Percezione del pericolo e sicurezza: La teoria Polivagale

Per noi essere umani l’esplorazione dell’ambiente è stata in origine fonte di rischi e pericoli. Alla nascita il nostro sistema nervoso è immaturo e abbiamo bisogno di cure e protezione per sopravvivere. 
Sin da piccolissimi tuttavia, siamo in grado di intercettare i pericoli dell’ambiente e di segnalarli a chi ci è vicino attraverso il pianto, il lamento o vocalizzazioni. Questo permette di segnalare velocemente a chi deve proteggerci che siamo in pericolo e costituisce un basilare sistema di protezione dalla minaccia, che evolverà successivamente in età adulta e permetterà a noi stessi di valutare la presenza di pericoli e minacce, per scegliere le reazioni e i comportamenti per noi più protettivi. Questa antichissima abilità percettiva è stata definita da Stephan Porges “Neurocezione” ed è un vero e proprio “senso”, che orienta la nostra attenzione nell’ambiente e che ci permette di intercettare i pericoli al di sotto della soglia di consapevolezza, e che funziona quindi in modo istintivo e automatico. Proprio come l’olfatto ci permette di individuare odori piacevoli o sgradevoli e orienta le nostre scelte, allo stesso modo il Sistema di Neurocezione è online e attivo per aiutarci ad intercettare i pericoli il più velocemente possibile. Le strutture cerebrali che permettono questo risiedono nelle parti evolutivamente più antiche del cervello e sono collegate ai circuiti difensivi primordiali direttamente collegati ai comportamenti di attacco, fuga, congelamento e collasso.
Quando lo sviluppo dell’individuo segue una evoluzione lineare, caratterizzata da un percorso di graduale autonomia in un contesto che sia sufficientemente protettivo e al tempo stesso capace di offrire l’esplorazione necessaria del mondo, il sistema neurocettivo evolve di pari passo e permette all’individuo di imparare come orientare l’attenzione nell’ambiente in modo appropriato e adeguato alle circostanze; questo permette di esplorare con calma e sicurezza anche le situazioni nuove, lasciando attivo il sistema di difesa primordiale solo in situazioni più estreme e eccezionali di pericolo o minaccia alla vita.
Ma cosa succede quando lo sviluppo e la crescita di un individuo avvengono in un contesto non protettivo, trascurante o esso stesso fonte di pericoli? Come si adatta il nostro sistema emotivo quando restiamo vittime di abusi, violenze o maltrattamenti nella prima infanzia?
In questi casi molto spesso il nostro sistema neurocettivo evolve prendendo strade meno lineari: tende cioè a restare iperattivato durante tutta l’infanzia, finché il contesto di vita risulta pericoloso e fonte di minaccia, e conserva questa soglia di reattività anche in età adulta, esponendo la persona a reazioni di allerta eccessive e non necessariamente proporzionate al pericolo effettivo.  In questo tipo di sviluppo traumatico, il sistema neurocettivo si abitua ad intercettare il pericolo anche nelle relazioni, che sono stata la fonte primaria di minaccia, e blocca la possibilità di affidarsi e cercare sicurezza negli altri, a fronte di un costante stato di allerta che garantisce difesa e protezione.
Questo è comprensibilissimo dal punto di vista neurobiologico ed evolutivo: il sistema emotivo impara che è meglio restare in allerta perché il mondo è arbitrario e potenzialmente pieno di pericoli! Ma diventa meno comprensibile nei contesti sociali, nelle relazioni intime e, in generale, nella vita quotidiana, esponendo la persona già vittimizzata ad un ulteriore isolamento e distanza dagli altri che faticano a comprendere questo tipo di reazioni.
Questo circolo vizioso può essere modificato attraverso la psicoterapia e il sistema neurocettivo può re-imparare una nuova soglia di allerta verso l’ambiente e le relazioni, aiutando la persona a gestire meglio l’ansia e a cercare con più serenità il contatto e la vicinanza degli altri, senza vivere il contatto e l’intimità con terrore, ma cercando nelle relazioni che lo meritano, calore e sicurezza.
Per chi è interessato di seguito alcuni miei contributi pubblicati su StateOfMind, relativi alla Teoria Polivagale di Stephan Porges, il principale ricercatore che si è occupato di formulare una teoria complessa dell’evoluzione dei nostri sistemi difensivi da una prospettiva neurobiologica: 

Intervista con Stephen Porges: La Teoria Polivagale e le basi fisiologiche delle nostre intuizioni


 

A cosa servono le neuroscienze nella pratica clinica? Il modello di Stephen Porges


 
 

Trauma, vergogna e autobiasimo: come interrompere il circolo vizioso della colpa?

La vergogna è un’emozione paradossale: parlarne tende ad accrescerla, non parlarne la lascia indisturbata a condizionare i nostri pensieri e comportamenti. 

Esprimere empatia verso chi vive costantemente immerso in questa emozioni può suscitare imbarazzo e senso di inferiorità in chi ha solo voglia di nascondersi, allo stesso modo sottolineare successi e risorse può attivare timore di non meritarli o di non esserne all’altezza. Insomma, la vergogna più di altre emozioni è in grado di creare circoli viziosi di emozioni, pensieri e comportamenti difficili da modificare anche in psicoterapia, poiché il primo passo è proprio parlare ed esporsi inevitabilmente allo sguardo di almeno un’altra persona: il terapeuta!

Ovviamente possono esserci diversi tipi di vergogna e differenti gradi di intensità e pervasività. Certamente si tratta di un’emozione molto sotto stimata nel suo potenziale ruolo nel creare sofferenza psicologica e in alcuni casi psicopatologia.

Una delle condizioni più estreme in cui il lavoro sulla vergogna è tanto complesso, quando indispensabile è lavorare con pazienti cronicamente traumatizzati o vittime di abusi fisici e verbali nel corso della prima infanzia e prima età adulta.

L’essere esposti in famiglia a trascuratezza, costante criticismo, insulti, violenza fisica, abusi sessuali o a frequenti situazioni di umiliazione in un età in cui l’identità è ancora fragile e dai confini sottili, porta i bambini che attraversano questi eventi (e dunque gli adulti che saranno!) ad interiorizzare queste critiche e a farle proprie, come unica strategia possibile per conservare in qualche modo il legame con le figure di riferimento principali. Accettare le critiche e alimentare l’odio verso se stessi, diventa così una strategia funzionale a cercare alleanza e complicità con genitori maltrattanti, ma da cui dipende la propria stessa sopravvivenza.

Tutto questo avviene automaticamente nella mente ed è inizialmente davvero utile alla sopravvivenza, ma i suoi effetti emotivi e identitari a lungo termine possono essere molto negativi per lo sviluppo di una identità adulta, sana e centrata.

Il circolo vizioso della vergogna

Il passaggio dalla vergogna di essere criticati, rimproverati o attaccati all’autobiasimo (vergogna interiorizzata) e alla colpa per sentirsi profondamente sbagliati è la chiave per aiutare le persone che hanno vissuto situazioni di questo tipo ad interrompere il circolo vizioso e a sciogliere il legame patologico con gli schemi del passato. E’ normale “ereditarli” poichè questi modelli disfunzionali di accudimento vengono appresi in modo implicito e involontario, ma non è necessario mantenerli per tutta la vita e continuare a soffrire per questo.

Ho avuto il piacere di conoscere ed intervistare Janina Fisher, una delle cliniche più competenti e illuminate sul tema della vergogna, esperta di trauma complesso e di trattamento integrato dei disturbi dissociativi.

Per saperne di più di seguito i miei articoli e l’intervista pubblicati su State Of Mind:

Vergogna e auto-biasimo: come ostacolano l’elaborazione del trauma?

Cos'è l'EMDR?

L’EMDR è un approccio complesso utilizzato per elaborare eventi traumatici e consiste in una metodologia strutturata che può essere integrata nei programmi terapeutici aumentandone l’efficacia.
Il modello considera tutti gli aspetti di una esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici e vede nella patologia il “sintomo” di un’informazione immagazzinata in modo non funzionale, su tutti i livelli: cognitivo, emotivo, sensoriale e fisiologico.
Quando avviene un evento ”traumatico” l’equilibrio tra le nostre reti neurali (eccitatorie e inibitorie) viene disturbato e l’elaborazione di conseguenza resta bloccata, come “congelata” nella sua forma ansiogena originale. Questo è il modo in cui le sensazioni del passato si ripropongono come “sintomi” nel presente.
Questa metodologia si fonda su un processo neurofisiologico naturale, legato all’elaborazione accelerata dell’informazione (AIP) e utilizza movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio neuro fisiologico, provocando così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.
I movimenti oculari saccadici e ritmici usati con l’immagine traumatica, con le convinzioni negative ad essa legate e con il disagio emotivo facilitano infatti la rielaborazione dell’informazione fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi. Nella risoluzione adattiva l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo.
Le ricerche condotte su vittime di violenze sessuali, di incidenti, di catastrofi naturali, ecc. indicano che il metodo permette una desensibilizzazione rapida nei confronti dei ricordi traumatici e una ristrutturazione cognitiva che porta a una riduzione significativa dei sintomi del paziente (stress emotivo, pensieri invadenti, ansia, flashback, incubi).
L’EMDR è usato fondamentalmente per accedere, neutralizzare e portare a una risoluzione adattiva i ricordi di esperienze traumatiche che stanno alla base di disturbi psicologici attuali del paziente.
Queste esperienze traumatiche possono consistere in:

  • Piccoli/grandi traumi subiti nell’età  dello sviluppo
  • Eventi stressanti  nell’ambito delle esperienze comuni (lutto, malattia cronica, perdite finanziarie, conflitti coniugali, cambiamenti)
  • Eventi stressanti al di fuori dell’esperienza umana consueta quali disastri naturali (terremoti, inondazioni) o disastri provocati dall’uomo (incidenti gravi, torture, violenza)

Negli ultimi anni ci sono stati più studi e ricerche scientifiche sull’EMDR che su qualsiasi altro metodo usato per il trattamento del trauma e dei ricordi traumatici. I risultati di questi lavori hanno portato questo metodo terapeutico ad aprire una nuova dimensione nella psicoterapia. L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità . Nel 1995 il Dipartimento di Psicologia Clinica dell’American Psychological Association (APA) ha condotto una ricerca per definire il grado di efficacia di questo metodo terapeutico e le conclusioni sono state che l’EMDR è non solo efficace nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico ma che ha addirittura l’indice di efficacia più alto per questa categoria diagnostica.
(Fonte: Associazione EMDR Italia )
EMDR Institute USA
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