Last summer (2014) di Seragnoli – Recensione

E’ possibile rafforzare un legame alle soglie di un addio?

Last Summer (2014) è l’opera prima di Leonardo Guerra Seragnoli e mi è parso un film di particolare interesse psicologico perché in grado di offrire un racconto poetico ma molto dettagliato delle trame sottili che si intrecciano in una delle relazioni più importanti e significative della nostra vita: quella tra una madre, Naomi, e suo figlio, Ken.

La trama racconta di un legame difficile e della necessità di affrontare una separazione che sia protettiva e necessaria al legame stesso. Un tema complesso, ma descritto con la semplicità degli sguardi e dei movimenti di un bambino che cerca di elaborare l’abbandono uscendone rafforzato e più fiducioso, nonostante l’inevitabile dolore e la distanza che lo aspetta.

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La danza dell’attaccamento tra madre e figlio viene rappresentata in modo perfetto tra ricerca di vicinanza e ciclici rifiuti. Il ritmo segue l’evoluzione del loro legame, della fiducia ritrovata, della possibilità di sentire l’uno le emozioni dell’altro e di accettarle, con la lentezza e la sicurezza che meritano. Il trauma può essere riparato, se il legame torna ad essere sicuro e sintonizzato, capace di accogliere il dolore e di restituire calma e speranza per il futuro.

Di seguito la recensione completa pubblicata su State Of Mind:

Last Summer (2014): l’ultima estate di Naomi e Ken – Recensione del film



 
 
 

Percezione del pericolo e sicurezza: La teoria Polivagale

Per noi essere umani l’esplorazione dell’ambiente è stata in origine fonte di rischi e pericoli. Alla nascita il nostro sistema nervoso è immaturo e abbiamo bisogno di cure e protezione per sopravvivere. 
Sin da piccolissimi tuttavia, siamo in grado di intercettare i pericoli dell’ambiente e di segnalarli a chi ci è vicino attraverso il pianto, il lamento o vocalizzazioni. Questo permette di segnalare velocemente a chi deve proteggerci che siamo in pericolo e costituisce un basilare sistema di protezione dalla minaccia, che evolverà successivamente in età adulta e permetterà a noi stessi di valutare la presenza di pericoli e minacce, per scegliere le reazioni e i comportamenti per noi più protettivi. Questa antichissima abilità percettiva è stata definita da Stephan Porges “Neurocezione” ed è un vero e proprio “senso”, che orienta la nostra attenzione nell’ambiente e che ci permette di intercettare i pericoli al di sotto della soglia di consapevolezza, e che funziona quindi in modo istintivo e automatico. Proprio come l’olfatto ci permette di individuare odori piacevoli o sgradevoli e orienta le nostre scelte, allo stesso modo il Sistema di Neurocezione è online e attivo per aiutarci ad intercettare i pericoli il più velocemente possibile. Le strutture cerebrali che permettono questo risiedono nelle parti evolutivamente più antiche del cervello e sono collegate ai circuiti difensivi primordiali direttamente collegati ai comportamenti di attacco, fuga, congelamento e collasso.
Quando lo sviluppo dell’individuo segue una evoluzione lineare, caratterizzata da un percorso di graduale autonomia in un contesto che sia sufficientemente protettivo e al tempo stesso capace di offrire l’esplorazione necessaria del mondo, il sistema neurocettivo evolve di pari passo e permette all’individuo di imparare come orientare l’attenzione nell’ambiente in modo appropriato e adeguato alle circostanze; questo permette di esplorare con calma e sicurezza anche le situazioni nuove, lasciando attivo il sistema di difesa primordiale solo in situazioni più estreme e eccezionali di pericolo o minaccia alla vita.
Ma cosa succede quando lo sviluppo e la crescita di un individuo avvengono in un contesto non protettivo, trascurante o esso stesso fonte di pericoli? Come si adatta il nostro sistema emotivo quando restiamo vittime di abusi, violenze o maltrattamenti nella prima infanzia?
In questi casi molto spesso il nostro sistema neurocettivo evolve prendendo strade meno lineari: tende cioè a restare iperattivato durante tutta l’infanzia, finché il contesto di vita risulta pericoloso e fonte di minaccia, e conserva questa soglia di reattività anche in età adulta, esponendo la persona a reazioni di allerta eccessive e non necessariamente proporzionate al pericolo effettivo.  In questo tipo di sviluppo traumatico, il sistema neurocettivo si abitua ad intercettare il pericolo anche nelle relazioni, che sono stata la fonte primaria di minaccia, e blocca la possibilità di affidarsi e cercare sicurezza negli altri, a fronte di un costante stato di allerta che garantisce difesa e protezione.
Questo è comprensibilissimo dal punto di vista neurobiologico ed evolutivo: il sistema emotivo impara che è meglio restare in allerta perché il mondo è arbitrario e potenzialmente pieno di pericoli! Ma diventa meno comprensibile nei contesti sociali, nelle relazioni intime e, in generale, nella vita quotidiana, esponendo la persona già vittimizzata ad un ulteriore isolamento e distanza dagli altri che faticano a comprendere questo tipo di reazioni.
Questo circolo vizioso può essere modificato attraverso la psicoterapia e il sistema neurocettivo può re-imparare una nuova soglia di allerta verso l’ambiente e le relazioni, aiutando la persona a gestire meglio l’ansia e a cercare con più serenità il contatto e la vicinanza degli altri, senza vivere il contatto e l’intimità con terrore, ma cercando nelle relazioni che lo meritano, calore e sicurezza.
Per chi è interessato di seguito alcuni miei contributi pubblicati su StateOfMind, relativi alla Teoria Polivagale di Stephan Porges, il principale ricercatore che si è occupato di formulare una teoria complessa dell’evoluzione dei nostri sistemi difensivi da una prospettiva neurobiologica: 

Intervista con Stephen Porges: La Teoria Polivagale e le basi fisiologiche delle nostre intuizioni


 

A cosa servono le neuroscienze nella pratica clinica? Il modello di Stephen Porges


 
 

Attaccamento e relazioni adulte: strategie! (III Parte)

Come possiamo riconoscere la nostra modalità di attaccamento? Cosa implica nelle nostre relazioni attuali? (LEGGI ANCHE precedenti contributi sul tema!)

Un primo concetto importante per comprendere meglio quale sia il nostro stile di attaccamento è l’idea che l’attaccamento, come necessità biologica innata, venga ricercato automaticamente nel caregiver di riferimento, permettendo così di adattarci a qualunque contesto relazionale e sociale. Come già sottolineato nei precedenti contributi sul tema, l’attaccamento nei primi mesi e anni di vita, garantisce la sopravvivenza stessa dell’individuo e dunque costituisce un bisogno irrinunciabile anche nei contesti più difficili e inadatti ad accogliere questo bisogno.

Un secondo concetto fondamentale è dunque l’idea che qualunque cosa facciamo per raggiungere e mantenere questo legame nell’infanzia sia non solo lecito e necessario, ma spesso anche “la cosa migliore da fare in quel momento. Piangere di più o non piangere mai, urlare più forte o mantenere un’espressione adeguata, aggredire il caregiver o prendersi cura di lui: tutto è funzionale se volto a garantirci quel legame, nel momento in cui ne abbiamo più bisogno.

Dati questi due punti di partenza, il corollario che ne deriva è che molto spesso le nostre modalità di attaccamento (o meglio di relazione) restano invariate in età adulta e non sempre integrate da altre modalità più adulte e funzionali. Insomma, continuiamo a cercare il partner o a crescere i nostri figli utilizzando quell’antica modalità di “legarci” agli altri come principale modus operandi e questo, in alcuni casi, può diventare anche molto disfunzionale. Questi pattern – che contengono emozioni, pensieri e comportamenti – tendono a stabilizzarsi nel tempo, pur non restando gli unici modi possibili di relazione, e vanno a costruire il nostro bagaglio di “reazioni” e soluzioni a determinati contesti relazionali (chiamati Internal Working Model o Modelli Operativi Interni).

attaccamento-bowlbyIn estrema sintesi, tutti gli stili di attaccamento muovono da un unico obiettivo: mantenere la massima vicinanza possibile al caregiver. Come viene raggiunto questo scopo?

Di seguito le principali modalità di attaccamento in cui ognuno di noi può facilmente ritrovarsi:

1  Attaccamento sicuro o B: si sviluppa quando da bambini si è potuto sperimentare un libero e incondizionato accesso alla figura di attaccamento, in condizioni di necessità, e questo  ha permesso di interiorizzare una idea dell’altro accogliente e positiva. Questo stile di attaccamento si manifesta in età adulta con una generale fiducia nel partner, con la capacità di vivere sia l’intimità, condividendo emozioni e bisogni profondi, sia la distanza senza angoscia o timori. Le relazioni frutto di un attaccamento sicuro consentono di creare e mantenere legami soddisfacenti, ricchi e capaci di adattarsi in modo flessibile al contesto e ai cambiamenti di vita, rispettando bisogni di vicinanza e accudimento, così come quelli di autonomia nei propri spazi di vita. Resta l’idea che l’altro possa rispondere ai nostri bisogni e restarci vicino, mentre proviamo ad esplorare il mondo e ad assumerci i rischi che questo comporta.

2 Attaccamento insicuro-evitante o A: si sviluppa quando da bambini si è vissuto in presenza di una figura di attaccamento rifiutante o completamente inaccessibile nel rispondere ai bisogni primari (es: genitore depresso, assente per lavoro, malato). Il bambino matura in questo caso una precoce ed eccessiva autonomia, con apparenti manifestazioni di distacco e di rifiuto-di-aiuto, “immunizzante” rispetto alla sofferenza di essere soli. La distanza relazionale diventa uno strumento per controllare queste emozioni e sperare in un contatto riducendo al minimo le richieste. Questo stile si manifesta in età adulta con atteggiamenti di ritiro, di isolamento e sfiducia totale nell’altro. Nelle relazioni emerge una profonda incapacità nel condividere bisogni, emozioni e pensieri in modo libero e autentico. Resta l’idea che l’intimità possa produrre un immediato allontanamento dell’altro e questo viene evitato a tutti i costi.

3 Attaccamento insicuro-ambivalente o C: si sviluppa quando da bambini si è vissuto in presenza di una figura di attaccamento imprevedibile nella sua presenza o capacità di rispondere ai bisogni primari. Quando si è esposti ciclicamente ad esperienze di intimità e improvvise perdite del legame, si sviluppa nel bambino una modalità di attaccamento basata sulla necessità di mantenere costante la vicinanza, sia in condizioni di necessità che in condizioni di sicurezza. Questo provoca sentimenti di colpa o eccessiva responsabilità in caso di rottura del legame. Questo stile si manifesta in età adulta con una fatica nel condividere bisogni ed emozioni in modo autentico e privo di paura, poiché non si riesce a prevedere come l’altro reagirà o meglio si teme l’improvviso abbandono. Resta l’idea illusoria di poter controllare la relazione attraverso la costante negazione dei propri bisogni, riducendo al minimo i rischi di un abbandono, ma oscillando sempre tra bisogno di dipendenza e ostentazione esagerata di autonomia. La colpa eccessiva è il rischio principale in caso di separazione.

4 Attaccamento disorganizzato-disorientato o D: si sviluppa quando da bambini si è sperimentata una condizione di costante minaccia nella relazione di attaccamento, con aggressioni attive o con una grave trascuratezza emotiva (es: genitori maltrattanti, abusanti, abbandono). In questo caso l’obiettivo non è più la ricerca di accettazione o cura, ma la sopravvivenza ad un caregiver minaccioso o pericoloso. La modalità di relazione alterna comportamenti tipici del sistema difensivo attacco, fuga o congelamento con l’obiettivo di “contenere” e ridurre le minacce provenienti dall’ambiente. Questo stile si manifesta in età adulta con una ricerca delle relazioni guidata dalla paura, con un’idea di reale pericolo, ed è condotta con modalità ostili e a loro volta minacciose. Resta l’idea che per sopravvivere nelle relazioni si debba attaccare prima di essere attaccati o che al contrario non c’è nulla da fare, in un mondo che è e resta pericoloso qualunque sia la nostra strategia.

Ogni stile di attaccamento può essere affiancato, in età adulta, da strategie e risorse apprese nel corso dell’esperienza e migliorate dall’incontro con persone significative con cui si riesca ad instaurare legami positivi e funzionali, che danno la possibilità di “rispondere” ad alcuni bisogni rimasti inascoltati e di “costruire”  strategie più efficaci per muoversi nelle relazioni traendone il meglio possibile. 

La psicoterapia è un’esperienza relazionale che può consentire questo cambiamento. Attraverso la comprensione di queste strategie, è possibile modificare o rendere meno automatici i nostri modelli operativi interni. Il cambiamento è possibile, ma solo all’interno di una relazione significativa, protettiva e rispettosa dei limiti relazionali necessari all’esplorazione serena di se stessi e dei propri bisogni.

Nota importante! Le nostre modalità di legarci agli altri non hanno nulla a che fare con l’amore o con la capacità di provare sentimenti profondi, ma solo con il modo in cui comunichiamo questo agli altri e riusciamo a creare con loro un legame autentico, profondo e libero da paure più antiche.

Lorenzini, Sassaroli “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità.” Raffaello Cortina Editore

Attaccamento e relazioni adulte (II parte)

*** Seconda Parte ***

Oltre al sistema di accudimento e di attaccamento (Leggi precedente articolo: Cosa condiziona le nostre relazioni? Attaccamento e relazioni adulte), come esseri umani, siamo dotati un terzo sistema biologico, molto importante per la nostra sopravvivenza, presente sin dalla nascita e che ci accompagna per tutta la vita, che è il sistema di difesa: si tratta di un sistema biologico più arcaico, che coinvolge l’apparato neurovegetativo e consente di mettere in atto reazioni di emergenza (attacco, fuga, svenimento e freezing) in situazioni di pericolo. Quando siamo molto piccoli le situazioni di pericolo attiveranno dapprima il sistema di attaccamento per richiedere protezione, ma se a questo non ci sarà risposta di cura da parte dell’adulto, allora l’allarme resterà così inteso da scatenare strategie di emergenza.
Ovviamente le condizioni per cui non avviene una risposta di accudimento adeguata possono essere molteplici: l’assenza dell’adulto, la trascuratezza, la difficoltà dell’adulto di sintonizzarsi con le necessità del bambino, la presenza di traumi e lutti che hanno colpito la famiglia o il contesto primario di appartenenza. E’ in queste primissime esperienze relazionali che si creeranno i presupposti dei nostri schemi adulti, che ci renderanno in grado di fidarci e affidarci a l’altro, di costruire una relazione.
Una delle condizioni più critiche per lo sviluppo in età adulta di relazioni affettive positive e soddisfacenti è l’aver vissuto durante l’infanzia in presenza di una figura di riferimento a sua volta minacciosa. In questo caso infatti il sistema di attaccamento si trova di fronte ad un paradosso da cui però dipende la propria sopravvivenza: come chiedere aiuto e conforto alla stessa persona che è fonte di pericolo ? L’esito di questo tipo di esperienze è spesso una “disorganizzazione” del sistema di attaccamento, che anche in età adulta non saprà sintonizzarsi con gli altri in modo armonico e positivo; la paura diventa emozione centrale in questa modalità di attaccamento e resta presente sia nella ricerca di intimità che nella lontananza. Il paradosso del sistema di attaccamento è risolto con il permanere di uno stato di allerta, molto costoso in termini emotivi, ma efficace nel garantire una buon percezione di controllo dell’ambiente e delle persone. Viene chiamata “fobia dell’attaccamento” e spesso è tanto più intensa quanto più il legame affettivo diventa per la persona significativo e importante.
Spesso si pensa a situazioni di violenza fisica, di abuso, di grave esplosività nel contesto familiare o di eventi avversi e traumatici che bloccano la possibilità di uno sviluppo sano e funzionale. Quello che meno spesso emerge, è che “fobia dell’attaccamento” può essere costruita giorno per giorno in contesti familiari che siamo abituati a considerare “normali ” e “sani”, ma che posso contenere elementi di minaccia meno evidenti ma altrettanto insidiosi: un clima estremamente critico e svalutante, la labilità o l’assenza di confini relazionali chiari, con poca possibilità di esprimersi come individui autonomi, o un contesto familiare percepiti come imprevedibile e incostante, rispetto alla capacità di corrispondere a bisogni affettivi importanti.
Senza entrare nel merito della psicopatologia e della diagnosi, è importante riconoscere in clinica come nella vita alcuni segnali di questa “fobia dell’attaccamento” che spesso si manifesta con comportamenti apparentemente incongruenti e irrazionali, che assumono un senso solo nel contesto relazionale in cui vengono manifestati:
–  la paura del legame viene spesso espressa con rabbia e rifiuto, allotanando l’altro e garantendo una distanza che permette di recuperare una maggiore sicurezza, controllo e autonomia;
– al contrario la paura può essere espressa con passività e arrendevolezza, mostrando totale adesioni e dipendenza con l’obiettivo di controllare l’aggressività dell’altro;
– infine la paura può comportare la fuga, l’evitamento della relazione e il ritiro.
A tutti può capitare di usare una di queste strategie in particolari situazioni o contesti di vita, ma quello che succede a chi ha costruito nel tempo una modalità relazionale basata sulla “fobia del legame” è di utilizzare tutte queste modalità in rapida successione e alternanza, mostrandosi talora incongruenti e imprevedibili a loro volta e provocando poi l’effettivo allontanamento dell’altro dalla relazione. Tutte queste modalità sono diretta espressione di un sistema di difesa molto attivo e disfunzionale, che – se non compreso e riconosciuto – rischia di inibire la possibilità di un legame affettivo sicuro basato sullo scambio, sulla fiducia e sulla condivisione emotiva.
Nessun essere umano spaventato è in grado di godere a pieno della presenza, dalla vicinanza e della sintonia dell’altro. Finché sentirà la necessità di difendersi, si difenderà rinunciando a tutto il resto.
Al prossimo contributo strategie e percorsi di cura validi per comprendere meglio questi schemi relazionali.

Cosa condiziona le nostre relazioni?

Attaccamento e relazioni adulte (Prima parte)

E’ esperienza molto comune quella di vivere nelle relazioni per noi importanti conflitti che tendono a riproporsi nel tempo e sempre nello stesso modo. Ad alcuni sarò capitato nella vita di non sentirsi mai capiti profondamente, ad altri di incontrare sempre persone strane,  ad altri ancora di trovarsi sempre soli di fronte alle difficoltà, ad altri di innamorarsi sempre delle persone sbagliate..
A volte le situazioni sembrano così ripetitive da sembrarci una vera e propria congiura!
Tutto quello che ci capita ciclicamente nella vita in periodi e contesti tra loro diversi è di solito fonte di grande sofferenza psicologica e ci lascia talora impotenti e sconsolati. Tuttavia assumendo un atteggiamento più “scientifico” e, se vogliamo, più razionale nei confronti della nostra sofferenza, potremmo iniziare considerare questi fatti  come fonti di informazioni utili su di noi e sulla nostra storia, un modo insomma per conoscerci meglio!
Ma partiamo dal principio.
scimmie attaccL’essere umano, come molti mammiferi, nasce completamente immaturo e bisognoso degli altri per sopravvivere. Nutrimento, conforto e protezione sono completamente delegati agli adulti che ha intorno e questa dipendenza è garantita da due sistemi biologici e innati capaci di attivare rispettivamente nel neonato la ricerca dell’altro e l’espressione dei suoi bisogni – chiamato sistema di attaccamento (John Bowlby)  e nell’adulto le reazioni adatte a soddisfarlisistema di accudimento. La spesso citata “sintonizzazione emotiva” ha a che fare innanzitutto con questa reciprocità biologica e l’attività risonante dei due sistemi oltre che garantire la sopravvivenza, costituisce una primordiale e importantissima esperienza di relazione.
Si inizia qui ad apprendere che i propri bisogni possono essere ascoltati oppure no, che di fronte al pericolo qualcuno interverrà a proteggerci oppure no, che quando stiamo male qualcuno ci soccorrerà, che possiamo esprimere bisogni e paure perché verranno accolte, che non saremo mai lasciati soli, ..
LINUS COPERTANon tutto si giocherà nei primissimi mesi di vita, ma al contrario i due sistemi resteranno attivi a lungo: il sistema di attaccamento si attiverà tutte le volte che il bambino sperimenterà paura o bisogno di cure e quello di accudimento risponderà regolando i bisogni e le emozioni più disturbanti. La capacità di esplorare il mondo e di “allontanarsi da casa” sarà paradossalmente tanto più sviluppata quanto più il bambino sentirà stabile e sicuro il suo legame di attaccamento. Se al contrario la possibilità di accedere al sistema di accudimento sarà intermittente, imprevedibile o addirittura impossibile, il sistema di esplorazione si bloccherà e resterà iper-attivato quello di attaccamento, finché sarà ripristinato il legame.
Questa attività di graduale e reciproca regolazione muove dai bisogni primari (fame, sete, protezione) e si estende alle emozioni primarie (paura, rabbia, tristezza, felicità, disgusto), fino a condizionare via via quelle più complesse (delusione, colpa, vergogna, ..), offrendo un aiuto esterno alla comprensione dei  propri stati mentali, altrimenti difficili da interpretare e comprendere.
Un esempio utile e di facile comprensione è quello delle fobie: nessuno di noi nasce con il terrore dei ragni, poiché si tratta di un animale non necessariamente pericoloso, almeno nelle specie più comunemente presenti nelle nostre case! Tuttavia la percezione di pericolosità del bambino può variare molto in base a come gli adulti intorno a lui hanno reagito alla vista di un ragno: un adulto che prende in mano il ragno e ci gioca, offrirà un’idea di non pericolosità, un adulto che inizierà a gridare o a scappare offrirà un’idea di pericolo, un adulto che porterà via il bambino dalla stanza offrirà forse l’idea che non ci si possa difendere o, più in generale, che non si possano affrontare la difficoltà, …e così via..
Lo stesso meccanismo di apprendimento avviene per la comprensione delle emozioni: può capitare quando siamo piccoli che gli adulti intorno a noi reagiscano alle nostre emozioni negandole, considerandole esagerate, preoccupandosi molto o, nel migliore dei casi, semplicemente accettandole come normali manifestazioni del nostro sentire in quel dato momento. Non sempre tuttavia questo avviene e il susseguirsi di “apprendimenti” negativi legati alle proprie emozioni può compromettere la capacità di comprendere e regolare i propri stati interni . Potremmo cioè diventare – come nel caos dei ragni – fobici verso le nostre stesse emozioni, iniziare a negarle, a giudicarle negativamente o a preoccuparci molto per esse, semplicemente ..perché così ci è stato insegnato!
La comprensione delle proprie emozioni è alla base della costruzione di relazioni adulte positive e soddisfacenti: ci rende capaci di dare e offrire il “nutrimento affettivo” necessario per mantenere un legame per noi importante, ci aiuta a distinguere quello che per noi è fonte di benessere e piacere e quello che invece può essere “tossico” e nocivo alla nostra sopravvivenza emotiva.
Al prossimo contributo riflessioni e strumenti per migliorare le nostre relazioni!

Recensione di "Alaska", film di Claudio Cupellini (2015)

L’insostenibile fragilità del legame.

Fausto (Elio Germano) e Nadine (Àstrid Bergès-Frisbey) si incontrano sul tetto di un lussuoso albergo di Parigi: lui fuma una sigaretta per concedersi una pausa dal lavoro, lei in bikini e piumino blu cerca un accendino per una sigaretta che la aiuti a riflettere. Guardano lontano verso una città fredda e inospitale. Il mondo fuori è complesso e genera dispersione e isolamento, per entrambi difficile da sopportare.
Di seguito trovate la mia recensione pubblicata su State Of Mind:
http://www.stateofmind.it/2015/12/alaska-claudio-cupellini/
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Legame e identità
Le identità dei due protagonisti si mostrano sin da subito fragili, sottili, indefinite, esposte al mondo esterno cui non riesco a mettere un confine chiaro e protettivo, che li aiuti sia a cogliere con entusiasmo le occasioni che la vita offre loro, sia a non farsi travolgere dalle stesse. Le identità fluttuanti caratterizzate da una profonda frammentazione interna e da sentimenti dolorosi che emergono silenziosi dalle loro storie, trovano nel loro legame una soluzione magica e improvvisa alla sofferenza e alla solitudine, al prezzo della possibilità di trovare entrambi una propria identità, solida e autonoma, e di sviluppare un dipendenza che li protegge dal rischio dell’abbandono ma solo finchè la loro unione è sentita solida, simbiotica, indissolubile e animata da forti emozioni.
Nelle loro storie vengono descritti alcuni nuclei di sofferenza centrali presenti nel Disturbo Borderline di Personalità, che spesso è il risultato proprio di storie di abbandono e trascuratezza, che cercano nelle relazioni e nella dipendenza il conforto al dolore dell’abbandono e una soluzione alla frammentazione interna che espone l’identità a ciclici sentimenti di vuoto e angoscia.