Dovevi reagire! Sopravvissuti sotto attacco

Sono ormai note le reazioni emotive più comuni legate allo stress post traumatico: allerta, ipervigilanza, flashback, reazioni di evitamento, immagini intrusive degli eventi traumatici, distacco emotivo, dissociazione, alterazioni della coscienza. Ma la società è davvero pronta a capire?
Ogni essere umano è unico e speciale nelle sue caratteristiche, nella sua evoluzione e nella sua irripetibile storia. Tuttavia di fronte a pericoli potenzialmente mortali diventiamo tutti uguali e riveliamo un range molto più limitato di reazioni possibili: l’attacco, la fuga, l’immobilizzazione (congelamento o resa), lo svenimento. Ognuna di queste reazioni di fronte ad un pericolo di vita è guidata da pattern automatici che il nostro cervello rettiliano – il più antico e più legato alla sopravvivenza – mette in atto senza la mediazione della corteccia, e quindi senza una nostra capacità decisionale, intenzionale e volontaria, e seguendo una precisa gerarchia emergenziale: per un pericolo di vita ancora affrontabile il nostro cervello rettiliano ci “suggerisce” di provare a combattere e reagire, se il pericolo è inaffrontabile le gambe si mettono in moto per fuggire, se il pericolo è soverchiante e non possiamo fare più nulla per evitarlo il sistema nervoso ci spegne letteralmente e restiamo immobili, per restare nascosti (congelamento) o per non sentire il dolore o il terrore estremo della morte (resa o svenimento).

La ragione di questa organizzazione automatica e gerarchica del nostro sistema nervoso è semplice: se siamo in emergenza l’elaborazione cosciente delle informazioni sensoriali sarebbe troppo lenta per metterci in salvo! Per questa ragione l’evoluzione ha lasciato nel nostro sistema nervoso la possibilità di avere reazioni emotive e comportamentali istintive e non mediate dal ragionamento. Fin qui tutto chiaro e ampiamente documentato dalle neuroscienze e in particolare nel lavoro di ricerca del Dott. Stephan Porges nella sua Teoria Polivagale (vedi altri contributi sul tema).
Ma quali risposte siamo davvero in grado di accettare, culturalmente ed emotivamente?
Una volta superato il pericolo di vita e rientrati in un contesto di sicurezza fisica, relazionale ed emotiva la mente riprende il suo funzionamento regolare, reimmettendo la nostra coscienza nel flusso abituale di pensieri, ragionamenti, emozioni, comportamenti e reazioni che normalmente regolano la nostra quotidianità, le nostre scelte e relazioni. A questo punto la complessità  che ci contraddistingue come esseri umani emerge, lasciando spazio alla riflessione, alla valutazione di quello che ci è accaduto e al giudizio sulla qualità e sul valore delle nostre reazioni. Dimentichiamo che abbiamo delle reazioni innate e uguali per tutti i mammiferi e iniziamo a giudicare positivamente o negativamente noi stessi in base alla forza mostrata nel combattere, alla velocità con cui siamo scappati via o più spesso nell’autobiasimo rispetto a quello che avremmo dovuto o potuto fare. Un ultimo tentativo della  mente di recuperare controllo su quello che ci è accaduto, che si rivela tuttavia e troppo spesso un ostacolo alla guarigione e al superamento del trauma.
La gazzella una volta fuggita dal leone, torna a cercare cibo e ad unirsi al suo branco senza ricevere giudizi e senza tormentare se stessa per essere stata vittima di un attacco. Noi no, e questo complica un bel po’ le cose.
Nell’intervista a Stephan Porges che segue, recentemente pubblicata su The Guardian, emerge una riflessione importante: quali reazioni umane sono davvero tollerate dalla nostra società? La comprensione del nostro funzionamento mentale può affrancarci dal giudizio o dall’autobiasimo?
The Guardian: Intervista a Stephan Porges “Survivors are blamed because they don’t fight”
La nostra cultura occidentale sembra premiare le risposte di attacco e le reazioni di sfida, riesce appena a tollerare le reazioni di fuga come ultima ratio, ma mostra un pericoloso e inspiegabile disprezzo per le reazioni di sottomissione e resa, altrettanto automatiche e necessarie come le prime due. Anzi, la sottomissione e la resa sono le uniche reazioni salva-vita quando siamo davvero in condizioni estreme, inevitabili e insostenibili. Sottomettersi, arrendersi, non reagire sono in certi casi la reazione più saggia possibile. Ma purtroppo non siamo gazzelle.
Allora i sopravvissuti che non hanno potuto lottare o che non hanno trovato una via di fuga diventano per la collettività persone da giudicare: deboli, fragili, inette, senza forza di volontà o che addirittura volevano intimamente e inconsciamente vivere il trauma che ha segnato la loro vita! Un clamoroso errore di valutazione, comune tra i clinici come tra i non addetti ai lavori.
Il risultato culturale – che poi diventa clinico e sintomatologico per i sopravvissuti – si traduce in una trappola di vergogna e di colpa davvero difficili da elaborare e spesso peggiori, perché più duraturi, degli eventi traumatici che pur hanno attraversato.
Questo giudizio è ad oggi culturalmente inaccettabile oltre che scientificamente scorretto, sebbene racconti anch’esso la natura umana di fronte al dolore: il rifiuto della violenza, la paura del dolore fisico e mentale, l’impossibilità di ammettere le manifestazioni più crudeli dell’essere umano, in una parola: la negazione, del trauma e dei suoi effetti.
De-responsabilizzare le vittime è il primo passo per aiutarle a capire se stesse e a riappropriarsi della propria storia, per diventare consapevoli del proprio ruolo nel mondo e nel trauma vissuto, ma senza dubbi sulla natura delle proprie necessarie risposte di sopravvivenza.
Per questo è importante e cruciale promuovere una cultura del trauma che spieghi le reazioni, che insegni a rileggere le reazioni dei sopravvissuti in una chiave chiara e scevra di interpretazioni: siamo tutti uguali di fronte alla minaccia.
Buona lettura!
 
Approfondimenti:
Stephan Porges (2014). La Teoria Polivagale: fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione. Giovanni Fioriti  Editore.
Robert Sapolsky (2018) Perché alle Zebre non Viene l’Ulcera? La più istruttiva e divertente guida allo stress e alle malattie che produce. Con tutte le soluzioni per vincerlo. Ed. Castelvecchi

Percezione del pericolo e sicurezza: La teoria Polivagale

Per noi essere umani l’esplorazione dell’ambiente è stata in origine fonte di rischi e pericoli. Alla nascita il nostro sistema nervoso è immaturo e abbiamo bisogno di cure e protezione per sopravvivere. 
Sin da piccolissimi tuttavia, siamo in grado di intercettare i pericoli dell’ambiente e di segnalarli a chi ci è vicino attraverso il pianto, il lamento o vocalizzazioni. Questo permette di segnalare velocemente a chi deve proteggerci che siamo in pericolo e costituisce un basilare sistema di protezione dalla minaccia, che evolverà successivamente in età adulta e permetterà a noi stessi di valutare la presenza di pericoli e minacce, per scegliere le reazioni e i comportamenti per noi più protettivi. Questa antichissima abilità percettiva è stata definita da Stephan Porges “Neurocezione” ed è un vero e proprio “senso”, che orienta la nostra attenzione nell’ambiente e che ci permette di intercettare i pericoli al di sotto della soglia di consapevolezza, e che funziona quindi in modo istintivo e automatico. Proprio come l’olfatto ci permette di individuare odori piacevoli o sgradevoli e orienta le nostre scelte, allo stesso modo il Sistema di Neurocezione è online e attivo per aiutarci ad intercettare i pericoli il più velocemente possibile. Le strutture cerebrali che permettono questo risiedono nelle parti evolutivamente più antiche del cervello e sono collegate ai circuiti difensivi primordiali direttamente collegati ai comportamenti di attacco, fuga, congelamento e collasso.
Quando lo sviluppo dell’individuo segue una evoluzione lineare, caratterizzata da un percorso di graduale autonomia in un contesto che sia sufficientemente protettivo e al tempo stesso capace di offrire l’esplorazione necessaria del mondo, il sistema neurocettivo evolve di pari passo e permette all’individuo di imparare come orientare l’attenzione nell’ambiente in modo appropriato e adeguato alle circostanze; questo permette di esplorare con calma e sicurezza anche le situazioni nuove, lasciando attivo il sistema di difesa primordiale solo in situazioni più estreme e eccezionali di pericolo o minaccia alla vita.
Ma cosa succede quando lo sviluppo e la crescita di un individuo avvengono in un contesto non protettivo, trascurante o esso stesso fonte di pericoli? Come si adatta il nostro sistema emotivo quando restiamo vittime di abusi, violenze o maltrattamenti nella prima infanzia?
In questi casi molto spesso il nostro sistema neurocettivo evolve prendendo strade meno lineari: tende cioè a restare iperattivato durante tutta l’infanzia, finché il contesto di vita risulta pericoloso e fonte di minaccia, e conserva questa soglia di reattività anche in età adulta, esponendo la persona a reazioni di allerta eccessive e non necessariamente proporzionate al pericolo effettivo.  In questo tipo di sviluppo traumatico, il sistema neurocettivo si abitua ad intercettare il pericolo anche nelle relazioni, che sono stata la fonte primaria di minaccia, e blocca la possibilità di affidarsi e cercare sicurezza negli altri, a fronte di un costante stato di allerta che garantisce difesa e protezione.
Questo è comprensibilissimo dal punto di vista neurobiologico ed evolutivo: il sistema emotivo impara che è meglio restare in allerta perché il mondo è arbitrario e potenzialmente pieno di pericoli! Ma diventa meno comprensibile nei contesti sociali, nelle relazioni intime e, in generale, nella vita quotidiana, esponendo la persona già vittimizzata ad un ulteriore isolamento e distanza dagli altri che faticano a comprendere questo tipo di reazioni.
Questo circolo vizioso può essere modificato attraverso la psicoterapia e il sistema neurocettivo può re-imparare una nuova soglia di allerta verso l’ambiente e le relazioni, aiutando la persona a gestire meglio l’ansia e a cercare con più serenità il contatto e la vicinanza degli altri, senza vivere il contatto e l’intimità con terrore, ma cercando nelle relazioni che lo meritano, calore e sicurezza.
Per chi è interessato di seguito alcuni miei contributi pubblicati su StateOfMind, relativi alla Teoria Polivagale di Stephan Porges, il principale ricercatore che si è occupato di formulare una teoria complessa dell’evoluzione dei nostri sistemi difensivi da una prospettiva neurobiologica: 

Intervista con Stephen Porges: La Teoria Polivagale e le basi fisiologiche delle nostre intuizioni


 

A cosa servono le neuroscienze nella pratica clinica? Il modello di Stephen Porges


 
 

Attaccamento e relazioni adulte: strategie! (III Parte)

Come possiamo riconoscere la nostra modalità di attaccamento? Cosa implica nelle nostre relazioni attuali? (LEGGI ANCHE precedenti contributi sul tema!)

Un primo concetto importante per comprendere meglio quale sia il nostro stile di attaccamento è l’idea che l’attaccamento, come necessità biologica innata, venga ricercato automaticamente nel caregiver di riferimento, permettendo così di adattarci a qualunque contesto relazionale e sociale. Come già sottolineato nei precedenti contributi sul tema, l’attaccamento nei primi mesi e anni di vita, garantisce la sopravvivenza stessa dell’individuo e dunque costituisce un bisogno irrinunciabile anche nei contesti più difficili e inadatti ad accogliere questo bisogno.

Un secondo concetto fondamentale è dunque l’idea che qualunque cosa facciamo per raggiungere e mantenere questo legame nell’infanzia sia non solo lecito e necessario, ma spesso anche “la cosa migliore da fare in quel momento. Piangere di più o non piangere mai, urlare più forte o mantenere un’espressione adeguata, aggredire il caregiver o prendersi cura di lui: tutto è funzionale se volto a garantirci quel legame, nel momento in cui ne abbiamo più bisogno.

Dati questi due punti di partenza, il corollario che ne deriva è che molto spesso le nostre modalità di attaccamento (o meglio di relazione) restano invariate in età adulta e non sempre integrate da altre modalità più adulte e funzionali. Insomma, continuiamo a cercare il partner o a crescere i nostri figli utilizzando quell’antica modalità di “legarci” agli altri come principale modus operandi e questo, in alcuni casi, può diventare anche molto disfunzionale. Questi pattern – che contengono emozioni, pensieri e comportamenti – tendono a stabilizzarsi nel tempo, pur non restando gli unici modi possibili di relazione, e vanno a costruire il nostro bagaglio di “reazioni” e soluzioni a determinati contesti relazionali (chiamati Internal Working Model o Modelli Operativi Interni).

attaccamento-bowlbyIn estrema sintesi, tutti gli stili di attaccamento muovono da un unico obiettivo: mantenere la massima vicinanza possibile al caregiver. Come viene raggiunto questo scopo?

Di seguito le principali modalità di attaccamento in cui ognuno di noi può facilmente ritrovarsi:

1  Attaccamento sicuro o B: si sviluppa quando da bambini si è potuto sperimentare un libero e incondizionato accesso alla figura di attaccamento, in condizioni di necessità, e questo  ha permesso di interiorizzare una idea dell’altro accogliente e positiva. Questo stile di attaccamento si manifesta in età adulta con una generale fiducia nel partner, con la capacità di vivere sia l’intimità, condividendo emozioni e bisogni profondi, sia la distanza senza angoscia o timori. Le relazioni frutto di un attaccamento sicuro consentono di creare e mantenere legami soddisfacenti, ricchi e capaci di adattarsi in modo flessibile al contesto e ai cambiamenti di vita, rispettando bisogni di vicinanza e accudimento, così come quelli di autonomia nei propri spazi di vita. Resta l’idea che l’altro possa rispondere ai nostri bisogni e restarci vicino, mentre proviamo ad esplorare il mondo e ad assumerci i rischi che questo comporta.

2 Attaccamento insicuro-evitante o A: si sviluppa quando da bambini si è vissuto in presenza di una figura di attaccamento rifiutante o completamente inaccessibile nel rispondere ai bisogni primari (es: genitore depresso, assente per lavoro, malato). Il bambino matura in questo caso una precoce ed eccessiva autonomia, con apparenti manifestazioni di distacco e di rifiuto-di-aiuto, “immunizzante” rispetto alla sofferenza di essere soli. La distanza relazionale diventa uno strumento per controllare queste emozioni e sperare in un contatto riducendo al minimo le richieste. Questo stile si manifesta in età adulta con atteggiamenti di ritiro, di isolamento e sfiducia totale nell’altro. Nelle relazioni emerge una profonda incapacità nel condividere bisogni, emozioni e pensieri in modo libero e autentico. Resta l’idea che l’intimità possa produrre un immediato allontanamento dell’altro e questo viene evitato a tutti i costi.

3 Attaccamento insicuro-ambivalente o C: si sviluppa quando da bambini si è vissuto in presenza di una figura di attaccamento imprevedibile nella sua presenza o capacità di rispondere ai bisogni primari. Quando si è esposti ciclicamente ad esperienze di intimità e improvvise perdite del legame, si sviluppa nel bambino una modalità di attaccamento basata sulla necessità di mantenere costante la vicinanza, sia in condizioni di necessità che in condizioni di sicurezza. Questo provoca sentimenti di colpa o eccessiva responsabilità in caso di rottura del legame. Questo stile si manifesta in età adulta con una fatica nel condividere bisogni ed emozioni in modo autentico e privo di paura, poiché non si riesce a prevedere come l’altro reagirà o meglio si teme l’improvviso abbandono. Resta l’idea illusoria di poter controllare la relazione attraverso la costante negazione dei propri bisogni, riducendo al minimo i rischi di un abbandono, ma oscillando sempre tra bisogno di dipendenza e ostentazione esagerata di autonomia. La colpa eccessiva è il rischio principale in caso di separazione.

4 Attaccamento disorganizzato-disorientato o D: si sviluppa quando da bambini si è sperimentata una condizione di costante minaccia nella relazione di attaccamento, con aggressioni attive o con una grave trascuratezza emotiva (es: genitori maltrattanti, abusanti, abbandono). In questo caso l’obiettivo non è più la ricerca di accettazione o cura, ma la sopravvivenza ad un caregiver minaccioso o pericoloso. La modalità di relazione alterna comportamenti tipici del sistema difensivo attacco, fuga o congelamento con l’obiettivo di “contenere” e ridurre le minacce provenienti dall’ambiente. Questo stile si manifesta in età adulta con una ricerca delle relazioni guidata dalla paura, con un’idea di reale pericolo, ed è condotta con modalità ostili e a loro volta minacciose. Resta l’idea che per sopravvivere nelle relazioni si debba attaccare prima di essere attaccati o che al contrario non c’è nulla da fare, in un mondo che è e resta pericoloso qualunque sia la nostra strategia.

Ogni stile di attaccamento può essere affiancato, in età adulta, da strategie e risorse apprese nel corso dell’esperienza e migliorate dall’incontro con persone significative con cui si riesca ad instaurare legami positivi e funzionali, che danno la possibilità di “rispondere” ad alcuni bisogni rimasti inascoltati e di “costruire”  strategie più efficaci per muoversi nelle relazioni traendone il meglio possibile. 

La psicoterapia è un’esperienza relazionale che può consentire questo cambiamento. Attraverso la comprensione di queste strategie, è possibile modificare o rendere meno automatici i nostri modelli operativi interni. Il cambiamento è possibile, ma solo all’interno di una relazione significativa, protettiva e rispettosa dei limiti relazionali necessari all’esplorazione serena di se stessi e dei propri bisogni.

Nota importante! Le nostre modalità di legarci agli altri non hanno nulla a che fare con l’amore o con la capacità di provare sentimenti profondi, ma solo con il modo in cui comunichiamo questo agli altri e riusciamo a creare con loro un legame autentico, profondo e libero da paure più antiche.

Lorenzini, Sassaroli “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità.” Raffaello Cortina Editore