NON SONO IO di Anabel Gonzalez – Recensione

Molto spesso l’arrivo in terapia è legato ad una richiesta di aiuto per l’emergere di pensieri, emozioni, comportamenti o sensazioni fisiche che vengono riconosciuti come problematici o estranei a come le persone sono abituate a percepire se stesse, il loro corpo o le loro relazioni. “Non sono io”, “Non è da me aver paura”, “Non mi riconosco più”, “Ho perso il controllo”.

I sintomi insomma: attacchi d’ansia, pensieri intrusivi, voci interne, giudizi negativi e ricorrenti su di sé, sugli altri o sul mondo, esplosioni di rabbia incontrollata, pianto, tristezza, solitudine, dolori fisici, preoccupazioni per la salute, difficoltà nel prendere decisioni, apatia, stanchezza cronica, angoscia. Ogni manifestazione di malessere ha la sua storia e sarà importante approfondirne l’esordio, l’intensità, la durata nel tempo e collocare per quanto possibile questo malessere in una traiettoria di vita che lo ha preceduto, provando poi a costruire una traiettoria che lo seguirà, in cui quel malessere troverà una comprensione e una ri-soluzione.

Quello che tuttavia tutti questi “sintomi” hanno in comune, con diversi gradi di intensità e profondità, è la percezione chiara che siano “intrusi”, “ostacoli” al benessere emotivo e mentale. Non me, appunto: pensieri che non vorrei avere o che non riconosco utili, comportamenti che non corrispondono alle mie scelte, sensazioni corporee che arrivano contro ogni previsione, emozioni che mi travolgono senza che io possa controllarle o comprenderle. Ricordi che vorrei dimenticare, ma che tornano nelle immagini e nei sogni. Di nuovo: non sono io, non è la mia storia.

Di recente uscita in italiano il testo di Anabel Gonzalez “Non sono io. Imparando a comprenderci.” (2020), è un libro di auto-aiuto e psicoeducazione sugli effetti a lungo termine di eventi traumatici o di traumi dello sviluppo che conducono spesso a questo senso di estraneità verso noi stessi, verso le nostre emozioni e pensieri, verso quello che ci è accaduto.

Non sono io, di Anabel Gonzalez
(2020)

Comprendere è il primo passo per iniziare a cambiare, mantenere un’attitudine aperta, curiosa e non giudicante è però al tempo stesso difficile da realizzare, ma fondamentale per procedere verso una maggiore integrazione e guarigione. Compito non facile, ma più affrontabile con una guida esperta. I sintomi sono spesso percepiti come eventi esterni che irrompono nel quotidiano e che spezzano una routine che fino a quel momento sembrava scorrere serena o che almeno non ci lasciava impotenti, frustrati o disperati. Se “non sono io”, posso sentirmi non colpevole o responsabile del mio malessere, posso sentirmi vittima di una situazione ingiusta, posso anche riconoscere legittimamente che alcuni eventi esterni hanno causato un malessere di cui avrei fatto volentieri a meno e questo è spesso un buon inizio per capire da dove arriva la sofferenza che oggi ci disturba. Ma se non sono io, cosa può aiutarmi a cambiare?

E’ molto vero che spessissimo alcune situazioni traumatiche vissute nell’infanzia o nella vita adulta possono lasciare un segno e una sofferenza che non avremmo avuto senza il verificarsi di quelle particolari e drammatiche circostanze ed è altrettanto importante ri-collocare le responsabilità effettive degli eventi che ci hanno ferito o fatto sentire impotenti. Soprattutto se quello che ci è accaduto è avvenuto nell’infanzia e in un tempo in cui non potevamo fare niente per cambiare le cose. Senza questo, diventa impossibile accedere a qualunque sforzo di comprensione e guarigione.

Tuttavia nel tempo diventa altrettanto importante fare per noi stessi alcuni passi in più: comprendere profondamente che le esperienze che pure ci hanno modificato ingiustamente non sono purtroppo eliminabili, ma solo superabili e che per guarire abbiamo bisogno di includere e accogliere gradualmente nella nostra mente e nel nostro corpo proprio le emozioni, i pensieri, il dolore che dopo quegli eventi è diventato parte della nostra traiettoria di vita, provando a non rifiutarlo, a non costringere parti di noi a restare alienate e nascoste perchè non allineate al “me” che sento giusto, positivo e orientato al futuro che vorrei. Molto semplice, per niente facile da realizzare.

Alcune chiavi proposte per riflettere su molti aspetti importanti riguardano il porsi le domande giuste: Come siamo abituati ad aiutarci nei momenti di difficoltà? Cosa facciamo per stare meglio? Come siamo abituati a proteggerci?

Le emozioni negative sono un segnale di qualcosa che ci sta succedendo all’interno, non sono un ostacolo al nostro benessere ma lavorano al contrario in nostra protezione. Provare a porsi le domande giuste ed esplorare con curiosità le nostre emozioni, è un buon inizio per un dialogo interiore più costruttivo e orientato a comprendere meglio il presente.

Cosa faccio per aiutarmi se sono triste? Cosa mi dico quando sono arrabbiato? Cosa mia aiuta quando sono in ansia? Cosa mi fa bene? Se le emozioni sono un segnale da cogliere, allora il punto non è eliminare le emozioni negative ma imparare a regolarle dentro e fuori di noi. Regolarle non ha a che fare con il controllarle o con il limitarle o con l’inibirle, al contrario regolarle ha più a che fare con la possibilità di tollerarle, accompagnarle e contenerle dentro di noi, rispettandone il messaggio e provando a portarlo fuori di noi nelle condizioni migliori possibili, in modo che venga cioè ascoltato e compreso al meglio. Un grande impegno che passa sia dall’intuizione e dal riconoscimento delle proprie emozioni, ma anche dall’ “allenare” quotidianamente le capacità che non ci hanno insegnato o trasmesso nell’infanzia. Ovviamente essere “costretti” ad imparare per noi stessi, quello che avremmo in realtà dovuto riceve di diritto “ascolto”, “accettazione”, “amore”, “attenzione”, non è né facile né privo di ambivalenze, ma dall’altro lato restare nella stessa posizione difficile in cui siamo stati nell’infanzia e sperare (o attendere) che gli altri riparino le nostre ferite è una prospettiva altrettanto pericolosa e nociva per la nostra vita adulta.

Il messaggio è chiaro: prima riusciamo come adulti a capire che siamo noi gli unici a poterci “rimettere alla guida” del nostro sistema emotivo, prima riusciremo a orientarci con amore e compassione verso quello che potrà renderci felici. Ma chi è l’adulto che guida?

Non sono io (che devo guidare)” spesso è la risposta implicita che prende forma in tanti pensieri e credenze bloccanti: “non ce la faccio”, “non è giusto”, “non sono capace”, “sono inadeguato”, “sono un fallito”, “sono impotente”, “sono fragile”, “sono debole”.

Spesso la richiesta alla psicoterapia è proprio trovare qualcuno che guidi al posto nostro, anziché qualcuno che ci insegni a guidare in modo autonomo. E non è sempre piacevole scoprire nel tempo che siamo noi a dover imparare. Niente è tuttavia semplice da realizzare, senza tempo, cura e dedizione.

Riconoscere bisogni ed emozioni interne, può certamente diventare una sfida molto molto complessa se abbiamo vissuto esperienze traumatiche intense e precoci, soprattutto quando i traumi hanno riguardato le primissime esperienze relazionali. I traumi relazionali precoci che espongono troppo presto nella vita ad un senso di paura e minaccia, magari proprio in famiglia laddove avremmo dovuto ricevere sicurezza a protezione, lasciano chiaramente grande frammentazione e smarrimento. In questa divisione interna può diventare molto difficile identificare e distinguere emozioni, bisogni e obiettivi. La sensazioni di “non essere io” è in questi casi molto più frequente e potente: la mente ha avuto nel passato e ha ancora nel presente la necessità di relegare (o dissociare) molte esperienze negative in angoli della mente in cui il dolore e i ricordi possono essere almeno temporaneamente sospesi o inascoltati.

La frammentazione dell’identità di cui parla Anabel Gonzalez è proprio il risultato della mancanza di uno sguardo attento, di quello specchio fondamentale nelle prime relazioni sigificative, che ci permette di esprimere un’emozione e di sentirla legittima, perché ascoltata, accolta e non-giudicata. Quando le nostre normali emozioni ricevono troppo precocemente rifiuto, critiche o minacce, impariamo presto a rifiutarle e a sviluppare l’automatismo appreso che sia meglio eliminare e distruggere le parti di noi che gli altri rifiutano. Di solito tuttavia si tratta delle parti più sofferenti, vulnerabili e arrabbiate: quelle che avrebbero cioè più bisogno di noi.

Ogni trauma può essere affrontato ed elaborato, ma questo rifiuto di parti di sé è spesso l’ostacolo più grande da superare, se non affrontato con la sicurezza, il rispetto e i tempi necessari. Per questo risultano fondamentali nel libro i capitoli dedicati alla cura di sé, alla capacità di proteggersi, alla possibilità di sviluppare un dialogo interno orientato innanzitutto alla cura di sè: “cosa mi fa bene?”, “cosa posso fare per stare bene ora?”. Di nuovo diventa importante porsi le domande giuste, poiché spesso chi non ha ricevuto cure adeguate nell’infanzia, fatica a sentire la motivazione a prendersi cura di sé e della propria salute, a sentirne l’esigenza e men che mai il desiderio. Quando questo non si attiva in modo spontaneo, può però diventare un’attitudine da imparare a coltivare ponendoci le domande giuste.

Inutile chiedersi se abbiamo voglia di fare sport allora, meglio chiedersi se ci farà bene farlo. E’ rischioso chiederci se abbiamo voglia di uscire quando la tristezza e la solitudine dell’infanzia riaffiorano improvvisamente insieme al dolore, è più saggio chiederci se fare una passeggiata ci farà sentire bene o almeno un po’ sollevati poi.

Le domande giuste possono aiutarci meglio di soluzioni pronte all’uso, soprattutto laddove le solite soluzioni ci sembrano vicoli ciechi perchè non abbiamo avuto la guida giusta nel passato.

Il libro di Anabel Gonzalez è una guida per tutti, uno spunto di riflessione in cui ogni “domanda giusta” può diventare un seme da coltivare e far crescere con tutta la cura e l’attenzione di cui siamo capaci. Ogni piccolo passo può aiutare ad integrare aspetti di noi prima rifiutati, ad imparare che come adulti abbiamo davvero molte possibilità che prima non avevamo, a sentire che l’adulto che siamo ha l’opportunità di sentirsi più completo, forte e gratificato se ogni parte di sé può dare il suo contributo.

Trauma e linguaggio: "Feccia" di Paul Williams

“Non sapeva che nel mirino si sentiva oggetto di attenzione comunque meglio di un’indifferenza a vita ribellarsi invece un suicidio stai alla larga dai pericoli ovvio no? solo che non è ovvio non puoi mica stare alla larga da tutto specialmente se uno non lo sa che vuole stare alla larga da tutto. Terrorizzato dalla aggressioni da quando aveva dodici mesi fino a diciassette anni partenza dal cuboginnasiopaesegrigio prendi questo questo e questo! “andate via” “lasciatemi in pace” non riusciva a dirlo non lo diceva ma perché? Era la madre padre ad aggredire lui non lui loro era proprio così non l’opposto no? Era così no? Vergognarsi isolarsi significava che per lui invece non era così che era colpa sua si ritraeva da se stesso non si fidava di nessuno terrorizzato dalle aggressioni di chi loro sue? Sue. Loro. Terrorizzato dal terrore figurati!”
Paul Williams ci racconta attraverso una trilogia la storia della sua infanzia difficile, vissuta in un contesto di traumatizzazione cronica e grave trascuratezza che hanno lasciato traccia nella sua vita e nelle sue parole di adolescente.
La storia di Paul è la storia di molte persone vittime di trauma, costrette a vivere in un mondo arbitrario e imprevedibile e a trovare un modo per adattarsi e sopravvivere. Quando chi traumatizza è un padre o una madre il paradosso diventa indecifrabile per la mente: a chi chiedere aiuto? a chi affidarsi per avere conforto? dove nascondersi?
Se la mente non riesce a trovare pace, sicurezza e protezione, allora attiva altre strategie più efficaci per ridurre al massimo il dolore emotivo e le emozioni soverchianti che rischiano di farci sentire sopraffatti: la dissociazione. Il prezzo della dissociazione è un crescente senso di frammentazione della propria identità, di perdita di senso, di estraniamento, ma permette di andare avanti e di non sentirsi sempre sopraffatti e in balia degli altri.
La peculiarità di questo romanzo è indubbiamente il linguaggio, spezzato, interrotto, senza soggetto e spesso simile ad un flusso di coscienza, ma che riesce a trasmettere la difficoltà di Paul di decifrare se stesso, gli altri e il mondo in una chiave che lo aiuti a crescere. Almeno finché non gliene viene data l’occasione…
Trovate qui la recensione completa del libro: http://www.stateofmind.it/2017/09/feccia-paul-williams-recensione