Lavorare sul trauma con l'EMDR.

Cos’è l’EMDR?

Si tratta di un metodo di lavoro che permette di lavorare sui ricordi traumatici e di ri-elaborarli in modo più funzionale, collocandoli nel proprio percorso di vita e riducendo l’effetto disturbante generalmente legato alla rievocazione del ricordo. Il processo terapeutico è caratterizzato da una prima fase di recupero dei principali eventi di vita, considerati traumatici e attualmente disturbanti, e una seconda fase di elaborazione degli elementi essenziali del ricordo in una chiave di lettura più “sana”, decentrata e priva degli effetti negativi, sul piano fisico ed affettivo, che quel evento aveva prima del trattamento.

emdr

L’EMDR sta per Eyes Movement Desensitization and Reprocessing e si basa sulla teoria dell’Elaborazione Accellerata dell’Informazione (AIP). In breve, questo modello della mente afferma che ogni essere umano è dotato di un sistema neurologico e fisiologico che permette di elaborare le informazioni in entrata (eventi, pensieri, emozioni,..) mantenendo un equilibrio tra lo stato del sistema “prima” e “dopo” l’ingresso di quell’informazione. Questa tendenza all’equilibrio permetterebbe alla mente di andare sempre verso una risoluzione adattiva e funzionale, in cui la mente riesce ad integrare vecchie e nuove informazioni e a recuperare l’equilibrio perso. Gli elementi che si vanno ad integrare sono: esperienze, emozioni, pensieri, reazioni fisiologiche e comportamenti.

Sia le esperienza positive che quelle negative possono quindi essere affrontate ed elaborate in modo autonomo ed efficace dalla nostra mente e su tutti i livelli (fisico, emotivo, cognitivo e comportamentale). In alcuni casi, tuttavia, le reazioni  che si attivano in risposta ad un episodio traumatico faticano ad essere integrate nel sistema e si genera quello che viene definito un pattern continuo di emotività: la reazione emotiva ad un evento non dura cioè il tempo necessario ad essere elaborata in modo adattivo, ma continua a manifestarsi anche a distanza di tempo e in assenza dello stimolo che l’aveva provocata. Diventa appunto un pattern che si riattiva quando una sensazione, un pensiero o un emozione simili a quelle provate in occasione di quel unico evento traumatico, vengono ri-esperiti o rievocati.

L’emotività e le sensazioni fisiche legate a quell’evento restano come “congelate” nella rete neurale e isolate dagli altri eventi di vita, in una perpetua attivazione che difficilmente viene spenta senza un intervento terapeutico specifico. L’esempio più tipico è il Disturbo da Stress Post-Traumatico, per cui l’EMDR è il trattamento d’elezione secondo l’Evidence Based Medicine.

Quali traumi causano l’attivazione del pattern continuo di emotività?

La gravità del trauma è legata innanzitutto alla reale o soggettiva percezione di essere in pericolo di vita.

Quindi tutte le situazioni  in cui questa minaccia è stata percepita come reale, sono situazioni potenziali per sviluppare un pattern continuo di emotività disturbante. E’ questo il caso degli abusi sessuali, degli incidenti, della catastrofi naturali. Una seconda situazione è quella dei traumi ripetuti, cioè traumi soprattutto relazionali in cui non si è sperimentato un vero e proprio pericolo di vita, ma in cui una particolare emozione si sia attivata in modo frequente e disfunzionale e senza dare la possibilità di una elaborazione completa dell’evento (Es: un clima familiare molto conflittuale in cui si è assistito a frequenti e intensi litigi tra i genitori).

L’intervento attraverso l’EMDR permette innanzitutto di sciogliere questo pattern di attivazione, molto disturbante e non più utile rispetto al passato, e di aprire lo spazio per una nuova elaborazione più adattiva dell’evento traumatico.

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A cosa servono le emozioni?

Gli scopi del nostro sentire.

Le emozioni, ormai lo sappiamo, sono segnali importanti che orientano il nostro agire e l’agire di chi ci osserva (vedi precedente contributo su Corpo ed Emozioni). Senza sentire e riconoscere le emozioni che stiamo provando, resteremmo probabilmente immobili di fronte ad un pericolo, impassibili davanti ad un amico che soffre o imperturbabili nel affrontare una prova per noi importante.

Tutto questo può succedere in ogni caso, ma quelle su citate posso essere reazioni ad un’emozione non completamente chiara o riconosciuta, oppure semplicemente il risultato di una scelta consapevole dettata da altri scopi, che non sono i più evidenti o comprensibili, la sopravvivenza, la conservazione della specie o la capacità di prepararsi di fronte ad una sfida.

L’avere una coscienza, qualunque cosa essa significhi, ci permette di ragionare sulle nostre emozioni, talora di decidere volontariamente di non considerarle o al contrario di considerarle l’unica chiave possibile per comprendere il nostro agire.

L’essere umano oscilla spesso tra razionalità estrema e rivendicazione della libertà ad essere impulsivi, spesso senza essere consapevoli, da nessuna delle due posizioni, di che ruolo abbiano le nostre emozioni, in un dato momento, contesto e relazione.

E così per alcuni arrabbiarsi sarà sempre inutile, per altri sempre necessario, per alcuni piangere sarà sempre inevitabile, per altri mai accettabile, per alcuni avere paura sarà un’esperienza quotidiana, per altri una condizione mai (consapevolmente) sperimentata. 

Una possibile cornice comune, per capire che ruolo hanno le nostre emozioni e l’importanza del saperle riconoscere, al di là del nostro modo soggettivo e personalissimo di manifestarle, è quella degli SCOPI.

Quali scopi sono sottesi alle emozioni principali?

Quali emozioni esplodono se uno o più degli scopi che abbiamo vengono impediti?

La cornice proposta è quella evoluzionistica, non solo in termini di sopravvivenza della specie, ma soprattutto in relazione all’agire umano all’interno di un contesto innanzitutto sociale, collettivo e condiviso da tutti. Alcune emozioni sono più legate a scopi primari, legate cioè alla nostra sopravvivenza, altre sono legate a scopi sociali, altrettanto importanti poiché legati al nostro “stare nel branco”- nel gruppo di appartenenza – e ci garantiscono di mantenere una buona immagine e di definire il nostro ruolo all’interno del gruppo.

Sia le emozioni negative che quelle positive hanno una funzione, possono essere più o meno difficili da tollerare ma TUTTE hanno un senso. In quest’ottica nessuna emozione può essere sbagliata, sciocca, esagerata…è lo scopo che in quel momento è stato frustrato a fare la differenza!

Un esempio:

PAURA/ANSIA  —— Proviamo paura quando percepiamo o ipotizziamo una minaccia ad un nostro scopo (es: sopravvivere ad un pericolo, superare un esame). 

La paura ha SEMPRE una funzione PREVENTIVA, dispone infatti l’organismo ad agire affinché il pericolo non si realizzi (es: scappare o attaccare, rispondere alle richieste che ci vengono fatte).

Provando a pensare per ogni emozione sotto elencata una situazione target in grado di farla rivivere, valutate lo scopo descritto e verificate il suo legame con il vostro agire in quella data situazione.

Per scaricare una scheda completa delle emozioni e dei loro scopi CLICCA QUI

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Qual è il legame tra corpo ed emozioni?

Le emozioni sono un importantissimo segnale di come stiamo, di quello che ci succede e permettono agli altri di comprendere il nostro stato d’animo in una determinata situazione.

Tutte le emozioni inviano le “informazioni emotive” necessarie in due diverse direzioni: 1- una interna, riconosciamo di essere tristi quando abbiamo pensieri negativi costanti, ci sentiamo di non avere energie, né voglia di fare niente, abbiamo lo stomaco chiuso o non riusciamo a smettere di piangere, e 2- una esterna, gli altri si accorgono che siamo tristi perché ci vedono piangere, o perché abbiamo la bocca al ingiù, lo sguardo spento, la postura “afflosciata”, parliamo poco o affatto, tendiamo ad isolarci.

Tutte le emozioni, nessuna esclusa, sono segnali importanti, normali e ci guidano nel raggiungere degli scopi fondamentali per la nostra vita e per la nostra sopravvivenza.

Che succederebbe se non provassimo paura davanti ad un pericolo? O tristezza alla perdita di una persona cara? O colpa per aver arrecato un danno a qualcuno?  O rabbia di fronte ad  un’ingiustizia?

Anche le emozioni più intense e intollerabili vanno ascoltate e ci segnalano, spesso con forza, che qualcosa non va e che forse vale la pena di fermarci a capire. Spesso quando si parla di “disagio emotivo”, si rischia di confondere le emozioni, sempre legittime, comprensibili e utili, con le reazioni alle emozioni, che possono invece essere eccessive, illegittime e “sbagliate”, soprattutto se arrecano danno a noi stessi o agli altri.

La comprensione delle emozioni, della loro legittimità e dei pensieri che le accompagnano, sono spesso argomento centrale della psicoterapia e costituiscono quasi sempre la chiave di lettura per capire ed analizzare situazioni di malessere psicologico e di conflitto interpersonale. Capita spesso infatti che proprio in condizioni di difficoltà e di malessere psicologico, facciamo fatica a riconoscere le nostre emozioni , a fermare i pensieri che le accompagnano e capirne in ultimo le motivazioni che hanno contribuito a scatenarle.. proprio quando ne avremmo più necessità!

Il primo passo per avvicinarci alla comprensione delle emozioni è dunque riconoscerle su noi stessi, prima ancora di riuscire a comunicarle. Come fare??

 …Chiediamolo al corpo!

Ogni emozione si accompagna a delle sensazioni fisiche, spesso molto intense, a volte meno, che possono farci da guida nell’identificare il nostro stato interno e che spesso tuttavia non riusciamo ad identificare.

A volte può capitare di sentire improvvisamente un nodo alla gola, avere la sensazione di arrossire, tenere lo sguardo basso, provare un intenso desiderio di nascondersi, sentirsi agitati e nervosi, …. quale emozione si è attivata in questo caso?

E’ probabile che, nella comune esperienza di tutti, queste sensazioni richiamino alla mente una situazione in cui abbiamo provato un’intensa emozione di vergogna.

Proviamo con un altro esempio: in quale circostanza vi è capitato di sentirvi tesi, rigidi, sul punto di esplodere o di perdere il controllo, di sentire il viso infiammarsi improvvisamente, i muscoli delle braccia e delle gambe contrarsi, e un senso diffuso di irrequietezza e agitazione?

E’ probabile che poco prima di sentirvi così, qualcosa o qualcuno vi abbia fatto arrabbiare e perdere le staffe, per qualcosa che voi ritenevate ingiusto o contrario alle vostre aspettative.

Così come la rabbia e la vergogna, ogni emozione ha dei marker somatici, cioè delle sensazioni fisiche precise che ci segnalano l’emozione attiva in quel momento, e che spesso vengono erroneamente interpretati come veri e propri segnali di malessere fisico.

Ripensando all’esempio della rabbia: cosa succederebbe se ci trovassimo ad esperire tutte le sensazioni fisiche su citate, senza la benché minima consapevolezza di essere semplicemente arrabbiati?

Con ogni probabilità proveremo paura e incredulità per le reazioni del nostro corpo, preoccupazione che qualcosa di brutto ci stia accadendo, cercheremo di calmarci in qualche modo, respirando lentamente, facendo una passeggiata,…ma di sicuro non affronteremo quello che ci ha fatto arrabbiare: questo è un esempio di circolo vizioso che spesso colpisce le persone che vivono periodi intensi di stress o che si trovano ad affrontare un vero e proprio disturbo d’ansia (disturbo di panico, agorafobia, ansia generalizzata, ipocondria,..).

 Per un elenco completo delle sensazioni fisiche legate alle principali emozioni CLICCA QUI !

Come curare le ossessioni?

Un volta identificata la presenza di “ossessioni patologiche” (vedi contributo: Come riconoscere quando le ossessioni diventano patologiche?), è necessario rivolgersi ad uno specialista per verificare che la diagnosi sia corretta e scegliere di sottoporsi ad un trattamento specifico. In alcuni casi è consigliabile accompagnare  il percorso psicologico con un trattamento farmacologico (in genere antidepressivi SSRI).

L’indagine sul sintomo e su come si è sviluppato e mantenuto negli anni è la base da cui partire per un buona trattamento terapeutico. Come per molti gli altri disturbi d’ansia, i primi aspetti da indagare e chiarire sono:

  • la prima volta che sono comparsi pensieri intrusivi o compulsioni (esordio);
  • le situazioni, i pensieri e le emozioni legate a quel momento;
  • indagare gli elementi che hanno favorito l’insorgere della sintomatologia nel periodo precedente l’esordio: stress sul lavoro, conflitti familiari, malattia, lutti (fattori di scompenso);
  • indagare i fattori che contribuiscono oggi a mantenere vivi i sintomi riferiti (fattori di mantenimento).

La TCC offre numerosi protocolli che permettono, a questo punto, di costruire un percorso di cura che tenga conto di tutti gli aspetti analizzati e del ruolo che i sintomi hanno nella vita della persona. L’Esposizione con Prevenzione della Risposta (E/RP) è un intervento di dimostrata efficacia per il trattamento dei disturbi d’ansia, in particolare per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) e per il Disturbo di Panico: questo metodo è in grado di produrre una riduzione stabile dei sintomi anche dopo anni dalla fine del trattamento e il cambiamento sintomatologico non si risolve semplicemente in uno spostamento del sintomi ma esita in un  cambiamento esteso e stabile (Lakatos e Reinecker, 1999). Il principio guida di questo metodo è quello dell’abituazione, che potremmo definire come “un decremento della risposta (emotiva e fisiologica) dovuto a stimolazione (esposizione) ripetuta”.

In soldoni: qualunque stimolo che sia percepito da noi come minaccioso e/o disgustoso (es: il lavandino sporco, la scrivania in disordine, un gatto nero che ci attraversa la strada) provoca in genere un’intensa risposta fisiologica, emotiva e mentale ogni volta che ci viene presentato; questa risposta sarà sempre la stessa e produrrà tendenzialmente la medesima reazione comportamentale: fuga o comportamento “di annullamento” (compulsione)!

Quando invece siamo “costretti” da circostanze particolari di vita (o da un trattamento psicologico) ad esporci a quello stesso stimolo – temuto e/o disgustoso – più volte al giorno e per un certo periodo di tempo, lentamente la nostra risposta – fisiologica, emotiva e mentale – allo stimolo diventerà meno intensa e sempre meno disturbante (estinzione della risposta). Solo a questo punto il nostro comportamento può finalmente cambiare!

Questa la cornice teorica generale. Nella pratica clinica il trattamento va condiviso passo per passo, attraverso l’utilizzo di esposizioni graduali e guidate, che possano lentamente accompagnare la persona affetta da DOC attraverso tutte le fasi successive della terapia:

confrontarsi con le situazioni che ATTIVANO le ossessioni e le compulsioni (“rituali di annullamento”)

ridurre lentamente le compulsioni, con strategie alternative che aiutino a tollerare le sensazioni sgradevoli

– valutare, attraverso l’esperienza e il confronto nel dialogo clinico, l’effettiva veridicità e fondatezza di alcune convinzioni su cui si basano le proprie ossessioni ricorrenti. Le più comuni riguardano: fusione pensiero-azione (“Se penso che potrei prender un coltello e ferire qualcuno, allora vuol dire che potrei realmente farlo!”),  eccessivo senso di responsabilità personale (“Magari ho investito qualcuno con l’auto senza accorgermi e allora devo tornare indietro a controllare”), inaccettabilità che alcuni pensieri possano procurare ansia (“Non ho il controllo di questi pensieri, quindi sono pericolosi!”), difficoltà a tollerare gradi di incertezza inferiori al 100% (“come faccio ad essere sicuro che non andrò all’inferno?“), pensiero magico o superstizioso (“un gatto nero che arriva da sinistra porta male! (da destra no).”).

riscoprire il piacere in altre attività.

Ingredienti fondamentali di questo trattamento sono pazienza e tenacia nel voler combattere i rituali che spesso da lungo tempo accompagnano la vita quotidiana e che sono ormai in grado di dare sufficiente conforto e rassicurazione nei momenti di difficoltà, ma che, ormai lo sappiamo!, tolgono tempo e risorse alla vita..



Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi: Trattamento

Dalle prime proposte di Beck, fondatore della Terapia Cognitiva, ad oggi sono stati fatti numerosi passi avanti nella costruzione di protocolli efficaci per la cura delle psicosi. Le neuroscienze hanno contribuito enormemente alle conoscenza attualmente in possesso della medicina e della psicologia, e l’esperienza clinica ha favorito la messa a punto di tecniche psicoterapeutiche sempre più specifiche e mirate alla riduzione dei sintomi più critici. Uno dei protocolli più efficaci emersi negli ultimi anni è quello di Fowler (2000) e utilizzato in molte ricerche successive come quella citata nel precedente contributo sull’argomento e pubblicato nella rivista State of MInd (Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi – Parte I – DATI DI EFFICACIA).

I principali obiettivi del Trattamento Cognitivo-Comportamentale per le psicosi sono:

  • Ridurre l’angoscia e le disabilità prodotte dai sintomi psicotici.
  • Ridurre la disregolazione emotiva.
  • Accrescere la consapevolezza del paziente sul suo disturbo e promuovere una partecipazione attiva al percorso di cura, che possa prevenire il rischio di ricadute e di isolamento sociale e lavorativo.

Come procedere in terapia?

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BIBLIOGRAFIA:

Le reazioni biologiche alla paura

La paura è un’emozione funzionale e adattiva, presente in tutti gli animali e legata a meccanismi biologici ed evolutivi fondamentali. Si tratta di un’emozione che prepara all’azione, che ci dà un segnale che qualcosa di negativo sta per succedere e che ci aiuta ad identificare uno stimolo dell’ambiente come pericoloso per la nostra sopravvivenza. L’ansia negli essere umani è l’espressione di questa emozione e solo se esagerata, sproporzionata e protratta nel tempo può assumere caratteristiche psicopatologiche importanti. Oltre agli aspetti già citati nel precedente post (vedi: “Ho paura e basta: non so perché!”), un elemento importante è quello legato alle reazioni comportamentali istintive che la paura genera e di cui spesso non ci si riesce a spiegare la ragione.

Se qualcuno ha paura dei cani può capire l’esempio che segue: nonostante il saggio consiglio di non mostrare paura e di non scappare alla vista di un cane, per chi di voi ha paura sarà risultato davvero impossibile resistere alla tentazione di farlo..nonostante la probabilità enormemente più alta di essere rincorsi! Ecco spiegato il perché: le nostre reazioni alla paura non sono guidate dalla sola corteccia cerebrale, responsabile delle nostre scelte consapevoli, ma da un parte più antica e primitiva del cervello su cui fortunatamente non abbiamo alcun controllo e che agisce con estrema velocità nelle scelte per noi vitali: l’amigdala e il sistema limbico!

Queste aree cerebrali sono responsabili del buon funzionamento del nostro sistema di difesa e protezione dai pericoli e determinano le reazioni che comunemente esperiamo in presenza di stimoli che ci spaventano:

La prima si innesca quando lo stimolo che abbiamo davanti è percepito come “affrontabile” senza troppo rischio per la propria sopravvivenza, la seconda si attiva in situazioni che decisamente non conviene affrontare e in cui l’unica soluzione è la fuga, la terza è una fase di blocco dell’azione ed è in genere uno stato transitorio in cui c’è attivazione fisiologica di preparazione all’azione e consapevolezza dell’ambiente circostante, ma non si riesce a reagire e infine la quarta è lo svenimento che comporta un improvviso crollo del tono muscolare, della frequenza cardiaca e una momentanea perdita di coscienza. Quest’ultima particolarmente nota a chi ha una fobia per sangue e ferite!

Nell’uomo, che a differenza degli animali è dotato di coscienza, queste normali e biologiche reazioni comportamentali sono spesso oggetto di valutazione o talora di giudizio negativo soprattutto se lo stimolo a cui si reagisce non è considerato “degno” di attivare un’emozione di paura.

Fuggire da luoghi affollati, rimanere bloccati e inermi di fronte ad una violenza fisica, svenire durante un esame del sangue sono spesso considerati comportamenti imputabili ad una propria fragilità, incapacità o inadeguatezza … mentre spesso sono semplicemente il segnale che il nostro sistema limbico è perfettamente sano!

Il punto cruciale da analizzare in presenza di reazioni di questo tipo non è quindi giudicare o analizzare la reazione in sé, ma comprendere i motivi per cui uno stimolo che reputiamo “normale” venga percepito dalla nostra mente e dal nostro corpo come a tal punto pericoloso da generare in modo automatico e incontrollato la reazione del nostro sistema di difesa.

Il prezzo della coscienza!

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Concreteness Training (CNT) come cura per la depressione.

Recenti ricerche hanno dimostrato che i sintomi depressivi possono essere trattati “semplicemente” attraverso l’addestramento ad uno stile di pensiero orientato per obiettivi, attraverso esercizi mentali strutturati secondo l’approccio cognitivo-comportamentale chiamato “Modificazione dei bias cognitivi” (Cognitive Bias Modification).

Lo studio condotto dalla University of Exeter e finanziato dal Medical Research Council, è stato pubblicato lo scorso Novembre sulla rivista Psychological Medicine e sembra interessante rispetto alla  necessità di proporre programmi di intervento più rapidi, efficaci e meno costosi nei casi di depressione o depressione maggiore. La proposta dei ricercatori è: un training di soli due mesi in grado di produrre, attraverso l“Addestramento al pensiero concreto” (Concreteness Training, CNT), un cambiamento dello stile di pensiero e una parziale riduzione della sintomatologia depressiva.  L’obiettivo generale del training è di insegnare alle persone ad essere più specifici quando riflettono su un problema e questo sembra ridurre le difficoltà iniziali di approccio alla soluzione, il rimuginio conseguente, il brooding e infine l’umore depresso. Le persone che soffrono di depressione hanno infatti la tendenza a sviluppare uno stile di pensiero astratto e caratterizzato da una prevalenza di pensieri negativi e molto generali, che alimentano la loro generale “incapacità nella vita” e sensazione di impotenza. Il modello  proposto dai ricercatori sembra in grado di  intervenire in modo diretto proprio su questo stile di pensiero.
I 121 soggetti  sperimentali, scelti in una fase di abbassamento dell’umore all’interno di un episodio depressivo maggiore diagnosticato, sono stati suddivisi in tre gruppi: 1) prosecuzione terapia abituale, 2) terapia abituale + CNT, 3) terapia abituale + trainig di rilassamento.  Il modello CNT prevedeva la somministrazione ai partecipanti di alcuni esercizi mentali giornalieri, standardizzati per step successivi e accompagnati dall’ascolto di un CD, in cui era richiesto loro di focalizzarsi su un recente evento di vita abbastanza negativo e fonte di stress e di identificarne specifici dettagli immaginando come ognuno di questi, presi singolarmente, avrebbe potuto influenzare l’esito immaginato.
La riduzione dell’ansia e della depressione ha favorito il passaggio da una diagnosi di “depressione grave” ad una di “depressione moderata” entro i primi due mesi di training, con un buon mantenimento dei risultati a distanza di 3 e 6 mesi. In media, i pazienti che hanno proseguito invece la loro abituale terapia non sono migliorati nella sintomatologia depressiva, mentre quelli che avevano integrato con gli esercizi di rilassamento sono migliorati di più, ma solo i pazienti che hanno seguito il “Concreteness training” hanno ridotto l’intensità dei pensieri negativi legati alla ruminazione.
Il Professor Edward Watkins ha spiegato: “Questo studio è la prima dimostrazione del fatto che il solo orientare lo stile di pensiero per obiettivi può avere un impatto significativo nell’affrontare la depressione. Si tratta di un approccio che può comportare un contatto minimo con il clinico e il training può essere seguito tramite assistenza on line, aprendo la possibilità di utilizzare CD o addirittura applicazioni per smartphone.  Il vantaggio sta nella possibilità di offrire un trattamento poco costoso e accessibile per un numero maggiore di persone, obiettivo prioritario nella cura della depressione a causa della elevate percentuale di persone affette da questo problema e dai costi globali, sociali e sanitari, che questo comporta.” I ricercatori proseguiranno in questa direzione per verificare l’efficacia del protocollo e la possibilità di inserire la CNT come trattamento privilegiato dal National Health Service britannico per la cura della depressione.
L’effetto di questo training sembra, ad una prima occhiata, paragonabile all’effetto del farmaco antidepressivo, in alcuni casi “salvavita” e spesso utile nel recuperare le “forze” cognitive necessarie ad intraprendere un percorso psicoterapico più approfondito, quindi da non sottovalutare la possibilità di utilizzare il protocollo proposto nella fase iniziale della terapia..
Fonte: Watkins ERTaylor RSByng RBaeyens CRead RPearson KWatson L., (2011). “Guided self-help concreteness training as an intervention for major depression in primary care: a Phase II randomized controlled trial.”, Psychological Medicine, 16:1-13. (Mood Disorders Centre, University of Exeter, UK.)
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Come riconoscere quando le ossessioni diventano patologiche?

Ogni giorno può capitare a tutti di essere preda di pensieri ripetitivi e negativi, che provocano  improvvise sensazioni di disagio e malessere. Spesso si tratta di stati passeggeri, altre volte di sensazioni che durano più a lungo..ma di cui prima o poi riusciamo a liberarci. Cosa succede quando questi pensieri si “stampano” nella nostra mente, senza possibilità di essere modificati, né momentaneamente soppressi? Probabilmente prenderanno una parte significativa delle nostre risorse attentive, fino a farci pensare che non riusciremo mai a fermare questo flusso di pensieri. A volte il contenuto di questi pensieri può riguardare l’affitto del prossimo mese, un esame medico, la ricerca di un lavoro..tutte preoccupazioni che in modo legittimo prendono spazio nella nostra vita quotidiana. Tuttavia vi sono altri pensieri, altrettanto normali e legittimi seppur irrazionali e sproporzionati rispetto alla realtà, che possono assumere caratteristiche molto “bizzarre” tali di non farceli riconoscere come normali. Vi è mai capitato di essere assaliti da un dubbio improvviso di avere lasciato il gas dei fornelli aperto dopo qualche ora che siete lontani da casa, oppure di aver dimenticato di spegnere la stufa o di chiudere l’automobile, o ancora di aver investito qualcuno o rubato nel supermercato senza esservene accorti, di aver fatto qualcosa di orribilmente sbagliato senza sapere cosa esattamente …? Bene, se avete provato una qualunque di queste sensazioni, avrete sicuramente sperimentato anche la loro naturale conseguenza: andare a controllare che il vostro terribile dubbio non corrispondesse alla realtà! Tutti questi pensieri vengono descritti nella letteratura scientifica come pensieri intrusivi indesiderati, presenti nell’esperienza della maggior parte delle persone e ritenuti sani. Come spesso accade ciò che trasforma un normale pensiero intrusivo, per quanto bizzarro esso sia, in una ossessione patologica non sta nel contenuto del pensiero ma nell’intensità, nella ripetitività e nella pervasività che quel pensiero assume nella nostra vita quotidiana. Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) descritto nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-IV) è uno dei più comuni disturbi d’ansia caratterizzato dalla presenza di:

  • Ossessioni:  pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, che vengono vissuti come intrusivi e inappropriati e che l’individuo cerca continuamente di ignorare o sopprimere senza tuttavia riuscirvi; sono causa di intenso disagio o ansia, pur essendo riconosciuti come un prodotto della propria mente e non un dato di realtà.
  • Compulsioni: comportamenti ripetitivi (es: lavarsi le mani, riordinare, ricontrollare, ..) o azioni mentali (es: pregare, contare, ripetere parole,..) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un pensiero/ossessione o a regole che devono essere messe in atto rigidamente, senza un precisa logica razionale; lo scopo di questi comportamenti è quello di ridurre il disagio percepito o di prevenire eventi o situazioni temute.

NB: Le ossesioni o le compulsioni, in condizioni patologiche, causano disagio marcato, occupano più di un’ora al giorno o comunque interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo, o con le attività relazionali e sociali abituali. Nonostante la gravità dei sintomi e dei vissuti personali, questo disturbo d’ansia può a oggi essere trattato grazie alla combinazione di un adeguato trattamento farmacologico e psicoterapia cognitivo-comportamentale: l’obiettivo a lungo termine sarà di migliorare le capacità di identificare le emozioni negative legate sia alle ossessioni che ai comportamenti di controllo, che ne sono diretta conseguenza. Ciò che rende le compulsioni così difficili da trattare è proprio l’assenza di un legame più consapevole con le emozioni che le hanno generate! Un altro aspetto sistematicamente ignorato da chi soffre del disturbo è il “costo” delle azioni di controllo: il tempo dedicato ad una singola azione (es: controllare il gas, le chiavi,..), per prevenire un danno seppur drammatico, non sembrerà mai  troppo se non viene sommato al tempo di tutte le altre singole azioni che vengono messe in atto per prevenire quello stesso tragico evento! Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo può colpire chiunque e a qualunque età, in presenza di particolari eventi di vita stressanti, che mettono in gioco le capacità di riconoscere e sentire le emozioni negative ad essi legate. Può avere caratteristiche lievi e tollerabili oppure molto invalidanti e portare al progressivo isolamento sociale, se non curato in tempo. L’abitudine a riconoscere le emozioni, ad esprimerle e condividerle con gli altri possono essere validi fattori protettivi, che rendono cioè meno indispensabile l’uso di comportamenti ripetitivi e inefficaci, volti a neutralizzare un pensiero o un’immagine che ci sta disturbando. Difficile eliminare un pensiero, senza conoscere il vissuto emotivo che lo ha provocato!  Camilla Marzocchi Per ulteriori dettagli clicca qui: Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC)

"Ho paura e basta: non so perché!"

Immagini come questa possono essere per l’uomo stimoli ad “alto contenuto emotivo”, possono cioè provocare reazioni fisiche ed emotive molto intense. L’intensità della reazione è tuttavia spesso legata all’esperienza soggettiva e non alle caratteristiche proprie dello stimolo. L’effettiva pericolosità, la vicinanza allo stimolo, la probabilità di un evento, non sono sempre centrali nel provocare emozioni, pensieri e comportamenti che ne derivano.

Di cosa si tratta allora quando parliamo di fobie?

La fobia è una reazione di paura collegata a uno stimolo che produce tensione fino al punto da causare disturbi emotivi, sociali o occupazionali. È in genere riconosciuta come eccessiva o irrazionale e che porta a comportamenti di evitamento o ad ansia intensa in caso di esposizione allo stimolo temuto.

La maggior parte delle fobie sono legate a stimoli potenzialmente dannosi, pericolosi o che elicitano emozioni di disgusto. L’intensità delle emozioni e soprattutto le reazioni comportamentali messe in atto per evitare lo stimolo, costituiscono in genere la nostra “misura” di quanto quella paura sia in realtà una vera e propria fobia.

Per orientare il lettore alla comprensione della propria paura, è sicuramente utile sapere come riconoscerla:

  • Se la paura è sproporzionata rispetto al pericolo reale;
  • Se produce alterazioni dei normali cicli biologici (sonno, alimentazione);
  • Se influisce negativamente nelle normali attività quotidiane (lavoro, tempo libero, relazioni interpersonali,..);
  • Se causa malessere psicologico: ansia, depressione;
  • Se si è costretti all’utilizzo di “aiuti esterni” per superare il disagio (aiuto degli altri, farmaci).

Ecco le reazioni più comuni alle fobie:

  1. Cosa si prova? Sintomi fisici: agitazione, tachicardia, sudorazione, vertigini, giramenti di testa, apnea, nausea. Emozioni: paura, ansia.
  2. Cosa si pensa? Timore di catastrofi imminenti, paura di non riuscire a farcela, paura di morire, paura di impazzire, paura di perdere il controllo, …
  3. Quali sono i comportamenti usati per fronteggiare la situazione? Evitare le situazioni ritenute scatenanti (es: luoghi affollati, attività fisica, guidare auto,..); ricorrere a Comportamenti protettivi (es: richiedere accompagnamento di qualcuno, uso di sostanze, farmaci o droghe..).

Spesso le condizioni di vita cambiano e insieme ad esse le nostre esigenze, l’incontro con la nostra fobia potrebbe non verificarsi mai in tutta la vita o accentuarsi in situazioni di stress e complicare una situazione già non semplice.

L’ingresso di una fobia nella nostra vita può essere dunque subdolo e distogliere la nostra attenzione dal vero problema che ci preoccupa, scoprirlo può sicuramente farci risparmiare tempo ed energie!

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Previsioni dal mondo!

Oroscopi, superstizioni, precognizioni, tarocchi, ideologie, religioni, dogmi, guru, miti, leggende, scienza e fantascienza, psicologia e parapsicologia….Molte delle attività e dei “prodotti” della mente umana sembrano essere l’espressione di un bisogno nobile e profondamente radicato:  dare un senso alle cose del mondo!

La capacità di prevedere gli eventi è una delle abilità fondamentali per l’essere umano e in generale per tutto il mondo animale. Una buona capacità di prevedere eventi avversi, permette di fare ipotesi sui possibili rischi e di scegliere le strategie migliori per affrontarli e garantirsi la sopravvivenza.

La stessa capacità è coinvolta nella previsione di esiti positivi, che in genere identifichiamo come scopi del nostro agire, e che ci orienta nella scelta dei mezzi adeguati per raggiungerli: “..è buono ciò che facilita il raggiungimento di uno scopo, è cattivo ciò che lo impedisce, se non avessimo degli scopi saremmo del tutto impossibilitati ad esprimere qualsivoglia seppur minima valutazione” (S. Sassaroli, R.Lorenzini). Ciò che identifichiamo come buono o cattivo, determina l’efficacia delle nostre capacità predittive.

Abilità preliminare per fare buone previsioni è “leggere” il mondo e individuare gli elementi della realtà che possano aiutarci a raggiungere i nostri scopi.  La vista dei pipistrelli può essere una buona metafora di questa selettività: il loro sistema si basa sull’invio di ultrasuoni capaci di produrre degli eco riflessi dagli oggetti (simili al sonar) ed è in grado di ricostruire una mappa precisa dello spazio in cui si muovono, ad una velocità elevata e nonostante il buio. Questo sistema li aiuta ad selezionare dal campo visivo cibo, ostacoli, vegetazione, altri animali e soprattutto le prede: riescono cioè ad individuare esattamente le cose che interessa loro vedere (e non altre), e a percepire la realtà in relazione alla vita che conducono.

Altra capacità preliminare per affinare le nostre previsioni è saper esplorare il campo di azione, per sperimentare abilità e imparare dall’esperienza a leggere meglio gli stimoli che ci vengono dall’esterno. Tornando ai pipistrelli: se non uscissero mai dai loro nidi per cacciare o se scegliessero il giorno per le loro attività, renderebbero il loro sistema visivo nel primo caso inutilizzato, nel secondo inefficace.

Quando perciò uno stato emotivo molto intenso, uno o più eventi di vita drammatici e inaspettati, il ripetuto fallimento di uno scopo per noi importante, mettono “in scacco” la nostra capacità di fare buone previsioni, solo il ripristino di scopi nuovi, una diversa esplorazione e la produzione di nuove ipotesi, permettono di recuperare comprensione e controllo sulla realtà.

Il malessere psicologico è spesso l’esito di un “blocco” nella produzione di ipotesi e scopi alternativi ai precedenti. L’ansioso, ad esempio, a seguito di ripetute esperienze negative eviterà tutti i luoghi affollati che gli hanno scatenato un attacco di panico, perché immaginerà esiti esclusivamente negativi e catastrofici rispetto dell’esperienza evitata. Non riuscirà a produrre ipotesi positive, non tenterà diverse strategie e preferirà tenere fede alle sue previsioni – per quanto terribili – piuttosto che rischiare un errore. Penserà insomma che prepararsi sempre al peggio, sarà meglio di qualunque sorpresa!

Rinunciare a questa “preparazione” rende il disagio psichico comprensibilmente preferibile a qualunque percorso di cambiamento: sembra che una cattiva previsione, sia meglio che non averne affatto.

Il passaggio paradossale per recuperare una capacità predittiva efficace sembra essere la momentanea rinuncia a quel bisogno profondo e radicato dentro di noi di dare un senso alle cose del mondo: assumersi cioè il rischio di una previsione sbagliata!