Stress Post-Traumatico e serie TV: il caso di Thomas Shelby

In questi giorni di vacanza e tempo libero, in molti avranno vissuto un altro – e meno gradito – grande classico del Natale: l’influenza stagionale! Tra febbre, tosse e nervosismo da ferie perse, saranno in tanti ad essere caduti tra le braccia rassicuranti e sempre disponibili di una lunga serie tv.
Per chi fosse finito nella rete del “Binge Watching” – senza entrare nel merito delle sue versioni più patologiche! – tra le ultime uscite prenatalizie non avrà certamente perso l’ultima stagione dei Peaky Blinders, serie tv britannica scritta e ideata da Steven Knight nel 2013, e le sfide del suo fascinoso protagonista: Thomas “Tommy” Shelby  (Cillian Murphy). I fratelli Shelby – ‘in arte’ Peaky Blinders – sono una gang di Birmingham e vivono nella zona povera della città, Small Heath, loro quartier generale da quando gli antenati gitani hanno scelto di insediarsi in città e mettere su attività illegali. La storia inizia nel 1919, quando tutti i fratelli rientrano dalla Francia, dove hanno combattuto la prima guerra mondiale, e riprendono possesso dell’ “azienda di famiglia” affidata negli ultimi anni alle sorelle rimaste ad aspettarli.
Ma cosa trovano al loro rientro? Il nemico combattuto in Francia, li aspettava tra le mura di casa. Una volta tornati liberi e padroni della città infatti, tutti i fratelli iniziano a sviluppare comportamenti bizzarri e imprevedibili: scatti d’ira, reazioni emotive incontrollate, abuso di sostanze e una eccessiva ricerca di rischi e efferatezze.
Come ormai in molte serie tv, il Disturbo da Stress Post-Traumatico diventa il “lato oscuro” di questi antieroi, il motore del loro agire e della narrazione stessa. Ma vediamoli più da vicino.
Tutti i sintomi del Disturbo da Stress Post-Traumatico (o nevrosi da guerra) sono ormai noti e riconoscibili anche per il grande pubblico: flashback, insonnia, incubi, allucinazioni, esplosioni di rabbia, depressione, abuso di sostanze. I fratelli Shelby reduci dalla guerra mostrano segnali evidenti di questa grave sofferenza psicologica che, aldilà della fiction cinematografica, può essere molto invalidante ed esporre al rischio di suicidio. Arthur e John sono aggressivi, irritabili, abusano di whiskey e cocaina, provano eccitamento nel minacciare, uccidere, sottomettere. Spesso perdono di vista gli affari o peggiorano in modo drammatico il loro comportamento di gangster, perdendo anche la stima e la fiducia della famiglia. Tommy Shelby invece appare diverso. La guerra non sembra aver intaccato la sua capacità di pianificare, di “proteggere” gli interessi di famiglia e di sedurre amici e nemici di ogni genere. E’ sempre in controllo delle sue emozioni e di quelle degli altri. Riesce a superare nuovi lutti e incidenti, nuove morti e abbandoni. E’ sempre vigile e capace di cogliere pericoli prima degli altri, restando calmo e capace di offrire sempre un piano B, per tutti.
Cosa permette a Tommy Shelby di restare così lucido, distaccato e impermeabile alla paura? Resilienza? Intelligenza? Narcisismo? Dissociazione?
Certamente una buona dose di Narcisismo sembra sostenerlo nei momenti di difficoltà e garantirgli un buon livello di energia psichica per andare avanti, inseguendo il sogno di abbandonare la malavita e scalare i vertici della politica del suo paese. Tuttavia questa autostima iperbolica non funziona affatto quando il trauma della guerra riemerge fuori dal suo controllo e proprio nei momenti di calma e serenità: il Narcisismo fallisce di fronte alla violenza dei sintomi da stress post traumatico e non lo aiuta a tenere insieme le parti diverse della sua identità, pre e post-traumatica. Quando è al sicuro Thomas Shelby diventa infatti improvvisamente vulnerabile: si trasforma, arrivano flashback, allucinazioni, paranoia, paura e una grave frammentazione del sé che ci mostrano tutta la gravità della Dissociazione traumatica interna di cui soffre. Abbiamo dunque due Tommy, uno “debole ed emotivo” che conserva sotto traccia i ricordi traumatici e il dolore della guerra, l’altro “forte e visibile agli altri” che è sempre pronto alla prossima battaglia. Quest’ultimo in effetti ha bisogno di una sfida per esistere, altrimenti le emozioni dell’altro prendono troppo spazio e forza nella sua mente. Questa alternanza rende la narrazione molto avvincente, ma allo stesso tempo ci permette di rintracciare sul piano clinico la presenza di sintomi post-traumatici solitamente meno evidenti, ma molto più frequenti nella realtà clinica delle persone che hanno vissuto una o più situazioni traumatiche, anche quando la loro parte più soffrente è offline. Ecco i sintomi post-traumatici che la parte “forte” di Tommy Shelby lascia trasparire:

  • Il pervasivo distacco emotivo in situazioni emotive o di pericolo estreme, è primo e più importante segnale dissociativo. Salta la percezione del rischio e del pericolo di vita.
  • Evitamento di situazioni o di argomenti legati al trauma, attraverso la manipolazione del contesto e delle persone. L’obiettivo implicito e non riesporsi alla situazione temuta.
  • Ritiro dalle relazioni, Pervasivo senso di sfiducia nell’essere aiutati, Autonomia ed autosufficienza estreme anche di fronte a gravi difficoltà.
  • Umore negativo e pensieri negativi persistenti su sé, sugli altri e sul proprio futuro
  • Perdita di senso del sé e di obiettivi di vita prima importanti.
  • Bisogno di sedare l’ansia attraverso l’uso di sostanze.
  • Ricerca compulsiva del sesso per regolare emozioni sgradevoli e intollerabili.
  • Il bisogno eccessivo di controllo su ogni aspetto della vita personale e familiare.
  • Senso pervasivo di colpa e vergogna, anziché una sana e forse più tollerabile responsabilità.

Le fiction ci offrono spesso uno spaccato della psicopatologia con la superficialità e la leggerezza che il contesto richiede, ma possono tuttavia offrire una rappresentazione chiara – seppur cinematografica – che permette importanti riflessioni cliniche.
Un primo spunto clinico è legato proprio alle caratteristiche esteriori di Thomas Shelby e ci ricorda l’importanza, nella clinica quotidiana, di indagare e riconoscere sempre anche i sintomi più nascosti del Disturbo da Stress Post-Traumatico e non subire la “fascinazione” di alcune identità, o parti della personalità, narcisistiche, iper-razionalizzanti o evitanti, che tendono a mettere una maschera apparentemente normale, alle emozioni più intollerabili e dolorose legate al trauma. Questa maschera permette da un lato di “ri-organizzare” il proprio mondo interno così frammentato, ma ostacola dall’altro la comprensione della sofferenza emotiva, innalzando difese forti contro ogni intervento clinico. Quando assistiamo a questo tipo di sintomi nascosti, gli episodi più importanti da esplorare con i pazienti non sono solo quelli legati ai comportamenti distruttivi, di dipendenza o di rischio, ma soprattutto i momenti di noia e di vuoto, le giornate più calme e prive di impegni, le ore di solitudine. Solo da questa finestra è possibile intravedere la frammentazione interna e iniziare a prendersene cura.
Un secondo spunto clinico, che emerge chiaramente nella narrazione, è inoltre l’importanza nell’osservare nei pazienti la ciclicità dei sintomi a l’alternanza di periodi di calma a periodi di malessere. Quello che risulta nella fiction un facile espediente narrativo, diventa nella vita reale dei pazienti una “gabbia” in cui tendono a ripetersi ciclicamente emozioni, pensieri e comportamenti sempre uguali e difficili da evitare. La sensazione di non avere il controllo sulle proprie azioni, salvo poi recuperarlo attraverso strategie disfunzionali o dannose, è il ciclo da individuare e interrompere in terapia, osservando le emozioni che lo muovono e lo rendono necessario.
Con un appropriato intervento clinico Thomas Shelby non avrebbe probabilmente più avventure da raccontare, ma nella realtà clinica senza un appropriato intervento clinico il Disturbo da Stress Post-Traumatico tende a peggiorare nel tempo e ripresentarsi anche a distanza di molti anni nello stesso identico modo. Tendono inoltre a peggiorare anche l’umore e l’ideazione suicidaria esponendo la persona e i suoi familiari a rischi gravi per la salute.
Dunque lunga vita a Thomas Shelby! Ma resta importante nella vita reale cercare invece una risoluzione e darsi la possibilità di elaborare i traumi del passato, affinché non condizionino così intensamente il nostro presente e la nostra personalità.

Trauma e corpo: Bessel Van der Kolk

“Troppo spesso né il paziente né il terapeuta

riconoscono la connessione tra il problema attuale

e la storia di un trauma cronico.”

Judith Herman (1992, p.23)

 
Di recente uscita in Italia il volume di Bessel Van der Kolk “Il corpo accusa il colpo” (Raffaello Cortina Editore, 2015), summa di tutta l’esperienza umana, clinica e di ricercatore di uno dei massimi esperti del trauma nel mondo. Il libro è una interessantissima rassegna della vita professionale di van der Kolk, che traccia l’evoluzione della cultura del trauma negli ultimi 30 anni insieme al progresso delle scoperte neuroscientifiche che ormai offrono una mappa sempre più chiara del funzionamento del cervello, del corpo e della mente di persone vittime di traumi gravi o traumatizzazione cronica
“Il corpo accusa il colpo ” è un libro per tutti, cinici, ricercatori, pazienti e lettori curiosi di approfondire questi tempi. Le storie raccontate e i riferimenti scientifici aiutano a cogliere un panorama ampio e multidisciplinare che rende il libro utile a diverse discipline: dalla psicoterapia allo yoga, dalla fenomenologia al teatro, dalle neuroscienze alla fisioterapia.
Il cuore delle considerazioni di Van der Kolk riguarda l’osservazione dei cambiamenti che il trauma produce nel sistema mente-corpo su diversi livelli di elaborazione che vanno tutti affrontati in psicoterapia e con diversi strumenti terapeutici. In particolare evidenzia l’importanza di conoscere la struttura gerarchica delle risposte difensive alla minaccia di vita e al pericolo, poiché queste risposte – che sono normali e adattive nel corso del trauma – tendono a restare attive in modo disfunzionale oltre il necessario, generando sintomi psicopatologici di allerta, ipervigilanza, numbing o dissociazione anche molto tempo dopo il trauma. Queste risposte afferiscono a strutture sottocorticali (sistema limbico e sistema “rettiliano” del tronco dell’encefalo) che regolano le emozioni in modo automatico e al di sotto del controllo consapevole e cosciente della corteccia prefrontale e delle cortecce superiori; questo significa che agiscono soprattutto sul corpo provocando reazioni fisiologiche e reazioni comportamentali coerenti con la percezione del pericolo (o meglio Neurocezione) che il sistema emotivo percepisce nell’ambiente. In pazienti traumatizzati che vivono uno stato di allerta continuo verso l’ambiente circostante e che vivono un pervasivo senso di pericolo, imprevedibilità e vulnerabilità personale, questo sistema sarà sempre attivo e sarà il primo “sistema” su cui lavorare in psicoterapia.
Solo dopo aver stabilizzato il sistema difensivo attraverso una maggiore consapevolezza e regolazione dei segnali del corpo, sarà possibile accedere all’elaborazione delle emozioni, dei vissuti, dei pensieri e infine delle memorie che condizionano le scelte e il futuro delle persone vittime di trauma. Lavorare subito e solo sul piano dei pensieri e delle interpretazioni che le persone hanno fatto delle esperienze traumatiche, può portare a sviluppare una narrazione non integrata degli eventi, che rischia cioè di essere frutto di un processo di mera razionalizzazione scollegata dal piano emotivo e dal corpo. Questo espone ad una ulteriore dissociazione all’interno della mente: una ragione in grado di raccontare i fatti, un corpo reattivo e terrorizzato che continuerà a produrre sintomi di ansia, depressivi o dissociativi legati alle risposte di allerta non incluse nel processo di  cura.
Recuperare una narrazione integrata e “incarnata” (embodied) è l’obiettivo di un lavoro terapeutico efficace sul trauma, che aiuta a recuperare risorse di resilienza e una nuova base per ripartire verso il futuro con un cervello, un corpo e una mente saldamente sintonizzate tra loro e ancorate al presente che li circonda.
Di seguito un mio articolo pubblicato su State of Mind che racconta dell’ultimo workshop del Dott. Van der Kolk a Milano (Gennaio 2016):

Trauma: il corpo accusa il colpo! – Workshop di Van Der Kolk a Milano, Gennaio 2016


 
Bibliografia:
Van der Kolk, B. (2015). Il corpo accusa il colpo. Raffaello Cortina Editore
 

EMDR: quando aiuta di più?

“Più vai lento, più vai veloce.”

Richard Kluft

L’EMDR è un metodo terapeutico evidence based che aiuta le persone che hanno vissuto una o più situazioni traumatiche ad elaborare i ricordi e a “liberare” la mente dai frammenti più dolorosi e irrisolti, che spesso sono alla base dei principali sintomi da stress post traumatico, d’ansia e depressivi.
E’ stato riconosciuto come metodo d’elezione per il trattamento del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e sono numerose ormai le evidenze scientifiche sulla sua efficacia nel trattamento di sindromi complesse correlate a traumatizzazione cronica e disturbi dissociativi (trovate qui informazioni e riferimenti ufficiali). La rapidità con cui permette di elaborare eventi traumatici del passato e acquisire una nuova prospettiva su di essi è una delle principali e più sorprendenti caratteristiche, a confronto con altri tipi di terapie che lavorano sulle memorie traumatiche, e questo ha alimentato grande interesse da parte dei clinici e dei pazienti stessi.
Di particolare interesse sono le recenti pubblicazioni scientifiche portate avanti da un team di ricerca tutto italiano (Pagani M., et al 2010, 2011) sul monitoraggio dell’attività cerebrale tramite elettroencefalogramma (EEG) prima, durante e dopo un trattamento EMDR: i risultati hanno evidenziato un cambiamento sorprendentemente significativo tra le prime sedute e le ultime. In particolare nelle prime il recupero dei ricordi autobiografici, delle immagini e delle emozioni negative associate attiva intensamente la corteccia limbica e la corteccia prefrontale (responsabili delle risposte emotive e delle nostre reazioni in situazioni di emergenza o di pericolo) e questa risposta permane durante l’intero processo di desensibilizzazione; mentre l’attività corticale si modifica radicalmente a conclusione del processo di elaborazione, mostrando una maggiore attivazione delle regioni corticali temporali, parietali e occipitali con una chiara lateralizzazione sinistra. Questi dati hanno permesso di ipotizzare l’effettivo “passaggio” del ricordo traumatico da una rete mnestica sottocorticale, che continua a riattivare nel PTSD il ricordo traumatico a causa della reattività delle aree del cervello limbico e prefrontali legate alla percezione del pericolo e alle risposte di emergenza, ad una rete più corticale in cui il ricordo viene riorganizzato in una memoria più cognitiva e semantica, che permette la rievocazione dell’evento traumatico, ma non più delle reazioni emotive dolorose ad esso associate. “Queste scoperte suggeriscono un‘elaborazione cognitiva dell’evento traumatico in seguito a terapia EMDR riuscita e sostiene l’evidenza di distinti modelli neurobiologici di attivazione del cervello durante i movimenti oculari bilaterali nella fase di desensibilizzazione dell’EMDR (fonte EMDRItalia.it).”
La ricerca su questi meccanismi neurobiologici andrà avanti e cidarà sempre più risposte, ma quello che tuttavia resta a noi terapeuti è: come declinare il metodo nella clinica quotidiana?
Come spesso accade i risultati scientifici fanno crescere entusiasmo e speranze tra clinici e pazienti, sviluppando da un lato grande curiosità e passione nella ricerca di evidenze sperimentali, ma da l’altro alimentando una certa quota di “pensiero magico” circa l’efficacia del metodo e la sua applicabilità!
E’ dunque importante sapere per tutti, clinici e pazienti che vorranno avvicinarsi a questo tipo di trattamento, che si tratta di una tecnica terapeutica che va integrata in un percorso di psicoterapia e soprattutto in una relazione terapeutica.
Come tale l’EMDR offre incredibili risultati a fronte però di una cornice di lavoro molto specifica, articolata e solida, in cui sarà importante definire dettagliatamente la diagnosi, la storia di vita, la sintomatologia presente e le risorse presenti nel paziente per fronteggiare la vita quotidiana e le emozioni veementi che spesso vengono stimolate dalla rievocazione del ricordo target su cui si sceglie di lavorare.
Nella mia esperienza le condizioni di miglior efficacia sono:

  • La corretta diagnosi e l’approfondimento di disturbi dissociativi sottostanti;
  • L’individuazione dei ricordi target effettivamente collegati alla sofferenza attuale del paziente;
  • La creazione di un’alleanza terapeutica chiara su obiettivi, metodo e fasi della terapia;
  • Una relazione di fiducia, in cui paziente e terapeuta possano affrontare la fase della elaborazione delle memorie traumatiche in un contesto percepito sicuro e privo di pericoli per entrambi;
  • La conoscenza e applicazione del protocollo standard come prima scelta e la padronanza di tecniche di integrazione cognitive e corporee da utilizzare nei casi più complessi;
  • Offrire sempre al paziente la possibilità di scegliere durante l’intero processo di cura;
  • Riconoscere e rispettare le resistenze e le fobie che possono attivarsi verso il recupero delle memorie, anche in presenza di una grande motivazione del paziente al lavoro EMDR;
  • Il processo di elaborazione può sollecitare inizialmente emozioni negative, ma non deve essere in nessun caso traumatico; quando il momento è quello giusto le emozioni negative tendono a ridursi abbastanza rapidamente e a lasciare spazio e nuove emozioni e prospettive;
  • Seguire un percorso a fasi che preveda una fase di stabilizzazione iniziale del paziente, che consenta una buona padronanza dello “scenario” su cui si andrà a lavorare e dei possibili vantaggi e svantaggi del lavoro stesso, e solo successivamente un lavoro di elaborazione mirato e diretto sulle memorie traumatiche.

Se queste caratteristiche non vengono rispettate, il lavoro EMDR rischia di generare ulteriori resistenze e di aumentare la fobia del ricordo traumatico e il senso di impotenza spesso tipico in persone traumatizzate.
Quando al contrario queste condizioni sono rispettate, l’EMDR permette di “volare” verso una nuova prospettiva, di rinnovare le proprie risorse verso la resilienza necessaria ad andare avanti in una vita piena e caratterizzata dal recupero di un contatto profondo, solido e integrato con se stessi, con gli altri e con la realtà.
Certo è che i tempi per raggiungere questi obiettivi possono variare da persona a persona e certamente si allungano in situazioni più complesse di traumatizzazione cronica, ma in psicoterapia a volte la lentezza produce cambiamenti più grandi e più duraturi.
 

Cos'è l'EMDR?

L’EMDR è un approccio complesso utilizzato per elaborare eventi traumatici e consiste in una metodologia strutturata che può essere integrata nei programmi terapeutici aumentandone l’efficacia.
Il modello considera tutti gli aspetti di una esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici e vede nella patologia il “sintomo” di un’informazione immagazzinata in modo non funzionale, su tutti i livelli: cognitivo, emotivo, sensoriale e fisiologico.
Quando avviene un evento ”traumatico” l’equilibrio tra le nostre reti neurali (eccitatorie e inibitorie) viene disturbato e l’elaborazione di conseguenza resta bloccata, come “congelata” nella sua forma ansiogena originale. Questo è il modo in cui le sensazioni del passato si ripropongono come “sintomi” nel presente.
Questa metodologia si fonda su un processo neurofisiologico naturale, legato all’elaborazione accelerata dell’informazione (AIP) e utilizza movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio neuro fisiologico, provocando così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.
I movimenti oculari saccadici e ritmici usati con l’immagine traumatica, con le convinzioni negative ad essa legate e con il disagio emotivo facilitano infatti la rielaborazione dell’informazione fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi. Nella risoluzione adattiva l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo.
Le ricerche condotte su vittime di violenze sessuali, di incidenti, di catastrofi naturali, ecc. indicano che il metodo permette una desensibilizzazione rapida nei confronti dei ricordi traumatici e una ristrutturazione cognitiva che porta a una riduzione significativa dei sintomi del paziente (stress emotivo, pensieri invadenti, ansia, flashback, incubi).
L’EMDR è usato fondamentalmente per accedere, neutralizzare e portare a una risoluzione adattiva i ricordi di esperienze traumatiche che stanno alla base di disturbi psicologici attuali del paziente.
Queste esperienze traumatiche possono consistere in:

  • Piccoli/grandi traumi subiti nell’età  dello sviluppo
  • Eventi stressanti  nell’ambito delle esperienze comuni (lutto, malattia cronica, perdite finanziarie, conflitti coniugali, cambiamenti)
  • Eventi stressanti al di fuori dell’esperienza umana consueta quali disastri naturali (terremoti, inondazioni) o disastri provocati dall’uomo (incidenti gravi, torture, violenza)

Negli ultimi anni ci sono stati più studi e ricerche scientifiche sull’EMDR che su qualsiasi altro metodo usato per il trattamento del trauma e dei ricordi traumatici. I risultati di questi lavori hanno portato questo metodo terapeutico ad aprire una nuova dimensione nella psicoterapia. L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità . Nel 1995 il Dipartimento di Psicologia Clinica dell’American Psychological Association (APA) ha condotto una ricerca per definire il grado di efficacia di questo metodo terapeutico e le conclusioni sono state che l’EMDR è non solo efficace nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico ma che ha addirittura l’indice di efficacia più alto per questa categoria diagnostica.
(Fonte: Associazione EMDR Italia )
EMDR Institute USA
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Stress post-traumatico: come riconoscerlo?

Sempre più spesso si sente parlare di Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) e la sua presenza in film e telefilm è quasi sempre associata ad ambienti militari, situazioni di guerra o a grandi catastrofi naturali.

Immagine tratta dal film "Valzer con Bashir" di Ari Folman (2008)
Immagine tratta dal film “Valzer con Bashir” di Ari Folman (2008)

“(1) Aver vissuto o aver assistito a uno o più eventi che hanno implicato morte o minaccia di morte o grave minaccia all’integrità fisica propria o altrui e (2) aver provato di fronte a tali eventi intensa paura, impotenza e orrore” (DSM IV) sono le due condizioni necessarie per determinare la diagnosi di disturbo da stress post-traumatico. Oltre alle guerre e alle catastrofi, vengono in mente allora molte situazioni traumatiche e spesso più frequenti nella vita quotidiana e nell’esperienza clinica: violenze, fisiche o verbali, ricevute o assistite, incidenti, aggressioni, interventi chirurgici, lutti solo per citarne alcuni.

I sintomi più celebri, nonché i più frequenti per parlare di DPTS, sono i flashback degli eventi traumatici, rivissuti nel presente in modo vivido e spesso molto realistico, tanto da sembrare vere e proprie allucinazioni. Seguono poi insonnia, incubi, irritabilità, stato costante di allerta, difficoltà di concentrazione, deficit di memoria, eccessiva reattività a stimoli non pericolosi o neutri collegati in qualche modo all’evento traumatico. Tutti i “sintomi” descritti, sono in realtà NORMALI REAZIONI ad eventi traumatici che hanno in sé le caratteristiche sopra descritte, quando tuttavia compaiono per un periodo di tempo prolungato possono causare eccessivo malessere e l’assunzione di condotte invalidanti per la vita di chi ne è affetto e dei suoi familiari. Riconoscere tempestivamente i sintomi e intervenire con terapie adeguate costituiscono ovviamente elementi cruciali per una buona prognosi.

Ma continuiamo sui sintomi più frequenti per imparare a riconoscerli…

Oltre alle reazioni descritte, ce ne sono alcune meno note che mi preme descrivere, poiché molto più frequenti nell’esperienza comune di coloro che soffrono di stress post traumatico e ugualmente spaventanti, se non ri-conosciute come tali.

Senso di irrealtà: sensazione di essere in un film o in un sogno, di osservare la realtà da sotto una campana di vetro, di non essere appieno dentro al situazione, di sentirsi distaccati, disinteressati a quello che succede intorno —– spesso confuso come semplice attacco i panico, se si presenta come unico sintomo.

Reazioni fisiche intense: nausea, difficoltà di digestione, stanchezza cronica, spossatezza —– spesso confuse con malattie organiche, attacco di panico o ipocondria.

Vulnerabilità: sentirsi più esposti può determinare un pervasivo timore per il futuro o la scomparsa di interesse per attività prima considerate fondamenti della propria vita (lavoro, attività sportive, hobby..). Questi cambiamenti hanno ripercussioni relazionali anche gravi, con familiari e amici —- spesso associato a sintomi depressivi primari o ad aspetti di personalità problematici.

Pensieri intrusivi: pensieri catastrofici che arrivano improvvisamente mentre si sta lavorando o mangiando o guidando l’automobile. Sono spesso collegati all’evento traumatico vissuto, ma la loro comparsa imprevedibile li fa percepire come fuori controllo. —- spesso associato ad ansia generalizzata.

Significato della vita: spesso chi ha subito un forte trauma inizia a farsi domande sul senso della vita, sul perché esistiamo, tutto diventa incerto, tutto perde di senso e le certezze possedute sembrano irrecuperabili dopo la traumatizzazione. —- spesso associato a sintomi depressivi primari (ruminazione).

NB: Spesso i sintomi non compaiono immediatamente dopo il trauma, ma possono manifestarsi alcuni mesi dopo o talora diversi anni dopo, al presentarsi di un nuovo evento traumatico o di una situazione che riporti alla memoria l’evento del passato. Questo quadro clinico richiede ovviamente una dettagliata raccolta anamnestica ed eventualmente l’utilizzo di tecniche mirate a recuperare i ricordi antichi collegati ai problemi attuali. Una volta identificata l’origine traumatica dei sintomi, la prognosi diventa migliore grazie alle molte e validate tecniche terapeutiche (es. EMDR) ad oggi ampiamente utilizzate nella cura del DPTS.

La diagnosi e il trattamento necessitano in ogni caso dell’attenta valutazione di un clinico e in nessun modo la lettura delle informazioni fornite in questo articolo può sostituirsi alla consultazione con uno specialista. I sintomi descritti possono aiutare a leggere in modo più preciso, alcune sensazioni comuni che altrimenti possono restare incomprensibili e “spaventose” per chi si trova a viverle.

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Cos’è l’EMDR?

Si tratta di un metodo di lavoro che permette di lavorare sui ricordi traumatici e di ri-elaborarli in modo più funzionale, collocandoli nel proprio percorso di vita e riducendo l’effetto disturbante generalmente legato alla rievocazione del ricordo. Il processo terapeutico è caratterizzato da una prima fase di recupero dei principali eventi di vita, considerati traumatici e attualmente disturbanti, e una seconda fase di elaborazione degli elementi essenziali del ricordo in una chiave di lettura più “sana”, decentrata e priva degli effetti negativi, sul piano fisico ed affettivo, che quel evento aveva prima del trattamento.

emdr

L’EMDR sta per Eyes Movement Desensitization and Reprocessing e si basa sulla teoria dell’Elaborazione Accellerata dell’Informazione (AIP). In breve, questo modello della mente afferma che ogni essere umano è dotato di un sistema neurologico e fisiologico che permette di elaborare le informazioni in entrata (eventi, pensieri, emozioni,..) mantenendo un equilibrio tra lo stato del sistema “prima” e “dopo” l’ingresso di quell’informazione. Questa tendenza all’equilibrio permetterebbe alla mente di andare sempre verso una risoluzione adattiva e funzionale, in cui la mente riesce ad integrare vecchie e nuove informazioni e a recuperare l’equilibrio perso. Gli elementi che si vanno ad integrare sono: esperienze, emozioni, pensieri, reazioni fisiologiche e comportamenti.

Sia le esperienza positive che quelle negative possono quindi essere affrontate ed elaborate in modo autonomo ed efficace dalla nostra mente e su tutti i livelli (fisico, emotivo, cognitivo e comportamentale). In alcuni casi, tuttavia, le reazioni  che si attivano in risposta ad un episodio traumatico faticano ad essere integrate nel sistema e si genera quello che viene definito un pattern continuo di emotività: la reazione emotiva ad un evento non dura cioè il tempo necessario ad essere elaborata in modo adattivo, ma continua a manifestarsi anche a distanza di tempo e in assenza dello stimolo che l’aveva provocata. Diventa appunto un pattern che si riattiva quando una sensazione, un pensiero o un emozione simili a quelle provate in occasione di quel unico evento traumatico, vengono ri-esperiti o rievocati.

L’emotività e le sensazioni fisiche legate a quell’evento restano come “congelate” nella rete neurale e isolate dagli altri eventi di vita, in una perpetua attivazione che difficilmente viene spenta senza un intervento terapeutico specifico. L’esempio più tipico è il Disturbo da Stress Post-Traumatico, per cui l’EMDR è il trattamento d’elezione secondo l’Evidence Based Medicine.

Quali traumi causano l’attivazione del pattern continuo di emotività?

La gravità del trauma è legata innanzitutto alla reale o soggettiva percezione di essere in pericolo di vita.

Quindi tutte le situazioni  in cui questa minaccia è stata percepita come reale, sono situazioni potenziali per sviluppare un pattern continuo di emotività disturbante. E’ questo il caso degli abusi sessuali, degli incidenti, della catastrofi naturali. Una seconda situazione è quella dei traumi ripetuti, cioè traumi soprattutto relazionali in cui non si è sperimentato un vero e proprio pericolo di vita, ma in cui una particolare emozione si sia attivata in modo frequente e disfunzionale e senza dare la possibilità di una elaborazione completa dell’evento (Es: un clima familiare molto conflittuale in cui si è assistito a frequenti e intensi litigi tra i genitori).

L’intervento attraverso l’EMDR permette innanzitutto di sciogliere questo pattern di attivazione, molto disturbante e non più utile rispetto al passato, e di aprire lo spazio per una nuova elaborazione più adattiva dell’evento traumatico.

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