mantenere costante la vicinanza, sia in condizioni di necessità che in condizioni di sicurezza. Questo provoca sentimenti di colpa o eccessiva responsabilità in caso di rottura del legame. Questo stile si manifesta in età adulta con una fatica nel condividere bisogni ed emozioni in modo autentico e privo di paura, poiché non si riesce a prevedere come l’altro reagirà o meglio si teme l’improvviso abbandono. Resta l’idea illusoria di poter controllare la relazione attraverso la costante negazione dei propri bisogni, riducendo al minimo i rischi di un abbandono, ma oscillando sempre tra bisogno di dipendenza e ostentazione esagerata di autonomia. La colpa eccessiva è il rischio principale in caso di separazione.

4 Attaccamento disorganizzato-disorientato o D: si sviluppa quando da bambini si è sperimentata una condizione di costante minaccia nella relazione di attaccamento, con aggressioni attive o con una grave trascuratezza emotiva (es: genitori maltrattanti, abusanti, abbandono). In questo caso l’obiettivo non è più la ricerca di accettazione o cura, ma la sopravvivenza ad un caregiver minaccioso o pericoloso. La modalità di relazione alterna comportamenti tipici del sistema difensivo attacco, fuga o congelamento con l’obiettivo di “contenere” e ridurre le minacce provenienti dall’ambiente. Questo stile si manifesta in età adulta con una ricerca delle relazioni guidata dalla paura, con un’idea di reale pericolo, ed è condotta con modalità ostili e a loro volta minacciose. Resta l’idea che per sopravvivere nelle relazioni si debba attaccare prima di essere attaccati o che al contrario non c’è nulla da fare, in un mondo che è e resta pericoloso qualunque sia la nostra strategia.

Ogni stile di attaccamento può essere affiancato, in età adulta, da strategie e risorse apprese nel corso dell’esperienza e migliorate dall’incontro con persone significative con cui si riesca ad instaurare legami positivi e funzionali, che danno la possibilità di “rispondere” ad alcuni bisogni rimasti inascoltati e di “costruire”  strategie più efficaci per muoversi nelle relazioni traendone il meglio possibile. 

La psicoterapia è un’esperienza relazionale che può consentire questo cambiamento. Attraverso la comprensione di queste strategie, è possibile modificare o rendere meno automatici i nostri modelli operativi interni. Il cambiamento è possibile, ma solo all’interno di una relazione significativa, protettiva e rispettosa dei limiti relazionali necessari all’esplorazione serena di se stessi e dei propri bisogni.

Nota importante! Le nostre modalità di legarci agli altri non hanno nulla a che fare con l’amore o con la capacità di provare sentimenti profondi, ma solo con il modo in cui comunichiamo questo agli altri e riusciamo a creare con loro un legame autentico, profondo e libero da paure più antiche.

Lorenzini, Sassaroli “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità.” Raffaello Cortina Editore

Attaccamento e relazioni adulte (II parte)

*** Seconda Parte ***

Oltre al sistema di accudimento e di attaccamento (Leggi precedente articolo: Cosa condiziona le nostre relazioni? Attaccamento e relazioni adulte), come esseri umani, siamo dotati un terzo sistema biologico, molto importante per la nostra sopravvivenza, presente sin dalla nascita e che ci accompagna per tutta la vita, che è il sistema di difesa: si tratta di un sistema biologico più arcaico, che coinvolge l’apparato neurovegetativo e consente di mettere in atto reazioni di emergenza (attacco, fuga, svenimento e freezing) in situazioni di pericolo. Quando siamo molto piccoli le situazioni di pericolo attiveranno dapprima il sistema di attaccamento per richiedere protezione, ma se a questo non ci sarà risposta di cura da parte dell’adulto, allora l’allarme resterà così inteso da scatenare strategie di emergenza.
Ovviamente le condizioni per cui non avviene una risposta di accudimento adeguata possono essere molteplici: l’assenza dell’adulto, la trascuratezza, la difficoltà dell’adulto di sintonizzarsi con le necessità del bambino, la presenza di traumi e lutti che hanno colpito la famiglia o il contesto primario di appartenenza. E’ in queste primissime esperienze relazionali che si creeranno i presupposti dei nostri schemi adulti, che ci renderanno in grado di fidarci e affidarci a l’altro, di costruire una relazione.
Una delle condizioni più critiche per lo sviluppo in età adulta di relazioni affettive positive e soddisfacenti è l’aver vissuto durante l’infanzia in presenza di una figura di riferimento a sua volta minacciosa. In questo caso infatti il sistema di attaccamento si trova di fronte ad un paradosso da cui però dipende la propria sopravvivenza: come chiedere aiuto e conforto alla stessa persona che è fonte di pericolo ? L’esito di questo tipo di esperienze è spesso una “disorganizzazione” del sistema di attaccamento, che anche in età adulta non saprà sintonizzarsi con gli altri in modo armonico e positivo; la paura diventa emozione centrale in questa modalità di attaccamento e resta presente sia nella ricerca di intimità che nella lontananza. Il paradosso del sistema di attaccamento è risolto con il permanere di uno stato di allerta, molto costoso in termini emotivi, ma efficace nel garantire una buon percezione di controllo dell’ambiente e delle persone. Viene chiamata “fobia dell’attaccamento” e spesso è tanto più intensa quanto più il legame affettivo diventa per la persona significativo e importante.
Spesso si pensa a situazioni di violenza fisica, di abuso, di grave esplosività nel contesto familiare o di eventi avversi e traumatici che bloccano la possibilità di uno sviluppo sano e funzionale. Quello che meno spesso emerge, è che “fobia dell’attaccamento” può essere costruita giorno per giorno in contesti familiari che siamo abituati a considerare “normali ” e “sani”, ma che posso contenere elementi di minaccia meno evidenti ma altrettanto insidiosi: un clima estremamente critico e svalutante, la labilità o l’assenza di confini relazionali chiari, con poca possibilità di esprimersi come individui autonomi, o un contesto familiare percepiti come imprevedibile e incostante, rispetto alla capacità di corrispondere a bisogni affettivi importanti.
Senza entrare nel merito della psicopatologia e della diagnosi, è importante riconoscere in clinica come nella vita alcuni segnali di questa “fobia dell’attaccamento” che spesso si manifesta con comportamenti apparentemente incongruenti e irrazionali, che assumono un senso solo nel contesto relazionale in cui vengono manifestati:
–  la paura del legame viene spesso espressa con rabbia e rifiuto, allotanando l’altro e garantendo una distanza che permette di recuperare una maggiore sicurezza, controllo e autonomia;
– al contrario la paura può essere espressa con passività e arrendevolezza, mostrando totale adesioni e dipendenza con l’obiettivo di controllare l’aggressività dell’altro;
– infine la paura può comportare la fuga, l’evitamento della relazione e il ritiro.
A tutti può capitare di usare una di queste strategie in particolari situazioni o contesti di vita, ma quello che succede a chi ha costruito nel tempo una modalità relazionale basata sulla “fobia del legame” è di utilizzare tutte queste modalità in rapida successione e alternanza, mostrandosi talora incongruenti e imprevedibili a loro volta e provocando poi l’effettivo allontanamento dell’altro dalla relazione. Tutte queste modalità sono diretta espressione di un sistema di difesa molto attivo e disfunzionale, che – se non compreso e riconosciuto – rischia di inibire la possibilità di un legame affettivo sicuro basato sullo scambio, sulla fiducia e sulla condivisione emotiva.
Nessun essere umano spaventato è in grado di godere a pieno della presenza, dalla vicinanza e della sintonia dell’altro. Finché sentirà la necessità di difendersi, si difenderà rinunciando a tutto il resto.
Al prossimo contributo strategie e percorsi di cura validi per comprendere meglio questi schemi relazionali.

Cosa condiziona le nostre relazioni?

Attaccamento e relazioni adulte (Prima parte)

E’ esperienza molto comune quella di vivere nelle relazioni per noi importanti conflitti che tendono a riproporsi nel tempo e sempre nello stesso modo. Ad alcuni sarò capitato nella vita di non sentirsi mai capiti profondamente, ad altri di incontrare sempre persone strane,  ad altri ancora di trovarsi sempre soli di fronte alle difficoltà, ad altri di innamorarsi sempre delle persone sbagliate..
A volte le situazioni sembrano così ripetitive da sembrarci una vera e propria congiura!
Tutto quello che ci capita ciclicamente nella vita in periodi e contesti tra loro diversi è di solito fonte di grande sofferenza psicologica e ci lascia talora impotenti e sconsolati. Tuttavia assumendo un atteggiamento più “scientifico” e, se vogliamo, più razionale nei confronti della nostra sofferenza, potremmo iniziare considerare questi fatti  come fonti di informazioni utili su di noi e sulla nostra storia, un modo insomma per conoscerci meglio!
Ma partiamo dal principio.
scimmie attaccL’essere umano, come molti mammiferi, nasce completamente immaturo e bisognoso degli altri per sopravvivere. Nutrimento, conforto e protezione sono completamente delegati agli adulti che ha intorno e questa dipendenza è garantita da due sistemi biologici e innati capaci di attivare rispettivamente nel neonato la ricerca dell’altro e l’espressione dei suoi bisogni – chiamato sistema di attaccamento (John Bowlby)  e nell’adulto le reazioni adatte a soddisfarlisistema di accudimento. La spesso citata “sintonizzazione emotiva” ha a che fare innanzitutto con questa reciprocità biologica e l’attività risonante dei due sistemi oltre che garantire la sopravvivenza, costituisce una primordiale e importantissima esperienza di relazione.
Si inizia qui ad apprendere che i propri bisogni possono essere ascoltati oppure no, che di fronte al pericolo qualcuno interverrà a proteggerci oppure no, che quando stiamo male qualcuno ci soccorrerà, che possiamo esprimere bisogni e paure perché verranno accolte, che non saremo mai lasciati soli, ..
LINUS COPERTANon tutto si giocherà nei primissimi mesi di vita, ma al contrario i due sistemi resteranno attivi a lungo: il sistema di attaccamento si attiverà tutte le volte che il bambino sperimenterà paura o bisogno di cure e quello di accudimento risponderà regolando i bisogni e le emozioni più disturbanti. La capacità di esplorare il mondo e di “allontanarsi da casa” sarà paradossalmente tanto più sviluppata quanto più il bambino sentirà stabile e sicuro il suo legame di attaccamento. Se al contrario la possibilità di accedere al sistema di accudimento sarà intermittente, imprevedibile o addirittura impossibile, il sistema di esplorazione si bloccherà e resterà iper-attivato quello di attaccamento, finché sarà ripristinato il legame.
Questa attività di graduale e reciproca regolazione muove dai bisogni primari (fame, sete, protezione) e si estende alle emozioni primarie (paura, rabbia, tristezza, felicità, disgusto), fino a condizionare via via quelle più complesse (delusione, colpa, vergogna, ..), offrendo un aiuto esterno alla comprensione dei  propri stati mentali, altrimenti difficili da interpretare e comprendere.
Un esempio utile e di facile comprensione è quello delle fobie: nessuno di noi nasce con il terrore dei ragni, poiché si tratta di un animale non necessariamente pericoloso, almeno nelle specie più comunemente presenti nelle nostre case! Tuttavia la percezione di pericolosità del bambino può variare molto in base a come gli adulti intorno a lui hanno reagito alla vista di un ragno: un adulto che prende in mano il ragno e ci gioca, offrirà un’idea di non pericolosità, un adulto che inizierà a gridare o a scappare offrirà un’idea di pericolo, un adulto che porterà via il bambino dalla stanza offrirà forse l’idea che non ci si possa difendere o, più in generale, che non si possano affrontare la difficoltà, …e così via..
Lo stesso meccanismo di apprendimento avviene per la comprensione delle emozioni: può capitare quando siamo piccoli che gli adulti intorno a noi reagiscano alle nostre emozioni negandole, considerandole esagerate, preoccupandosi molto o, nel migliore dei casi, semplicemente accettandole come normali manifestazioni del nostro sentire in quel dato momento. Non sempre tuttavia questo avviene e il susseguirsi di “apprendimenti” negativi legati alle proprie emozioni può compromettere la capacità di comprendere e regolare i propri stati interni . Potremmo cioè diventare – come nel caos dei ragni – fobici verso le nostre stesse emozioni, iniziare a negarle, a giudicarle negativamente o a preoccuparci molto per esse, semplicemente ..perché così ci è stato insegnato!
La comprensione delle proprie emozioni è alla base della costruzione di relazioni adulte positive e soddisfacenti: ci rende capaci di dare e offrire il “nutrimento affettivo” necessario per mantenere un legame per noi importante, ci aiuta a distinguere quello che per noi è fonte di benessere e piacere e quello che invece può essere “tossico” e nocivo alla nostra sopravvivenza emotiva.
Al prossimo contributo riflessioni e strumenti per migliorare le nostre relazioni!

Resilienza e risorse personali: affrontare le negatività!

Non esistono due modi identici di reagire alla stessa situazione, positiva o negativa che sia.

Ognuno di noi arriva a quella situazione con una storia, con delle idee, emozioni e valori. Ognuno di noi ha il suo modo di chiedere o non chiedere aiuto.Ognuno di noi ha il suo modo specifico di cavarsela da solo.Ognuno di noi manifesta a suo modo agitazione e rabbia. Felicità e tristezza. Divertimento o noia. Ognuno di noi ha il suo modo particolare di restare immobile di fronte agli eventi.

Un-fiore-nella-rocciaNel tempo molti studiosi si sono occupati di studiare ed approfondire dettagliatamente i fattori che scatenano nell’uomo ferite e traumi emotivi, in tutte le età, con particolare attenzione all’infanzia. Quello che meno è stato oggetto di studio e di approfondimento è invece ciò che ci porta naturalmente a sopravvivere agli eventi negativi, a resistere, a trovare soluzioni, ad andare avanti nella vita.

La resilienza, insomma. Ma di che si tratta?

Sono state date diverse definizioni del termine “resilienza”, eccone alcune. In fisica la resilienza è la proprietà di un metallo di non spezzarsi, ma di acquistare una nuova forma dopo aver ricevuto un colpo non così forte da provocarne la rottura. Il termine resilienza comprende quindi il concetto di resistenza all’urto, di flessibilità, ma anche di malleabilità , intesa come capacità di cambiare forma, di adeguarsi alle situazioni mutevoli, di adattarsi. Nell’uomo la resilienza produce, di fronte agli stress e ai colpi della vita, risposte flessibili e funzionali che si adattano alle diverse circostanze e alle esigenze del momento, tanto che si può scoprire di avere questa qualità anche solo in un momento di emergenza, trovando dentro di sé forze innate che non si pensava di avere (Fernandez, Maslovaric 2011). Quando si parla di individui resilienti non si fa tuttavia riferimento a persone che possiedono il gene dell’invulnerabilità o dell’eroismo, ma piuttosto di persone che sono capaci di attraversare il dolore e le emozioni negative, che hanno le risorse per sentirle prima ancora che di affrontarle e che accettano la possibilità di soffrire nel presente, per trovare solo poi una soluzione positiva nel futuro.

La persona resiliente è orientata all’evoluzione, piuttosto che alla staticità a tutti i costi!

La persona resiliente conosce se stessa nelle situazioni migliori e in quelle peggiori, riconosce e accetta i propri limiti e risorse in modo sufficiente per sapere come muoversi nel mondo.

La persona resiliente ha l’inarrestabile tendenza a “salvare il salvabile”, a resistere di fronte alle avversità.

Secondo uno studio del 1999 del National Institute of Mental Health (NIMH) le caratteristiche di una persona resiliente sono: essere naturalmente socievole, coscienzioso, disponibile, emotivamente stabile e intelligente. Mentre le capacità apprese di risposta agli eventi critici che garantirebbero un buon grado di resilienza sono state identificate nella convinzione di poter influenzare gli eventi in corso e quindi di poter assumere un atteggiamento attivo e proattivo per agire in modo concreto; nella capacità di sentirsi profondamente appassionati e coinvolti nelle situazioni negative da affrontare; nel viversi come protagonista, al centro delle proprie decisioni  e con il “potere” di scegliere, nei limiti personali e ambientali, i modi per raggiungere le proprie mete.

La resilienza, come molte delle nostre capacità, non è tuttavia stabile nel tempo.

Può variare, anche molto. Può crescere o diminuire e si nutre di alcune importantissime variabili: la stima di sé, l’affetto e l’amicizia, la scoperta del senso della vita e l’impressione di poter controllare la propria esistenza (Vanistendael, 2000).

Ovviamente le caratteristiche che rendono ognuno di noi più o meno resiliente si intrecciano alle relazioni affettive della nostra vita, al contesto sociale in cui viviamo e all’esposizione a situazioni traumatiche: tutte queste variabili possono alterare molto le nostre predisposizioni caratteriali.

L’idea forse centrale nella resilienza è che queste caratteristiche possono essere recuperate, se perse, potenziate e favorite da nuove situazioni di vita, da nuove relazioni e dal nostro stesso metterci positivamente in gioco tutte le volte che ne abbiamo la possibilità.

Liberamente tratto da: “Traumi psicologici, ferite dell’anima” (2011), di Isabel fernandez, Giada Maslovaric, Miten Veniero Galvagni.

 

Disturbo Bipolare: trattamento e psicoeducazione.

Il “Manuale di Psicoeducazione per il disturbo bipolare” di Colom e Vieta (2004) offre uno strumento molto efficace per affrontare e comprendere uno dei disturbi psichiatrici più complessi e, se non trattati, invalidanti per i pazienti che ne soffrono.

I disturbi dell’umore, di tipo bipolare, sono caratterizzati dalla presenza di un deficit a carico del sistema limbico dei meccanismi che regolano l’umore e la capacità di adattarsi in modo armonico e funzionale ad eventi esterni positivi o negativi. L’alterazione riguarda la produzione di neurotrasmettitori specifici (dopamina, serotonina, noradrenalina, acetilcolina) che sono fondamentali nel determinare le nostre reazioni emotive e la successiva capacità di ripristinare l’omeostasi corporea e affettiva. In condizioni normali il sistema limbico funge da “termostato” e segnala la necessità di incrementare l’umore, le attività, l’energia per affrontare alcune situazioni o di ridurre l’investimento energetico, le performance e la velocità con cui ci muoviamo e prendiamo decisioni per meglio adattarsi alle nostre necessità. Nei disturbi bipolari questo meccanismo è talora deficitario e inefficace nel consentire una buona regolazione degli stati affettivi, delle emozioni e delle scelte che ne derivano.

manuale colom vietaChi soffre di disturbo bipolare tende a vivere lunghi periodi di umore depresso, caratterizzato da pensieri negativi, stanchezza fisica, anedonia, astenia, insonnia, ansia, che si alternano a periodi mania, caratterizzati da una espansività emotiva, pensieri di grandiosità, incremento delle attività quotidiane e delle performance fisiche e lavorative, ridotto bisogno di sonno, tachipsichismo e talora ansia e aggressività associate. Tutti noi ci troviamo a vivere periodi simili a quelli descritti finora, magari quando eventi di vita stressanti condizionano il nostro umore o semplicemente abbiamo giornate “no” o giornate in cui sentiamo una particolare energia positiva. Tuttavia le condizioni per porre una diagnosi di disturbo bipolare riguardano alcuni aspetti importanti di queste fasi, quali durata, intensità e compromissione delle normali attività quotidiane, che possono aiutare a differenziare un normale andamento dell’umore da un’alternanza problematica di stati affettivi opposti. Anche l’abuso di sostanze psicotrope o la presenza di alcune patologie organiche possono causare sintomi simili al disturbo bipolare (ad es: ipo o iper tiroidismo, assunzione di farmaci, ipertensione,..), dunque solo uno specialista può porre questa diagnosi, valutando attentamente la presenza di eventuali eventi di vita scatenanti, la storia clinica specifica e l’anamnesi del paziente in consultazione.

(Per maggiori informazioni sui principali sottotipi di disturbi dell’umore, clicca i link di seguito: Disturbi depressivi unipolari disturbi bipolari.)

Ma tornando al manuale, l’idea principale che guida gli autori riguarda un concetto importantissimo e non sempre da tutti condiviso: il diritto ad essere informati, come primo passo per un percorso di cura. Quello che sarebbe un diritto inviolabile di ogni paziente, non solo in psichiatria, ma in tutte le branche mediche, diventa per gli autori molto di più: diventa esso stesso uno strumento di comprensione e di cura in grado di aiutare le persone a gestire un disturbo così complesso, riducendo sintomi e ricadute in modo significativo. Questo determina il miglioramento del decorso, poiché ormai si sa il disturbo bipolare non trattato tende a peggiorare negli anni – sia rispetto all’intensità  alla durata delle fasi che rispetto ai sintomi manifestati – fino a provocare grave menomazione della vita del paziente.

Il percorso che propongono gli autori e un programma di gruppo, composto di 21 incontri da 2 ore ciascuno, in cui 8-12 pazienti vengono informati e guidati nella comprensione dei disturbi dell’umore, dapprima con nozioni generali e poi successivamente con l’apprendimento di tecniche personalizzate per la comprensione della loro specifica condizione clinica. Tutti i partecipanti al gruppo, sono seguiti farmacologicamente da un medico psichiatra e devono necessariamente trovarsi in una fase eutimica del tono dell’umore, di equilibrio tra depressione e mania.

Di seguito in sintesi gli obiettivi delle diverse sedute del trattamento di gruppo, che possano essere un riferimento a terapeuti che vogliano intraprendere un lavoro terapeutico i questo, ma anche a utenti che abbiano ricevuto questa diagnosi e vogliano fare richiesta di una trattamento di gruppo così orientato nella loro zona.

Prime sei sessioni – Blocco 1:  Coscienza di malattia

– che cos’è la malattia bipolare?
– Fattori scatenanti ed eziologici?
– Sintomi mania? Sintomi depressivi?
– prognosi e decorso
Blocco 2: Aderenza farmacologica
trattamenti a disposizione oggi
– analisi necessarie (litio, carbamazepina,..)
– gravidanza, consulenza genetica
– terapie alternative
– rischi associati all’interruzione del trattamento
Blocco 3:  Abuso di sostanze
effetto delle sostanze psicoattive nel peggioramento della malattia
– effetti diretti delle sostanze sul manifestarsi del disturbo
– sostanze da evitare
Blocco 4: Individuazione precoce nuovi episodi
– segnali  prodromici di mania e depressione
– cosa fare se si riconosce l’inizio di un nuova fase
Blocco 5:  Regolarità dello stile di vita
regolarizzare sonno, alimentazione, attività fisica
– tecniche per il controllo dello stress
– strategie di soluzione dei problemi
– migliore gestione dell’emotività

Stress Post Traumatico e Disturbo Ossessivo: un caso clinico

Un recente studio olandese (Nijdam et al, 2013) descrive il caso di un paziente con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo (DOC) ad insorgenza post traumatica; la diagnosi e le prospettive di lavoro cambiano radicalmente quando i sintomi sono reattivi ad eventi traumatici e un trattamento che ne tenga conto è più sicuro e più efficace per la remissione totale dei sintomi.

Sia nel disturbo ossessivo che nel disturbo post-traumatico c’è una tendenza al controllo, che può manifestarsi nel primo caso con rituali compulsivi e nel secondo con evitamento delle situazioni temute o con uno stato di ipervigilanza sull’ambiente. In una quadro traumatico complesso in cui si manifestano entrambe le sintomatologie, il DOC potrebbe avere la funzione adattiva di “regolare le emozioni negative” legate al trauma, cioè di ridurne l’intensità, attraverso l’uso di rituali che sono completamente sotto controllo della persona e che aiutano la mente a focalizzarsi nel presente, inibendo l’attivazione delle intrusioni e dei ricordi traumatici.
Come sempre la mente si adatta al meglio che può, è importante capire questi meccanismi di adattamento e “disinnescarli” nel presente.
….CLICCA QUI e Continua a leggere l’articolo su STATE OF MIND!
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Memoria, olfatto e … la prospettiva di Anton Egò!

Anton EgòPer chi avesse visto il celebre film d’animazione Ratatouille, storia di un topolino parigino, Remy, che vuole diventare chef,  non sarà difficile intuire il valore e l’importanza della “prospettiva” nelle nostre capacità di giudicare un’esperienza, fosse anche un piatto di ratatouille! Il celebre e temutissimo critico Antòn Egò invitato all’assaggio del piatto di Remy, vivrà un vero e proprio flash back che lo farà magicamente tornare alla sua infanzia, agli odori della sua vecchia casa, alle immagini della madre che cucina per lui e ..alle emozioni antichissime che quel piatto ha come per magia risvegliato.

Meravigliosa sintesi di moltissime ricerche sul legame tra olfatto e memoria, la “prospettiva” citata da Egò ci aiuta a capire quanto un odore possa condizionare i nostri giudizi, soprattutto se le emozioni che sprigiona sono molto intense.

Le neuroscienze hanno ormai ampiamente descritto i circuiti neurali capaci di immagazzinare ricordi significativi della nostra vita: sistema limbico, ippocampi, cortecce temporo-laterali e occipitali sono tutti immediatamente attivati da stimoli olfattivi per noi salienti, ma il legame con gli odori risulta ancora più evidente quando parole o stimoli solamente verbali riescono ad attivare, oltre alle cortecce orbito-frontali, anche parte delle stesse aree olfattive in assenza dell’odore (Arshamian, 2012).

Questi dati ci dicono qualcosa di molto importante:  per quanto alcuni ricordi siano stati brutalmente allontanati in un remoto angolino della nostra mente, le sensazioni fisiche possono essere recuperate se ci troviamo per un attimo a “respirare la stessa aria”.

Un recente lavoro pubblicato da un gruppo di ricercatori giapponesi (Masaoka et al, 2012), si è occupato di indagare il legame tra respirazione lenta ed emozioni attraverso l’utilizzo di odori legati alla memoria autobiografica. L’ipotesi è che attraverso la respirazione le informazioni olfattive arrivino direttamente alle strutture limbiche legate alla memoria  e che respiro dopo respiro queste informazioni siano in grado di attivare il sistema limbico e ri-svegliare letteralmente i ricordi e le emozioni associate a quello specifico odore. I risultati sono chiari: quando viene inalato l’odore collegato ad una qualche esperienza di vita, il respiro si fa più lento e profondo, l’arousal fisico ed emotivo più intensi e aumenta infine persino il dettaglio con cui viene ricordata l’esperienza. I soggetti più ansiosi sono inclini a vivere i flash back in modo più intenso ed intrusivo.

L’esperimento descrive in realtà un’esperienza molto comune e piuttosto spontanea che tutti noi abbiamo avuto almeno una volta nella vita: viaggiare nel tempo dopo aver sentito un odore!

Sapere che c’è un meccanismo neurale specifico che permette questo è tuttavia interessante sia dal punto di vista scientifico, che terapeutico. L’EMDR così come molte tecniche di rievocazione di memorie traumatiche, possono avvalersi di questi meccanismi neurali per ricostruire, partendo da appunto da un odore, molti aspetti dell’evento e favorire così un più rapido recupero delle emozioni e dei pensieri ad esso collegati, che possono diventare materiale importantissimo da discutere in terapia.

Anton Egò2

Molti ricordi traumatici vengono infatti dimenticati o completamente “rimossi”, ma spesso  il loro potenziale stressante rimane congelato nel corpo e nella mente, sotto forma di sensazioni fisiche sgradevoli e disturbanti, che sono spesso proprio i sintomi lamentati da chi richiede una consultazione.

Questi pattern tendono a riattivarsi in modo identico al passato quando si entra in contatto con uno stimolo qualunque associato a quell’esperienza:  può succedere così di sognare ad occhi aperti di fronte all’odore di minestrina o spaventarci a morte di fronte ad un profumatissimo mazzo di fiori!

Camilla Marzocchi

Arshamian, A., Iannilli, E., Gerber , J.C., Willander, J.,Persson, J., Han-Seok Seo, Hummel, T., Larsson, M. The functional neuroanatomy of odor evoked autobiographical memories cued by odors and words, Neuropsychologia (2012), http://dx.doi.org/10.1016/j.neuropsychologia.2012.10.023

Masaoka, Y, Sugiyama, H., Katayama, A., Kashiwagi, M., and Homma, I. Slow Breathing and Emotions Associated with Odor-Induced Autobiographical Memories. Chemical Senses, (2012) 37: 379–388.